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domenica 29 aprile 2012

Maalox (Non voto più/bis)

In questi giorni Sky sta mandando in onda nuove inchieste sulla Casta dei nostri Rappresentanti; io non ce la faccio a guardarle, nonostante veramente vorrei, ma proprio non riesco, mi prende il bruciore di stomaco, altro che le famose casse di Maalox di Ligabue. Sono anche coerente, infatti non sono riuscita neanche a leggere "La casta" di Gian Antonio Stella quando è uscito. I miei ce l'hanno, a casa, e ogni tanto il discorso viene fuori... e giù ulcera.
Tra l'altro, a dire il vero, la cosa che mi dà più fastidio non è tutta la storia dei privilegi, ogni giorno sempre nuovi, ogni giorno sempre di più mentre mezza Italia fa la fame. Gli stipendi dei politici, le loro indennità, le loro pensioni, i vari benefits passati-presenti-futuri tutti a spese della collettività (del resto, perchè Irene Pivetti - che Wikipedia definisce NELL'ORDINE "conduttrice televisiva, giornalista e politica italiana" - non deve avere una segretaria pagata da me a vita? E' così comodo!), ogni giorno scopriamo qualcosa e forse ci stiamo anche abituando, almeno fino al momento in cui scoppierà la rivoluzione. No. La cosa che veramente mi fa andare fuori di testa è un'altra, lo si vede anche dai promo delle inchieste Sky. I politici "giovani" (virgolettato perchè ci metto dentro gente diciamo da Casini in giù, quindi non proprio tutti bambini bambini) hanno capito perfettamente che la bubbana è finita, che non possono tirare la corda ancora per troppo tempo, che l'antipolitica sta montando in modo anomalo, esagerato, forse incontrollato, e rischia di essere una bomba che gli scoppierà in mano. Come nel gioco delle sedie, la musica si interrompe e se non becchi una sedia vuota sei fuori. Giochini innocenti che noi facevamo alle festine delle elementari, i nostri politici li fanno sulla pelle dell'Italia. Hanno mangiato finchè potevano, finchè non sono stati scoperti, e adesso bene o male cercano di blandirci, di prometterci che non lo faranno più, che si impegneranno anche loro a fare sacrifici. Cosa che fa tanto-ma-tanto ridere (detto da gente che possiede decine di beni immobili, ha conti miliardari, non sa quanto costa la benzina e non paga il ristorante), ma almeno ti dà un'illusione di  cambiamento. Poi però ci sono i politici "vecchi", quelli che sono lì praticamente da sempre, quelli che pensano che sia rimasto tutto come cinquant'anni fa, che credono ancora di poterti confondere/infinocchiare a parole, che non capiscono che adesso c'è Internet, c'è scolarizzazione, c'è informazione, e la gente non vuole più essere presa per i fondelli. Ecco, il fatto che Cirino Pomicino pensi di potermi prendere per i fondelli mi dà ancora più fastidio della segretaria a vita della Pivetti. Nel promo Sky Paolo Cirino Pomicino dice una frase agghiacciante; tradotta dal politichese dice più o meno: "E' giusto e doveroso che i politici abbiano stipendi elevati altrimenti sarebbero facilmente preda delle lobby". Vogliamo essere più espliciti? "Se non mi date una valanga di soldi io mi faccio corrompere": questo vuol dire!! E vogliamo mettere i puntini sulle "i": già il fatto che uno lo ammetta così candidamente è allucinante. Uno che in teoria è lì per rappresentare gli italiani, per fare gli interessi degli italiani, non i suoi. E mettiamo anche che gli facciamo finire la frase, ma... se dopo tutto questo (la valanga di soldi, i benefits eccetera) voi VI FATE CORROMPERE LO STESSO, perchè E' COSI', è stra-provato visto che la maggioranza dei nostri Rappresentanti è inquisita per qualcosa, allora noi cosa dovremmo farvi?? Sempre nel promo c'è l'altra cariatide, Gerardo Bianco, che dice che non possiamo toccare le loro pensioni, perchè sono "diritti acquisiti", con una faccia tosta da far spavento. E' vero, SAREBBERO diritti acquisiti, nè più nè meno delle nostre! Del nostro diritto al T.F.R.! Vallo a dire a uno degli esodati, che non è giusto cambiare le carte in tavola! Che fa male cambiare le regole del gioco a gioco iniziato, o allungare il percorso di gara di giusto un paio di chilometri quando tu sei in dirittura d'arrivo, spompato e con la lingua di fuori, ma vedi il traguardo e trovi la forza dello sprint anti-collasso. Qualcuno, vi prego, presto, mi spieghi perchè per far uscire l'Italia dal baratro è lecito (ancorchè doloroso, con tante scuse) mettere le mani nelle tasche degli italiani, per il bene comune, e retroattivamente, calpestando "diritti acquisiti", ma assolutamente non è possibile farlo con le tasche dei Rappresentanti degli italiani. Queste figure ormai in decomposizione, questi ricicli infiniti di parassiti, pensano davvero che basti girare un po' la frase, usare qualche parolona da libro di diritto, perchè l'italiano dica: "Dottore come parla bene, ha sempre ragione lei"? Poteva succedere una volta, forse: "L'ha detto il Dottore, che ha studiato e quindi sa". E il povero italiano illetterato e magari anche appena uscito vanga in mano dal suo campetto accettava qualunque cosa. Ma non nel 2012! Io umanamente li capisco, eh, non sono completamente deficiente, comprendo quanto deve bruciare dire addio all'Eden. E sono anche disposta a stendere il pietoso velo su quello che è successo finora, della serie "fino ad oggi vi è andata bene, da domani si cambia". Ma la presa in giro, quella no. Il credere di poterci fregare ancora, e ancora, e ancora, quello no. Non sono un bambino piccolo, che - per esempio - scalpita nella sala d'attesa del medico e vuole andar via, ma se gli dai una caramella o un foglio e dei colori va bene lo stesso. Gli dici "Adesso usciamo, sai", ma sai benissimo che non è così. Pat pat sulla testa, e ti ho fregato. Io sono l'adulto, tu il bambino, io decido, non tu, e alla fine si entra in ambulatorio. O peggio ancora un animale, un cane al giunzaglio che ha poco da tirare verso destra, se io voglio andare a sinistra do un bello strattone ed a sinistra si va. Anche al cane, pat pat e il biscotto. L'idea che Cirino Pomicino, o Bianco, o tutti quelli come loro, anche solo PENSINO di potermi fare pat pat sulla testa sorridendo "tieni il biscotto, tieni i colori, tanto decido io del mio stipendio che TU pagherai", mi fa montare la bile. Almeno siate onesti, dite esplicitamente: "Non vogliamo che le cose cambino perchè è meglio essere ricchi sfondati piuttosto che poveri in canna, viaggiare in aerei di lusso piuttosto che in autobus, fare le vacanze su isole tropicali piuttosto che a casa propria, andare in pensione a 60 anni piuttosto che a 70". Mi arrabbierei lo stesso, ma almeno parleremmo la stessa lingua! Saremmo sullo stesso piano, potremmo prenderci a sberle. Recentemente un parlamentare ospite in una trasmissione (e non mi sovviene quale, mannaggia) ha detto: "E' impensabile che non ci sia il finanziamento ai partiti: se non l'avessimo, noi non potremmo essere in Parlamento". Ecco, è ESATTAMENTE QUESTO il punto. Chiedetevi se davvero VI VOGLIAMO. Però devo dire che ho apprezzato la franchezza. L'antipolitica è una brutta bestia, e non va bene, perchè i partiti devono esserci. Ma non così. Datemi un Maalox.

venerdì 27 aprile 2012

Treni/ritorno

In treno io amo osservare, un po' per curiosità e un po' perchè ogni cosa diventa spunto per conversazione e riflessione (con chi mi accompagna nel viaggio, oppure dopo a casa). Mi piace immaginare dove stava tutta questa gente prima di salire in treno, le loro vite, le loro storie. Notare tutto ciò in cui siamo diversi, perchè nati in terre diverse, e tutto ciò in cui siamo uguali, figli della stessa Terra. Mi piace perchè riesco sempre a trovare, tra la marea di teste chine che leggono, risolvono i cruciverba, mandano SMS o scaricano le e-mail, una testa che guarda il paesaggio o guarda me. E ci sorridiamo come se, in quel momento, reciprocamente avessimo ben chiaro il famoso "chi siamo-da dove veniamo-dove andiamo". Negli ultimi anni ho sempre viaggiato in prima, che è indubbiamente più comoda, anche perchè molti viaggi sono stati per lavoro e da sola, e mio marito sta più tranquillo sapendomi in un vagone con qualche uomo d'affari interessato più all'andamento della Borsa che a me, piuttosto che attorniata da muscolosi giovanotti sudati con gli zaini. In realtà non vuol dire nulla, visto che l'unica volta in cui mi hanno rotto le scatole in treno è stato proprio durante un viaggio in prima verso Trieste, durante il quale un giovanotto non sudato e senza zaino si è dimostrato più interessato a me che alla Borsa, nonostante avesse il computer acceso e per una buona mezz’oretta avesse parlato al telefono (anzi, all’auricolare pendente, che fa tanto manager impegnato anche se sei in treno e hai le mani libere) di argomenti economici, con la voce quel tantino alta da farsi sentire dal vicinato ma senza disturbare troppo e rischiare richiami, lui sì bravo che capisce tutto di Blue chips, Covered warrant, put/call e via andare. Io in compenso non ho mai capito perchè il fatto che una donna viaggi da sola e sia elegante, truccata e pettinata, profumata e signorile come io sapevo benissimo di essere in quel momento (e attenzione che non ho detto bella, assolutamente), autorizzi un qualunque giovanotto a pensare che detta donna debba necessariamente volere compagnia: bella e sola può andare (magari in maglietta e jeans), chic e sola no. Le solite domande idiote (tra parentesi il pensato, senza parentesi il parlato): “Dove sta andando?” “A Trieste (e a te che te frega?)” “E' la prima volta che ci va?” “ No, ma è passato parecchio dall'ultima (adesso vediamo cosa ti inventi)” “Cosa ci va a fare?” “Vado a pranzo con una persona (ma saranno cavoli miei?)” “Per lavoro o altro?” “Per lavoro e altro (ed è anche grosso e cattivo, stai attento)” “Posso offrirle qualcosa quando arriviamo?” “Guardi, direi proprio di no (ma figurati!)”. Al terzo tentativo di invito a bere o di un passaggio in taxi devi essere diretta, maleducata e un po' stronza, perchè "direi proprio di no" non è mai abbastanza chiaro. Ah, ricordi di treno. In compenso ha accettato il primo no un simpatico ragazzo africano con cui ho amabilmente conversato in inglese una volta, e che era estasiato dalla mia pelle, che non è solo bianca, è mostruosamente bianca: in inverno tende al verdino. Vedere le vene scorrere sotto al polso per lui era sbalorditivo, e mi ha detto chiaramente che se avessi accettato di andare come sua compagna nel villaggio da cui proveniva suo nonno l’avrebbero immediatamente proclamato capo del villaggio. Secondo me mi ha preso in giro, ma il dubbio resta: ora potrei essere la moglie di un capovillaggio africano, o magari invece era solo per mettermi nella stanza dei trofei. Siamo noi europei idioti che pensiamo agli africani come quelli con le capanne fangose e le capre magre; se questo ragazzo era in treno, vestito decentemente e con un inglese fluido, molto probabilmente il nonno aveva un bel palazzotto con le guardie alla porta, e alla sera si godeva l’immenso tramonto africano fumando strana erba, accarezzandosi la vestaglia rossa e viola (attenzione, avete fatto caso quanto i neri amino vestirsi di rosso e viola? Che sta malissimo tra l’altro, secondo me starebbero meglio in bianco e beige), e godendosi i suoi trofei appesi al muro: mani e piedi bianchissimi che spuntano dagli scudetti lucidi, con le vene azzurrine in vista. Sangue arterioso, non venoso.  
Tornando al viaggio in treno, questa volta di Roma siamo andati in seconda, sia per la prenotazione fatta di corsa, sia perchè la differenza non è pochissima (bene o male mi è uscita una fettina dell'acquerello!), ed in quanto ad umanità non c'è paragone. Questa è la girandola dei nostri compagni di nido, vite che hanno incrociato la nostra per un po':
- Una simpatica signora romana che si è accomodata in un posto non suo perchè vicino al suo c'era gente che mangiava e faceva casino. Il controllore l'ha beccata subito ed invitata ad alzarsi, visto che sulle Frecce i posti sono prenotati, non puoi sederti dove ti pare; lei non si è scomposta ed ha proseguito la ricerca di un posto libero in un altro vagone. A volte invidio i romani, con quella loro capacità di fregarsene delle regole; in fondo mi fanno rabbia, ma loro vivono bene (anche se su questa cosa delle regole bisogna che scriva un post a parte).
- Mamma/figlio, erano i titolari del posto occupato dalla loquace romana. Ognuno con il proprio I-phone con auricolare, ognuno con il proprio I-pad connesso (lei guardava foto di cani e si lamentava dell'odore dei bagni). Difficile immaginare la vita di una persona che vive attaccata ad una "I", ma mi incuriosiva perchè lo trovo in contrasto con l'amore per i cani, sempre che fosse amore e non una novella Crudelia DeMon.
- Turisti inglesi anziani: meraviglioso starli a sentire. Parlano il vero inglese, quello della regina Elisabetta, quello che dice YESSSS e non le sue infinite varianti su YEAH, quello che si dovrebbe imparare a scuola, rotondo, pieno di OOOUUU, non l'orrenda brodaglia americana tutta sberequeck tipo Paperino, quello che ancora capisco perfettamente dopo tanti anni senza inglese. Peccato per loro, però. Perchè erano seduti vicino a due ragazze italiane carinissime, che credendo di far bene si sono messe a far conversazione, e parlavano anche un buon inglese, spigliato e giusto. Facciamo sentire a loro agio i nonnini. Facciamo vedere quanto siamo ospitali in Italia. Ridiamo e scherziamo sciorinando tutto ciò che sappiamo sull'Inghilterra, sui reali inglesi e sul tempo. Parliamo ininterrottamente intrattenendoli per due ore e mezza, fino a quando lui non ne può più e crolla. Alla fine le due carinissime scendono, e la nonnina inglese le saluta augurando loro tante buone cose per il viaggio ("and for the rest of your life!" che sembrava più un vaffa), e i due vecchietti si guardano con gli occhi fuori dalle orbite, sospirando a pieni polmoni e giurando che non rimetteranno mai più piede in Italia.
- Coppia di ragazzini sudcoreani in luna di miele (ragazzini per modo di dire, ovviamente, ma dimostravano veramente pochi anni); ho capito che erano sudcoreani perchè lei aveva un pacchetto di cartoline destinate a sconosciute località in "South Korea", ma avrebbero potuto essere comodamente giapponesi per via della macchina fotografica superaccessoriata, di quelle che fanno anche il caffè, con cui lei fotografava ininterrottamente lui che faceva buffe facce. Che bella cosa questa delle cartoline: in quest’era iper-tecnologica anche due iper-tecnologici asiatici sentono la differenza tra scattare una foto e farla apparire immediatamente all’altro capo del mondo, ed inviare un saluto di carta con il francobollo, che farà tanta, tantissima strada ma avrà un ben diverso valore. Allora non sono la sola. Invece che fossero in luna di miele lo si capiva perchè sfogliavano con il ditino digitale foto di loro stessi vestiti da sposi, loro stessi con la faccia del giorno prima e la stessa pettinatura del treno. E poi è l'anno della luna di miele in Italia per i sudcoreani: anche a bordo della Costa Concordia ce n'erano due, e sono diventati famosi perchè non parlavano una parola di italiano e molto poco quasi niente di inglese. E' cominciato il disastro e loro buoni buoni zitti zitti se ne sono tornati in cabina, fino a quando uno dei pochi angeli che si preoccupavano dei passeggeri ha bussato alla porta dicendo più o meno: “Scusate stiamo affondando, potreste cortesemente uscire e salvarvi?” Nel documentario (il primo di molti che seguiranno) visto su Sky hanno raccontato che si erano messi  a dormire (!), e si vedeva lei ripresa nella scialuppa di salvataggio con il viso incredulo e la Concordia sdraiata sullo sfondo. Io in treno guardavo i miei due (affettuosi, sorridenti, che si scambiavano chissà quali tenerezze in una lingua cantilenante come i versi di Bruce Lee prima di colpire) e pensavo "chissà se sperano che il treno deragli per andare in prima pagina". Dolci. Come sempre lei più sveglia di lui (la maggior parte degli orientali maschi non ha un’espressione molto sveglia), ha trovato lei il modo di adattare la presa di corrente del cellulare multifunzione di lui, dopo che lui aveva perso l'uso del braccio sinistro per tenere su la spina con la mano nella presa delle Schuko (nelle Frecce la spina è praticamente sotto i piedi). Lei sfogliava una guida dell'intera Italia non troppo grossa per essere dell'intero nostro Paese (credo che il pacchetto nozze preveda una sorta di Roma-Firenze-Venezia, mentre io pensavo alle meraviglie racchiuse nei nostri centri minori che nessun coreano vedrà mai, e purtroppo nanche molti italiani...), ed aveva biglietti del treno e prenotazioni di alberghi già pronte. Per Venezia dovevano scendere a Mestre ed alloggiare in un hotel due stelle nella rinomata zona di fine Via Piave, quella commercialmente tutta in mano ai cinesi e territorialmente in mano alle bande di neri (lato pari) e albanesi (lato dispari), dove se passeggi disarmato dopo le cinque di pomeriggio rischi una coltellata, se ti va bene. Li ho pensati per un po' di giorni.
- Coppia di ragazzi stile nordico (danesi? olandesi?), in maglietta smanicata e sandaletti (da notare che noi eravamo tutti in felpa o di più ancora). Il treno partiva alle 08.45 e loro hanno fatto colazione con pane, prosciutto e pomodori direttamente dalla vaschetta. Sporchi e unti come pochi, capelli, viso, mani che non vedevano il sapone da minimo una settimana; due tipi da romanzo. Lui anche bellino, tipo cattivo dei film con faccia intelligente, ha scritto fino a Firenze su un computer della Apple mai visto, luminoso e sottile come un foglio di carta che mi faceva voglia di toccarlo per vedere se era vero. Lei invece scriveva a mano su un diario con pennarelli di vari colori, con i biglietti dei musei e del treno incollati tra le frasi, cose che facevo io trent'anni fa e che stonavano se accoppiate al foglio luminoso e hi-tech del compagno di viaggio. Chissà se nella vita sono davvero così o magari è lei l'astronauta e lui il bibliotecario.
- A Firenze, scesi i due olandesi odorosi, è salita una immensa comitiva che in realtà era formata da tre coppie con vari bambini l'una. E' stato bellissimo ed istruttivo, perchè quando ci sono bambini che disturbano (ed in treno le parole "bambini" e "disturbo" sono cosa unica, soprattutto quando scoprono che sopra la tua testa c'è una lucina a led che possono attivare loro montando in piedi sul sedile dietro al tuo) scatta immediatamente una sorta di solidarietà tra tutti gli altri passeggeri. Sguardi d'intesa, sorrisi, risatine in tutte le lingue del mondo. E unico, immenso, arriva l'Argomento di Conversazione: l'educazione dei figli. Questi in verità non erano neanche terribili, e poi erano toscani e come già ho detto io ho un debole (come non essere felice per qualche chilometro all'udire un papà che tuona: "V'ho dettho dhi sthare BHONI!" con una "o" larghissima, che per noi veneti vale il prezzo del biglietto). Ma erano tanti, e di varie età, e prima o poi arrivano le urla. Le urla ferme del bambino già grande che vuole un panino perché “è già passata un’ora dall’ultima volta che ho mangiato!”, alla faccia delle raccomandazioni contro l’obesità infantile. Le urla del bambino di sei anni che vuoooole il pennareeelloooo roooosaaa che sta usando la sorellina (e la mamma lo strappa alla sorellina e glielo dà, dicendo "altrimenti continua ad urlare", e così lui cresce convinto che basta urlare per ottenere, diventerà per certo un mio Cliente da grande). Era il papà di questo del pennarello quello dei BHONI, era anche bravo lui che li riprendeva, mentre la mamma continuava a dire “ma no, lascia che giochino, lasciali fare, lascia che vadano in giro, lascia che si sentano liberi” (bastarda!): come spesso vedo, i genitori moderni danno ai figli messaggi diametralmente contrastanti, così i figli che tutto sono tranne che stupidi fanno sempre e comunque quello che vogliono, ascoltando quello dei due che in quel momento comoda loro, e grazie tante da parte degli altri passeggeri del treno (o della vita). Ci sono poi le urla del piccolino di due anni, tipiche di quell'età quando sono stanchi e hanno fame e sonno ma non capiscono bene e quindi piangono e basta. Io non ho avuto bambini ma come baby-sitter ne ho sbracciolati parecchi e so riconoscere un pianto isterico. E tu mamma è inutile che continui a dirgli "Zitto che chiamo il capotreno, stai buono che arriva il capotreno, attento che il capotreno ti fa scendere"... E' evidente che se lui continua ad urlare o NON HA PAURA del capotreno (che sarebbe poi una figura positiva, logico che non incuta tutto questo terrore) e quindi devi trovare qualcos'altro che lo spaventi, oppure è meglio che segui un'altra via. Alzati e portalo in corridoio, fagli prendere un po' d'aria, dagli da bere un po' d'acqua. Oppure dagli un sano ceffone, mica dico che voglio veder scorrere il sangue, ma un bella sberla sulle braccine o sul sederino a volte fa miracoli. Intanto se il pianto è isterico è modo per interromperlo e far tornare in sè il pargolo; se poi sono capricci non parliamone neanche, direi che diventa doveroso quanto meno per ripristinare l'autorità. Io ne ho prese, di sberle: mio papà era specializzato in pizzicotti, che io esibivo come trofei quando la macchia da rossa diventava bluastra, in modo da farlo sgridare dalla nonna (ma lei non ci faceva caso più di tanto), e non mi sembra di essere venuta su così male. Adesso invece i bambini secondo i moderni educatori non si possono e non si devono neanche sfiorare, come in molte cose siamo passati da un’esagerazione all’altra. Devo dire però che qualcosa di somigliante alla storia del capotreno mangiabambini veniva usata erroneamente anche nella mia famiglia molti anni fa: mia zia (quella del lago di Como) era solita riprendere i capricci e le lagne della mia cuginetta con minacce del tipo “Chiamo il vigile” “Chiamo i carabinieri”, e tutte le varianti (polizia, prigione eccetera). Cosa per me assurda e sbagliata, tant’è che mia cugina è cresciuta pensando che tutti questi signori fossero I CATTIVI, quando vedeva un vigile scoppiava a piangere, con il rischio concreto che da grande in una città sconosciuta andasse in cerca per avere informazioni sullo stradario di qualche spacciatore di droga! Ho capito che nell’era di Internet nessun bambino crede più al Babau o all’Uomo Nero, ma almeno mia mamma aveva identificato la massima minaccia negli zingari giostrai che rapiscono i bambini, e ci ha permesso di crescere con la fiducia nelle Forze dell’Ordine. La mia mamma, del resto, era la più giusta tra quelle tre sorelle matte; mio papà mica ha scelto lei per niente.

Treni/andata

Mi piace viaggiare in treno, parlo di viaggi lunghi e confortevoli, non di pendolarismo in piedi da studente. Non lo faccio spesso, ma quando lo faccio diventa una pausa obbligata da gustare dall'inizio alla fine. Mi piace il fatto che, una volta deciso l'orario, il resto non sia più modificabile: sei sul treno, al tuo posto, non puoi decidere niente, non devi fare niente altro che viaggiare, o al limite se vuoi ti concedi gli annessi e connessi tipo leggere, risolvere cruciverba, mandare SMS, scaricarti le e-mail, ma sono tutte cose che io non faccio perchè posso farle anche a casa, non avrebbe senso sprecare tre ore di treno con qualcosa che posso fare a casa mia. Quando si viaggia in macchina c'è potere decisionale (prendere una strada piuttosto che un'altra, fare una pausa per un caffè, per il bagno o anche solo per sgranchirsi - spesso le tre cose insieme per ottimizzare i tempi), oltre al fatto che ovviamente si guida, e quindi ci si deve concentrare su quello. Solitamente mio marito è quello che guida e si concentra, mentre io gestisco gli argomenti di conversazione e - tipico delle mogli - ogni tanto gli chiedo di frenare o non stare troppo attaccato all'auto che ci precede. Me la cavo benissimo come navigatore, e devo dire che cedo malvolentieri questo ruolo all'apposito apparecchio, obbligatorio quando si devono attraversare città sconosciute; tra una città e l'altra però me lo riprendo, come quando da bambina andavo in vacanza con la famiglia dalla zia sul lago di Como. Viaggio lungo, in cinque dentro una Fiat 850 Special bianca con gli interni rossi (il gatto è arrivato dopo), io seduta dietro alla mamma e mio fratello seduto dietro al papà che guidava, con mia sorella in mezzo a fare da barricata per evitare scaramucce. Tenevo in mano per tutto il viaggio l’Atlante Stradale Nord Italia del Touring, quel librone largo e fino con la copertina bordeaux gommosa che si scollava solo a guardarla; lo conoscevo a memoria: partenza dall'anonima città scritta in nero e basta, che non merita di essere visitata neanche dal "turista affrettato" (ma vicina vicina a quella con la banda verde grossa grossa che "merita un viaggio"), autostrada fino a Dalmine e poi su verso e lungo il lago. In base alla scala della Guida, a un centimetro corrispondevano due chilometri, e io sentenziavo pian pianino dal mio angolo dietro a destra: tra due chilometri passeremo sotto ad un viadotto, oppure tra quattro chilometri passeremo sopra un corso d'acqua, tra un chilometro oltrepasseremo il tal casello o passeremo per il tal paese. Così per quattro ore, tante ce ne volevano in cinque in una Fiat 850 Special: la strada per la santità dei miei genitori è sull’Atlante del Touring.
In treno invece non si suggeriscono itinerari, è già tutto pronto. Mi raggomitolo nella mia poltrona, che per quelle tre orette sarà il mio nido protettivo, e mi gusto le due cose tipiche del treno: paesaggio e umanità. Il paesaggio che scappa via, lo vedi da dentro a fuori, veloce ma non troppo. Mi piace osservare che qui, in Italia, non c'è soluzione di continuità neanche in mezzo alle campagne emiliane, o alle risaie del Piemonte, o le colline toscane: c'è sempre "presenza". Città, capannoni, supermercati, parcheggi. Casette, animali, persone. Verde, marrone, grigio, bianco. Non sono mai stata negli Stati Uniti d'America, ma mi immagino chilometri e chilometri di nulla totale intorno. La buona vecchia Europa invece ti mostra sempre qualcosa: un volto, una chiesetta, una fila di pini. Trovo sia estremamente rinfrancante. Ricordo una cosa che mi aveva colpito moltissimo all'Università, durante il corso di Storia della lingua italiana (o forse era Dialettologia, non ricordo e del resto è passato parecchio tempo): se provassimo a partire a piedi da Trieste verso il Veneto, e poi proseguissimo fino al Piemonte, e poi giù sempre a piedi per tutta l'Italia fino alla Sicilia, riusciremmo a comprendere perfettamente tutti, anche se si esprimono in dialetti che – se ascoltati dal nulla - ci sembrerebbero incomprensibili. Perchè è tipico dell'Italia non avere interruzioni brusche, non avere barriere naturali, per cui le varie parlate si fondono nelle zone di confine trasformandosi con naturalezza, e quindi un percorso dolce e graduale come appunto quello fatto a piedi permetterebbe una altrettanto graduale comprensione (cosa che ovviamente non può avvenire se io veneta sbarco di colpo con l'aereo in Sicilia, ad esempio). E poi mi piace come ogni luogo ha il suo paesaggio: anche senza leggere i cartelli delle Stazioni potrei dire esattamente quando si entra in Toscana, basta guardare gli alberi, io e mio marito li chiamiamo "gli alberi Masi" per come li dipingeva il compianto Roberto Masi, erano la sua firma, uno in ogni quadretto (che poi sono cipressi ma non i cipressi che abbiamo noi qua, sono più cicciotti e meno appuntiti). Gli alberi Masi che ad un certo punto spariscono, e allora capisci che sei in Lazio. Oppure quando si va verso Milano, e le campagne perdono i nostri tipici colori per diventare un po' più grige (per non parlare delle tratte in cui si vedono le montagne: le Alpi lombarde sono tracagnotte e scure, sono le sorelle brutte delle Dolomiti).
Poi c'è l'umanità. Per quelle tre ore si verifica una sorta di convivenza forzata tra sconosciuti, mica come i viaggi in macchina in cui scegli con chi viaggiare; ma parlando di Uomini questo post rischia di diventare troppo lungo (evidentemente i treni mi ispirano), e quindi per la parte umana del viaggio giriamo pagina.

martedì 24 aprile 2012

L'Ora Eterna in una eterna città (ma quanto mi piacciono i chiasmi)

Siamo entrati ufficialmente a far parte del Fans Club di Marcello Scuffi, virtualmente presieduto dal Professor Faccenda, perchè abbiamo prenotato il quinto. Niente treni neanche questa volta, ma un acquerello che è una meraviglia; una delle sue Nature morte (che lui chiama Tavolozze realiste) con i bicchieri dei pennelli, l'uovo, ed il filo rosso che viene giù. E non è un acquerello qualsiasi, pare quasi un dipinto ad olio tanto è intenso, se non fosse che vedi la carta porosa sui bordi. Bellissimo. Per fortuna che gli acquerelli di Marcello costano ancora poco (non ho nemmeno voluto sapere quanto, tanto lo so già che Giuseppe Orler ci tratta sempre bene), perchè non era spesa prevista, ma come avrei potuto ignorarlo? L'ho sentito dire recentemente anche da Basilico a proposito dei tappeti antichi; Davide Basilico ha uno stile di conduzione televisiva estremamente professionale, pacata e tranquilla (con qualche frecciatina ogni tanto - che sta sempre bene - contro i furbetti del guadagno facile, dell'affarone, della bella pensata, e che mi trova sempre perfettamente d'accordo). Non si sgola neanche se lo supplicano, e perchè dovrebbero del resto, lui stesso lo dice: abbiate pazienza, non vi affannate, prima o poi troverete l'esemplare che entrerà in dialogo con voi, così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e capirete che è arrivato il momento di avere un tappeto antico. A me è successo con questo acquerello, uno in mezzo a tanti altri: stava lì, quando ci sono passata davanti mi ha salutato, e ho capito che non ne avevo comprato un altro prima, e nanche i famosi treni (che pure arriveranno, un giorno), solo perchè stavo aspettando lui. O lui me, che poi è la stessa cosa. Ammetto che la cornice del Chiostro del Bramante aiutava la propensione, ma sarebbe successo anche in mezzo alla strada. L'ha capito anche mio marito, ha visto che avevo un qualcosa negli occhi, ha avvertito quel dialogo muto, e ha detto subito: "Lo prendiamo noi, vero?" Gongolava sotto i non-baffi, questa volta non ha neanche dovuto insistere. Ne parlavamo poi, rientrati in albergo prima di prendere sonno: facendo due conti nell'ultimo anno (e direi a spanne anche più in là, fino a Natale) tutto quello che ho guadagnato, tolte le tasse, il mutuo, le bollette, il pane eccetera, l'ho speso da Orler. E poi dicono che i soldi non fanno la felicità: a me la fanno, basta portarli a Giuseppe. Ogni cosa che dalle Gallerie Orler è entrata in casa mia è un pezzetto di felicità, gliel'ho anche scritto lo scorso anno, in un momento di slancio epistolare: se l'arte è una malattia, voi siete la cura.
Non era previsto comprare niente, ma se è per questo non era previsto neanche andare all'inaugurazione della Mostra di Marcello Scuffi "L'Ora Eterna" nel Chiostro del Bramante a Roma, visto che era di giovedì e per me è un po' complicato liberarmi dall'ufficio nei giorni feriali; poi però ogni cosa è andata al suo posto: gli appuntamenti della settimana, gli orari del Frecciargento, il Bed & Breakfast libero a 30 metri dal Chiostro, e ci siamo trovati lì, meditando su quanto è pazzesco il progresso della specie umana. Alla mattina alle 11 ero al lavoro, e neanche sei ore dopo respiravo l'aria della Città Eterna, davanti al Bramante, profumata e vestita di tutto punto (con tanto di tacchi a spillo, che con i sampietrini sono l’ideale, ma nelle valigie fatte di corsa c’è sempre qualcosa che non va...). Penso a secoli addietro, quando un viaggio del genere richiedeva settimane a cavallo, o a piedi, tra pericoli e disagi infiniti, e per una volta il progresso piace tanto anche a me.
Marcello ha scelto per questa esposizione vari quadri dei suoi soggetti tipici e cari (le barche, i treni, il circo) che io ho definito "freddi": tanto colore grigio, colore di ferro, colore di sabbia. E' freddo anche il rosso, in questa serie di quadri, si potrebbero definire quadri invernali. E' strano perchè le marine di Scuffi rappresentano sempre e comunque il mare in inverno (le barche in secca, le reti addormentate, una solitudine aleggiante), ma queste marine qui sono un po' più ghiacciate delle altre. Non sono in assoluto i quadri che preferisco, ma è cosa del tutto soggettiva, evidentemente in questo momento della sua vita Marcello sente di dover comunicare questo, e va bene così. Del resto, se avesse portato dei treni da urlo, non avrei sentito il saluto sussurrato del "mio" acquerello, e sarebbe stato un vero peccato.
A costo di comportarmi come la brava scolaretta che ero alle elementari alle prese con i pensierini, faccio per me stessa una girandola delle emozioni di quel giovedì sera, opere di Scuffi a parte, ovviamente:
- Roma: è sempre Roma. Caotica, pulsante, viva, unica. Non ci abiterei mai, io sono provinciale dentro, la grande città un po' mi spaventa. Ma è sempre bello ritrovarla ogni tanto, e devo dire che questa volta l'ho trovata anche particolarmente pulita ed in ordine, considerando quanto è difficile. E' vero, abbiamo dormito poco o niente per gli schiamazzi, ma fa parte del suo fascino. E' vero, ci siamo persi ritornando indietro dal ristorante, ma vagare per i vicoli tra le botteghe aperte fino a tardi, sentendo frasi in quella tipica calata che sa tanto da telefilm ogni tanto ci vuole, fa sentire distante qualunque preoccupazione legata all'ufficio, alla produzione, ai Clienti.
- Viaggiare in treno: a me piace un sacco, e quindi questa emozione avrà un post tutto suo.
- Il Bed & Breakfast: doveroso, perchè Roma è mostruosamente cara, chi ce la fa a dormire in hotel (e io, mi dispiace, sotto le tre stelle non scendo, non esiste, mi spaventa l'idea di condividere il bagno ai piani con un tedesco peloso); il gestore era un tipo alternativo, quando ho prenotato ho voluto la conferma che fosse davvero vicino al Chiostro, perchè dovevamo andare lì, alla Mostra di un pittore amico nostro. Lui mi ha chiesto se era Mirò. Amico sì, di famiglia.
- I quattro moschettieri toscani schierati fronte camera: Olivi, Faccenda, Scuffi e la graziosissima critica d'arte Elisa Gradi hanno conquistato Bramante, Roma, i romani e me. Dario Olivi, che deve parlare solo stando in piedi per deformazione professionale (come lo capisco! A me succede esattamente il contrario, devo avere la scrivania, altrimenti non metto un concetto dietro l'altro), lui Scuffi l'ha praticamente scoperto, e adesso se mentre parla gli guardi gli occhi vedi che è un po' diviso in due tra la gioia di vederlo finalmente amato da tutti e riconosciuto tra i grandi, ed il dispiacere di doverlo condividere con altri. Giovanni Faccenda (che, per dirla alla toscana, quanto mi garba!) di mestiere fa il critico d'arte perchè è esattamente quello: uno che ama l'arte, che vive d'arte, e si vede da lontano. Uno che se gli vai a dire che hai appena prenotato un acquerello molla lì la gente con cui sta parlando, e viene a vedere quale acquerello, e a farti i complimenti. Uno che quando parla mi trasmette la stessa competenza e piacevolezza di Sgarbi, solo che lui è normale, meno personaggio e più umano, il che è decisamente meglio. Marcello Scuffi è sempre lui, anche se per l'occasione fumava e non avrebbe potuto, visto quello che gli è successo e che ci ha spaventato tutti; mi ha autografato il catalogo scrivendo "con amicizia" (la prima volta, dietro al quadro del circo, mi aveva scritto "con stima", direi che adesso mi sono meritata la tessera del Fans Club). Mi scuso con Elisa Gradi, ma non la conoscevo rispetto ai noti nomi che hanno vergato il catalogo, del resto se non è giovanissima di sicuro lo sembra, e sono certa che ben presto il suo lavoro uscirà dai confini di Toscana e dintorni. Un bel musetto da gattina, stile Carla Bruni pre-botox. Anche lei aveva i tacchi alti come me (tra l'altro aveva bellissime scarpe!), e quando all'uscita dal Chiostro Roma ci ha salutato con un acquazzone solido eravamo le due più imbranate su quelle stramaledette pietre, tanto valeva condividere lo stesso ombrellino, e così è stato: abbiamo saltellato insieme fino ai taxi di Piazza Navona, parlando di Scuffi e di scarpe.
- Stefano da Roma, cognome ignoto. Amico come noi della Vecchiato Arte e come noi appassionato di Rabarama, l'avevamo conosciuto al vernissage dei marmi monumentali, a Firenze. L'ho scritto anche a proposito delle Fiere d'arte: è bello vedere come questa passione comune unisce da Nord a Sud, è come seguire la Juve in trasferta e ritrovare puntualmente gli stessi volti amici. Lui qua giocava in casa, da questo punto di vista deve essere bello vivere a Roma, ogni sera una Mostra diversa, un nuovo evento; lui abita addirittura vicino al Chiostro: ha visto ed è entrato, ci ha riconosciuto lui. Non ha ancora uno Scuffi, ma una marina piccola piccola gli ha fatto l'occhiolino, se son rose fioriranno. Il suo problema è che sua moglie non condivide questa passione e quindi a vedere le Mostre ci va da solo (e senza il libretto degli assegni); infatti lui ci invidia parecchio, e noi siamo consci della fortuna che abbiamo. Chiacchierando gli abbiamo parlato dei prossimi progetti, quando avremo onorato i nostri attuali impegni, e lui ha riso facendoci notare che l'anno scorso, in Giugno, avevamo detto esattamente le stesse parole! E' vero: soldi a Orler, felicità a noi. Non abbiamo figli, non vogliamo essere i più ricchi del cimitero: felici, insieme, oggi. E' semplice.
- Cena tipica romana tutti insieme (in piena tradizione Orler), anche se mai e poi mai assaggerò la coda alla vaccinara, mi fa orrore solo pensarci, e poi tutto quel sugo, non ho perso dieci chili per niente. A mio marito hanno detto: “La dovete assaggiare, dentro c’è la parte dura”; e lui ha risposto serafico: “Certo, quella con cui la bestia scaccia le mosche”. La vaccinara mi sibilava dietro, e così ho pure dimenticato le custodie degli ombrelli in ristorante. Però eravamo a tavola con una coppia bresciana squisita: simpatici ed intelligenti, dai discorsi e dalle parole (anche se preferiscono Sgarbi a Faccenda, glielo lascio con tutto il cuore), matti arte e Orler-dipendenti come noi. Lui addirittura le nasconde i quadri nuovi in cantina, per poterla blandire prima di confessare l’ultima spesa. Lei non credeva che esistesse uno più malato di suo marito, visto che a qualunque ora del giorno o della notte accende la televisione l'ultimo programma visto è sempre e solo Orler TV, ma poi la mia dolce metà ha sciorinato l'intero palinsesto satellitare dei canali d'arte stupendoli con effetti speciali, e si è tranquillizzata. Sarà bello incontrarli ancora, al prossimo Evento Orler.
- Colazione in un posto strano: una caffetteria-libreria, allora esistono! Del resto siamo a Roma, basta immaginare qualcosa perchè possa esistere. Non ho guardato bene perchè c'era un gran viavai, e poi le nostre attenzioni erano concentrate sulla colazione, compresa nel costo della camera e concordata con il B&B: brioche, cappuccino e succo di frutta. Sottolineo "E" succo di frutta, non "O" succo di frutta, come credeva, o pensava di credere, la barista birichina (facciamoci riconoscere sempre da tutti i turisti stranieri al modico costo di un succo di frutta). Io ho un sogno non troppo nascosto, condiviso con la mia amica del viaggio a Marrakech: aprire una sala da tè (con tutti i tè del mondo, i vari modi per degustarlo, gli accostamenti con i dolci eccetera) con angolo libreria, o meglio ancora biblioteca. Libri da leggere lì o da leggere a casa, ma sempre da riportare lì, da condividere con gli altri: un angolo di tranquillità fuori dal mondo, per chiacchierare e ritemprarsi fra un tè e l’altro. E tanti quadri (tutti assicurati). Ci sono ottime probabilità che sogno rimanga, perchè di questi tempi anche solo pensare di aprire un'attività nuova e così stramba è pura follia (soprattutto lasciando un lavoro statale quanto meno sicuro - come lei - o comunque un lavoro che ha ancora entrate decenti - come me), ma i sogni mica costano, per cui continuo a sognare.



P.S. A proposito di sogni. Ho scritto questo post ieri l’altro: una domenica in cui Rafael Nadal solleva per l’ottava-dico-ottava volta consecutiva il trofeo di Montecarlo (battendo – finalmente! – l’iperbarico Nole, per quanto fosse psicologicamente giustificato) e la Juve rifila quattro-dico-quattro pappine alla Roma non può che vedermi in uno stato che rasenta la beatitudine. Ah, quegli 8 secondi del 2004 che su Youtube saltano sempre fuori, con Totti che fa ssst a Tudor e ci fa il gesto di andare a casa: vendetta e ancora sempre tremenda vendetta.    

domenica 22 aprile 2012

Quando ho voglia non ho tempo, quando ho tempo non ho voglia

Succede esattamente questo, e mi dispiace, perché l’appuntamento quotidiano con la mia paginetta web era un bel modo per iniziare la giornata. Mi rendo conto che sono passati più di quindici giorni da quando ho postato l’ultima volta, un lasso di tempo mai lasciato passare prima, da quando ho aperto Trecose. Non che sia rimasta senza idee, anzi a dire il vero ho sempre il mio file Word “Post” che mi aspetta, con le tracce di qualcosa di abbozzato che sonnecchia, in attesa che io lo butti giù dal letto e lo faccia diventare più grande, lo faccia correre. Ce ne sono almeno tre, di post dormienti; e poi si sa, uno tira l’altro, come le ciliegie: scrivo di una cosa che mi è successa e basta una parola, una frase, per accendere la lampadina dell’argomento successivo.
Ultimamente mi sento come quando si esce da una influenza tosta, di quelle che ti picchiano tutte le ossa e non puoi fare altro che star disteso a letto o in divano sotto la copertina, tanto se ti alzi ti gira tutto: testa, stomaco, libreria. Sei lì disteso e ti agiti pensando a tutto ciò che ti aspetta al lavoro (le normali dieci ore giornaliere diventeranno dodici per qualche giorno, per smaltire l’arretrato), finchè comprendi che in fondo puoi girarti dall’altra parte, tirare su la copertina e dormire-dormire-dormire, oppure leggere tutto un libro e non un capitolo smozzicato alla volta (giramenti di testa permettendo), e sei anche giustificato, come a scuola! Parentesi: non erano bellissimi quei momenti in cui tutti tremavano in attesa del nome di chi doveva uscire interrogato, con il professore che andava su e giù con il dito sul registro dalla A alla Z, dalla Z alla A, seguendo chissà quale criterio complicatissimo per designare il Martire, mentre tu invece placido come un gattone che si stiracchia al sole avevi appena esibito il foglietto salvifico: “Mio figlio Tizio Caio non ha potuto prepararsi adeguatamente causa motivi familiari, si pregano i Sigg.ri Professori di esentarlo da interrogazioni in data odierna”? Io l’ho sfruttata poche volte, ma il senso di benessere me lo ricordo ancora, che poi non è lo stesso di quando all’ultimo anno di Liceo ti puoi firmare le giustificazioni da solo, i permessi di entrata e uscita, tanto sei maggiorenne; a quel punto perde tutto l’appeal. La giustificazione produce benessere se firmata dai genitori, è l’avallo dell’Autorità che conta. Altra parentesi: chi ha mai capito il criterio con cui certi Professori chiamano il Martire? Noi impazzivamo: ce n’era una che apriva un libro a caso, leggeva il numero della pagina e sommava le cifre (io non capisco niente di calcoli, ma non è che così rischiano di uscire certi numeri più spesso di altri?). Un’altra seguiva diligentemente l’ordine alfabetico, ma rigorosamente fino alla C, e poi ricominciava dall’inizio, di nuovo tutti fino alla F, e poi dall’inizio, e via così, con il risultato che il mio compagno di classe Agazzi alla fine dell’anno poteva contare su una quindicina di chiamate, mentre Zennaro doveva rincorrere la Professoressa nei bagni pur di farsi interrogare e non avere un buco in orale. Io ho il cognome che comincia per B (ero la seconda, dei B), e le mie dieci interrogazioni erano di prassi. In quinta abbiamo messo su anche un giro di scommesse a soldi per capire quante volte sarebbe toccata ad Agazzi. Terza parentesi, e poi le chiudo tutte in un colpo (tonda, quadra e grafa): il massimo però era il Professore di Biologia, elemento che per ben due volte mi ha fatto un tiro di questo genere: gli porto la giustificazione al lunedì, perché fatalità avevamo biologia giovedì e lunedì, e quando per “motivi familiari” dovevo assentarmi tutto il weekend venerdì compreso era evidente che i compiti dati giovedì per lunedì non potevano essere fatti; ci poteva arrivare anche da solo, ma era sempre meglio munirsi di giustificazione. Quest'uomo non trovava di meglio che dire, con la mia giustificazione in mano: “Bene, allora già che sei qua fuori dal banco – la giustificazione andava ovviamente consegnata alla cattedra – fermati che facciamo un bel ripassino che ti vale come orale”. Chiedendomi la roba del giovedì. La prima volta mi ha spiazzato, pensavo addirittura che mi prendesse in giro, magari voleva solo far ridere la classe (oppure far vedere che lui, in quel momento, aveva potere di vita e di morte su di noi, potere che oltrepassava quello paterno e materno, evidentemente: chissà che vita di m/da aveva a casa, se ne veniva fuori così frustrato). La seconda mi sono rifiutata di farmi interrogare su argomenti che era già chiaro in partenza che non avrei saputo, spiegandogli senza giri di parole cosa pensavo di lui e del suo curioso tempismo. E visto che a scuola io andavo abbastanza bene (per usare un eufemismo), non ci potevano essere equivoci. Lui, per la cronaca, si ricorda di me ancora oggi, lo so per certo, perché mia sorella l’ha incontrato durante una visita guidata ad una Mostra sulla Preistoria (lui era quello che spiegava i dinosauri ai bambini), e solo sentir nominare il nostro cognome l’ha fatto sorridere. Sotto ai dinosauri.
Ma torniamo all’influenza; lei ovviamente poi passa, e quando sei al lavoro oberato ed ansioso quasi ti trovi a rimpiangere quei due giorni di ozio totale; forzato, ma totale. Ozio che volontariamente e responsabilmente non potresti mai permetterti.
Direi che a me è successo più o meno così; a fine Dicembre mi è passato sopra un treno, un treno bello grosso, che evidentemente ha generato quattro mesi di stasi. Quattro mesi durante i quali, se avevo voglia di scrivere, me ne fregavo del resto e mi mettevo a scrivere, cacciavo lì la giustificazione e giravo le spalle, mentre adesso c’è sempre qualcosa di più urgente da fare, e rimando. Quattro mesi di divano e copertina per testa e cuore, fino a quando il cinghiale - quello del post del 10 Gennaio -  decide che è ora di scendere dai tuoi polmoni ed andare ad appesantire il respiro di qualcun altro (e ovviamente assieme al cinghiale se n’è andato anche il buon Di Cataldo, mi ha lasciato lo scudo e fatto ciao ciao con la manina). Sapevo perfettamente che sarebbe passata, anche se non avevo idea di quando, ma forse il bello di questi dolori di vita è anche questo: sai che andranno via, basta solo arrivarci. Avere pazienza, tanta, perché passare da cento a zero in una sera fa un male boia, e quindi devi elaborare tutti i ricordi, conservare quelli belli che faranno sempre piacere, smussare quelli così così ed eliminare quelli cattivi (non ha senso farsi male da soli). Passare da una telefonata ogni giorno, da una risata ogni giorno, da una confidenza ogni giorno, a niente. Poi una telefonata arriva più o meno dopo due mesi (più o meno un corno, diciamo pure dopo esattamente sessantaquattro giorni), durante la quale ti accorgi che qualcuno sta facendo ancora manovra col famoso treno, e rischia di passarti sopra un’altra volta come niente fosse, allora ti scansi, e prendi un altro binario, via e lontano. E quando stai bene davvero, e sorridi, ti imponi di continuare a scrivere, anche se vuol dire svegliarsi mezz’ora prima, perché non è più questione di divano e copertina, è diventato parte vera di te anche questo. In fondo non era questo che volevi? 

venerdì 6 aprile 2012

Generazione di fenomeni

Io sono della generazione di bambini che andava a letto dopo Carosello. Mi ricordo perfettamente tutta la trafila: si mangiava, tutti insieme, si guardava Carosello, tutti insieme, e poi a letto, con mia mamma che veniva a spegnerci la luce mentre io e mia sorella – coricate di lato - tenevamo gli occhi chiusissimi e strizzatissimi neanche fossimo sotto tortura,  e le mani giunte tra il cuscino e la guancia, in una posa assolutamente innaturale. Però la mamma diceva, puntualmente: “Oooohh, come dormite già beeeene!!”, e noi due ebeti convinte sul serio che se la fosse bevuta (è tipico dei bambini pensare di riuscire ad infinocchiare i grandi con poco) sussurravamo le nostre chiacchiere e le nostre favole da bambine, ridendo di complicità, finchè arrivava il sonno vero.
Carosello non era semplice pubblicità, erano tutti dei cortometraggi, dei piccoli capolavori, tant’è che spesso ancora adesso ci si ricorda tutta la storiella, tutta la musichetta, ma non sempre ci si ricorda quale prodotto era reclamizzato. Quando il mezzo supera il fine.
Ad ogni modo, evidentemente questa cosa del Carosello mi ha marchiato a vita, perché mi piace osservare la pubblicità ancora adesso. Non dico che fremo di gioia ogni volta che la puntata clou della mia serie TV preferita si interrompe, anche perché oggigiorno (visto il progresso) i prodotti non sono cinque, ma cinquemila, e spesso l’interruzione è lunga, ripetitiva e fastidiosa. Benedetta la SKY ed il suo decoder, noi registriamo tutto e guardiamo in differita, così con il tasto “avanti veloce-più veloce-velocissimo” deteniamo il Potere. Dico però che, quando c’è una pubblicità nuova, mi piace guardarla, per vedere come la tal azienda ha deciso di trasmettere il tal messaggio. Mi piace studiarne le tecniche di comunicazione, la scelta del testimonial, delle parole, delle immagini. Vedere ad istinto se ha presa su di me, o se avrei preferito invece un altro modo.
Bene. Tutta questa lunga premessa per dire che ultimamente molte pubblicità mi inquietano, soprattutto se penso che sono lo specchio dell’attuale società. Perché sempre più spesso e con sempre più sinistra naturalezza assisto a spot (radio o TV è indifferente) di trenta-quarantenni completamente deficienti, che a quanto pare hanno come unico, assoluto ed insostituibile obiettivo nella vita il divertimento, a scapito del lavoro, delle regole di vita, di una morale di base, di crescere insomma. Tutte cose che troverei normali in gente più piccola, ma non a quell’età lì. La più orrenda di tutte è quella della mamma che becca la figlia con il tatuaggio nuovo, piccolino e nascosto, e l’ipotetica lavata di testa si trasforma nello sfoggio di un tatuaggio enorme da parte della mamma stessa. Che gran zoccola di mamma. E attenzione che non è per il tatuaggio in sé, del resto anche io ne ho tre, fatti in età adulta, coscienziosamente, in punti del corpo dove possono opportunamente essere celati se non voglio che si vedano. Mia mamma, che ovviamente non ha gradito, fatto il primo mi ha detto: “Come farai da vecchia quando sarai raggrinzita e si raggrinzirà anche il tatuaggio, sai che schifo”. Certo, è vero, farà schifo, ma a quel punto mi coprirò per coprire me stessa, non lui! A settant’anni non andrò in giro con spalle e braccia di fuori, ma non per coprire il tatuaggio, semplicemente per il fatto che spalle e braccia di una settantenne non sono un bel vedere, manteniamo un minimo di decoro e lasciamo che si spoglino le ragazze, che possono farlo. Altrimenti finirei per comportarmi come la mamma della pubblicità, di pessimo gusto ed assolutamente diseducativa, con quel suo volere inutili libertà e trasgressioni ad ogni costo. Che non mi vengano a dire "però ha colpito, però te la ricordi, quello era lo scopo": balle. Lo scopo è far sì che io compri una Twingo, e non mi pare raggiunto.
Questi trenta-quarantenni della pubblicità sono fuori del mondo, giocano come ragazzetti, pensano solo a far festa (gran cellulari, gran tecnologia) e tra l’altro vivono in case stratosferiche e non si capisce come le hanno fatte se non hanno uno straccio di lavoro. E nemmeno tanta testa, se uno non ci arriva da solo che deve cambiare il rasoio dopo un po’: ah, la lama, dovevo arrivarci. Eh già, mi sa tanto che non è il manico la parte usurabile in un rasoio. Per non parlare di tutta quella categoria di spot per le suonerie e gli sfondi dei telefonini, che pullula di giovanotti un po' troppo cresciuti per continuare a ridere di una mucca o di un topo che rumoreggiano, oppure del giochino dei raggi X sulla mano (che ai miei tempi era il sogno di ogni bambino dell'asilo).
Ho anche pensato che potesse essere colpa dei pubblicitari, improvvisamente colpiti da vuoti creativi; in effetti non si sono più viste pubblicità argute e simpatiche come il famoso "Buonaseeeeera" della FIAT. La Fiat ha avuto un periodo in cui ne sfornava di eccezionali, altra perla era quella del proprietario della Punto che faceva cadere il fastidioso ciclista che ad ogni semaforo rosso si appoggiava al suo cofano, lui e la sua mano sudata (anche i giamaicani del bob non erano niente male!).
Invece temo proprio che siano la raffigurazione della realtà attuale, con gente che non ha voglia di prendersi alcuna responsabilità, che a tutto pensa tranne che al minimo sacrificio, eterni bambini rimbambiti - quando va bene - o quando va male dediti solo a caccia di prede dell'altro sesso, possibilmente belle e/o ricche. Ce ne sono un paio anche nel mio condominio, non pagano le spese condominiali perché “sono precaria, se non lavoro io non prendo soldi” (io invece ho la Partita IVA, pensa che spesso non guadagno neanche quando lavoro, cara precaria!) però tre settimane di spiaggia all’anno non te le leva nessuno. Per carità, magari te le paga il fidanzato, ma se è così caro e disponibile perché non farsi regalare le spese condominiali, invece delle ferie? Ah, dimenticavo che le spese condominiali non sono divertenti, e poi c’è sempre il condòmino fesso che le anticipa.
Recentemente ho partecipato ad un corso di formazione interessante (devo fare almeno 30 ore l'anno, per legge, e visto che 30 ore tutte di tecnica assicurativa sarebbero da spararsi si fanno anche corsi più "leggeri" con approfondimenti psicologici, per gestire le persone siano esse tuoi dipendenti, tuoi venditori o clienti); il docente, che aveva la mia età più qualcosina, spiegava che i "giovani" d'oggi - i giovani eterni, direi io - sono tutti dei SURFISTI, che si contrappongono a noi cariatidi che siamo dei PALOMBARI. Questo perchè io palombaro sono abituata ad affrontare ogni cosa (nel lavoro come nella vita) andando a fondo, sviscerando il problema, trovando soluzioni e poi riemergendo, tutto nello stesso posto. Il surfista invece resta in superficie, il problema lo evita, lo sfiora appena e poi passa via, senza farsi coinvolgere, verso altri lidi (non deve trovare soluzioni ma semplicemente perché non affronta il problema, non perché il problema non ci sia!). Probabilmente è vero, è una categorizzazione abbastanza efficace. Ciò che mi ha folgorato è stato il fatto che il formatore invidiava i surfisti, la loro capacità di non lasciarsi impensierire, di passare da una cosa all'altra senza approfondimenti, imparando un po' di tutto ma in realtà non sapendo bene un tubo di niente, stando ben attenti a scaricare appena possibile ogni responsabilità su qualcun altro, non importa chi! Io invece no, sono fiera di essere un palombaro. Posso sostenere una conversazione su un unico argomento per ore, non mi stufo dopo trenta secondi sbuffando, perchè con un verbo - rigorosamente all’indicativo - ed un sostantivo ho esaurito il mio scibile (cosa che non si nota se surfo in rete da un sito all'altro). Se parliamo, ad esempio, di lingue straniere, ammetto di aver imparato nel corso degli anni due lingue - inglese a scuola e spagnolo in corsi successivi - che padroneggiavo abbastanza bene finchè potevo praticarle, e che ora sono un po' arrugginite. E' evidente che all'estero non morirei di fame, per lo meno facendomi intendere a gesti, ma avrei dubbi sulla qualità del mio attuale inglese. Chiedete ad un surfista quante lingue parla (lo vedo dai curricula): minimo cinque-sei, anche se approfondendo si scopre che sa dire solo "Buongiorno" e "Grazie" e morta lì.
E questa gente ormai è adulta, non si limita a far danni immaginari, nella vita reale non occupa più l'ultimo gradino come il ventenne neo-assunto: sono i direttori delle piccole filiali delle Banche, quelli che decidono se dare credito o meno ad un'Impresa (che fallirà o meno a seconda della loro decisione) basandosi sul programmino del computer, e non sulla conoscenza o sull'esperienza. Sono i giovani nuovi medici, sono loro che prendono le decisioni, ti aprono e ti operano, oppure no. Sono i giovani avvocati, che sfornano richieste danni che non stanno nè in cielo nè in terra, ma l'importante è farsi conoscere; sono i nuovi commercialisti, che ti compilano la dichiarazione dei redditi mentre stanno su Facebook. Sono quelli che tirano su le case in cui abiterai, quelli che ti aggiustano i freni della macchina (pensaci quando arrivi in velocità a quella curva dove c'è la scarpata). Sono i furbetti. Oppure sono quelli del rotolo, e questa la devo raccontare bene. Io ho aderito ad uno di quei panel on line con i sondaggi, in cui dici dove vai i ferie o cosa mangi a pranzo, e servono alle varie Aziende per segmentare i consumi; a volte mandano pubblicità di nuovi prodotti da valutare, e mi è anche capitato (con il Vernel) di vederne una in televisione, una delle tre su cui avevo lasciato le mie impressioni. Un giorno mi è arrivato il sondaggio con la pubblicità, che era in preparazione, per il lancio della carta igienica con il rotolo Aquatube, quello che si scioglie in acqua. Una, ricordo bene, era carina, con il classico bimbo che vuole arrangiarsi al bagno e fa cadere accidentalmente il rotolo nel WC (mai paura! Con l'Aquatube si può). Infatti per me è perfetto per i bambini, i miei nipoti ci hanno fatto anche gli esperimenti in vaschetta, per misurare in quanto tempo si sarebbe dissolto. Ma una era terrificante: c'era Alex, il trentacinquenne Alex, che seduto sulla tazza finiva il rotolo, e lo teneva con la mano a mezz'aria, con sguardo perso nel vuoto, mentre la voce fuori campo diceva "E adesso?". Lo schema del panel ti chiede "Descrivi cosa hai visto"; io ricordo di aver scritto letteralmente: c'è un deficiente di nome Alex che a trent'anni compiuti non sa che il cartone del rotolo terminato va gettato nel cestino della carta, o al limite nell'immondizia, se l'idiota di Alex non fa la differenziata. E ci sono andata giù pesante ad ogni schermata che riguardava Alex e i suoi occhi tondi, la sua bocca semiaperta ed il rotolo in mano. Alex che in compenso, ne sono più che certa, mentre butta il rotolo nel water insieme a tutta l'Italia, surfa divinamente nel world wide web, scarica e carica video di gente che rutta, si fa 72 rate per comprarsi un telefonino con cui fare spiritosi disegnetti (perchè è solo a quello che serve un telefonino), balla tutta la notte, tracanna superalcolici, non cerca lavoro perchè "tanto non si trova", e non conosce il nome del Presidente della Repubblica (forse nemmeno sa che l'Italia è una repubblica). Per fortuna che adesso i miei post sono più lunghetti dei primi, almeno i trentenni che li leggono dall'inizio alla fine non sono come Alex, c'è speranza.

martedì 3 aprile 2012

Globalizzazione di inizio Novecento

Ho fatto un corno agli Orler. Mi è dispiaciuto un pochino, perché è pur sempre un tradimento, ma è stato un attimo di follia, e ne è valsa la pena, lo capirebbero anche loro. Lo dico sempre anche a mio marito, io sono un tipo fedele, ti adoro e non ti tradirei mai, ma se un giorno mi bussa alla porta Hugh Jackman e proprio proprio insiste… Di sicuro mio marito capirebbe!
Ho trovato il saruq americano dei miei sogni, da uno che evidentemente – visto l’andazzo che c’è qua fuori – aveva bisogno di liquidi. Ha funzionato il modello di vendita che avevo visto a Marrakech (vedi post), l’ho applicato al contrario (di quale puoi liberarti-fai prezzo giusto-adesso che puoi liberarti e hai fatto prezzo giusto vendimelo). E’ conservato meravigliosamente, ed è piccolo, cosa difficile da trovare, ma ci voleva piccolo date le dimensioni di casa nostra. Mi fa sorridere quando Nonno Catone Biasioli dice “immaginate questo tappeto ambientato nel vostro grande appartamento, nella vostra villa, nel vostro palazzo storico”, perché quelli che vivono in appartamenti piccoli evidentemente hanno altri pensieri che comprare tappeti pregiati. Ma avete la più vaga idea di quale gioiellino sia un appartamento piccolo ben arredato? Nulla si disperde, nulla è lasciato al caso, ogni centimetro di spazio – sia quello vuoto, sia quello pieno – è studiato per trasmettere bellezza ed armonia. Noi comunque adoriamo Nonno Catone, è un pozzo di scienza del tappeto, conosce tutto e tutti ed è di un’ironia bestiale (soprattutto quando riprende le giovani generazioni Orler perché non sanno usare i congiuntivi). Mi ricorda un mio vecchio, vecchissimo professore di quando ero all’Università – vecchio vecchissimo già allora – di quelli che trasudano storia, cultura e tradizione ad ogni passo; malfermo e rauco, era molto autoironico, quando parlava di nomi grossi della nostra letteratura (da Dante a Manzoni, con gli aneddoti spaziava parecchio nei secoli)  non mancava mai di aggiungere “il mio compagno di giochi da bambino” oppure “andavamo a caccia di ragazze insieme” e cose così. E per un attimo gli si credeva anche, tanto era convincente. Catone in compenso ti parla della tal bottega di annodatori di Esfahan, dicendo “dopo il Bar Tale girate a destra, passate oltre il mio amico tabacchino, salutate la Signora Tale che vive al 15 e poi trovate la bottega”. Tornando a noi, gli Orler di saruq americani piccoli non ne hanno, quindi è solo un mezzo corno.
Era un po’ che annusavamo l’aria per trovarne uno. Il saruq americano – facciamo un po’ di scuoletta  – è un tappeto ben preciso. A dirla tutta non bisognerebbe chiamarlo così, anche se questa terminologia ormai è entrata nell’uso comune, perché ogni tappeto saruq è e sempre resterà tappeto persiano, dal momento che è annodato in Iran, indipendentemente da dove poi viene o verrà venduto! Il termine “americano” fa riferimento ad una specifica produzione di tappeti:  all’inizio del Novecento un lungimirante imprenditore americano avviò un centro di annodatura ed esportazione di tappeti in Iran, nella zona di Sultanabad/Arak dove la manodopera costava evidentemente meno rispetto ad altri tentativi precedenti, commissionando manufatti da portare negli Stati Uniti, immenso mercato vergine per quanto riguardava il tappeto. Si sa come sono gli americani, hanno un gran senso di appartenenza alla loro nazione, cercano di avere sempre qualcosa di tipicamente “loro” (le macchine, le case, i parchi…) ed hanno gusti particolari. Molto U.S.A. Il lungimirante imprenditore quindi modificò i classici impianti iconografici persiani, con una combinazione di disegni e colori che risultasse gradevole proprio per loro, e che nel tempo è rimasta come un marchio: niente cantonali, niente grande medaglione centrale, tanti rametti, foglie, palmette, blu e rosa. Non un rosa qualsiasi, un rosa che si otteneva dopo aver lavato e sciacquato le lane per ore ed ore dall’originale mistura di rosso di robbia e di dugh, che è una sorta di beverone a base di yogurt: il rosa DUGHI, che è particolare e bellissimo, ed in effetti sta molto bene con il blu. Potremmo definirlo una sorta di rosa salmone, o rosa "carne", quel colore che – quando io facevo le elementari – mancava sempre dalla dotazione standard di pennarelli, e chi poteva mandava la mamma in giro per cartolerie a cercare un pennarello sciolto che permettesse di disegnare bene le persone, dal momento che con il normale rosa-pennarello sembravano tutte o alcolizzate o reduci da un’ustione da spiaggia. All’epoca, un bel pennarello color rosa carne diventava merce rara di scambio (come minimo una ventina di figurine), e comunque contraddistingueva i più bravini, se non altro i perfezionisti. E’ buffo pensare che tutto ciò denota come le nostre classi fossero composte solo da bambini europei (macchè europei, tutti italiani, tutti della stessa città, tutti dello stesso viale!), era impensabile l’integrazione e la varietà che hanno in classe i bambini di oggi, e che a me personalmente sarebbe piaciuta tanto: mi affascinava scoprire nuove culture, storie diverse, e diverse tradizioni. Oggi probabilmente non si va a caccia di un pennarello rosa carne; mi posso immaginare la richiesta: “Mamma, mi compri un pennarello giallo carne?” O nocciola carne.
I bambini di oggi sono fortunati, nascono già senza confini; ai miei tempi potevamo al massimo sfoggiare, come nel mio caso, un papà nato in Africa, anche se solo per il fatto che nel 1940 l’Etiopia pullulava di italiani, ma agli occhi di un bambino delle elementari questo dettaglio sfuggiva e la cosa destava la massima invidia.
Tornando al nostro piccolo saruq, non mi affascina solo perché è bello, particolare, riconoscibile e ben tenuto. Mi affascina perché trasuda storia (anche lui come il mio vecchio ex-professore), e io in questo sono una maniaca. Nessuno di noi esisterebbe senza quel preciso incrocio di persone, di nomi che si sono incontrati al punto giusto nel momento giusto. Per fortuna nella famiglia di mia mamma hanno la memoria lunga, sono riuscita a ricostruire il mio albero genealogico fino ad inizio Ottocento, con tanto di date e luoghi di nascita e morte, con tutti i figli annessi e connessi, non solo quelli che hanno portato fino a me. Con mio papà è più complicato, sia perché evidentemente nella sua famiglia non è mai stata una cosa molto sentita, e con i parenti morti ci si ferma ai bisnonni, sia perché lui è nato burlone, e quando non sa qualcosa che non ritiene importante tende ad inventarsela, quindi non saprò mai se davvero ho una bisnonna ungherese che di cognome faceva Puja, come sostiene lui. Sono anni che faccio la tira allo scatolone pieno di foto dei miei avi che mia zia ultra-ottantenne conserva sotto al letto: foto di donne con lunghe vesti e grandi cappelli, foto di bambini vestiti come piccoli adulti, foto in posa negli studi, di quelle che si facevano per le grandi occasioni. Mia mamma mi dice sempre che possiamo scannerizzarle e tenerle tutte in una chiavetta USB, ma non sarebbe la stessa cosa! Non sono solo “le immagini”, è anche il supporto che fa la storia, il cartone ingiallito con la firma svolazzante del fotografo palermitano, o la dedica sul retro di qualche fidanzato. Non voglio la copia di una fotografia, voglio QUELLA fotografia, quella che era in un cassetto quando mio nonno è partito per la Grande Guerra, quella che chissà dov’era quando sempre lo stesso nonno era prigioniero dei tedeschi a Cestocova durante la Seconda Guerra, e mia mamma bambina era sfollata in Friuli. Quella che non si è persa nei tanti traslochi, quando la famiglia di mia mamma ha lasciato il grande palazzo lagunare dove lei era nata, quella che è arrivata nelle case moderne ed un po’ insulse che tutti abitiamo ora.
Vista la particolarità della storia degli americani, un po’ fuori da questo nostro vecchio mondo europeo, chissà dove è stato il mio saruq negli ultimi cento anni. Considerando le dimensioni, probabilmente nella cameretta di qualche bambino, o in qualche studiolo (solitamente i saruq americani hanno dimensioni abbondanti per via degli enormi saloni delle enormi vecchie case americane). Non hanno vissuto le Due Guerre nelle loro case, gli americani, ma lui avrà visto ugualmente gioie e dolori di qualche famiglia, avrà sentito bambini crescere, diventare adulti, magari dirigere aziende o studi importanti, oppure avviarsi a fare i soldati per guerre non loro. Ed alla fine, con l’avvento della modernissima e pratica moquette, qualcuno l’avrà eliminato (questo succedeva davvero! Molti mercanti del tappeto raccontano che c’è stato un periodo in cui gli americani pagavano per farsi portare via tappeti – pregiatissimi ed antichi – perché era arrivata l’ora della moquette!) e qualcuno l’avrà riportato nella buona vecchia Europa. Fino a me.

domenica 1 aprile 2012

Un post di buona fortuna

E' ufficiale: Riccardo non lavora più per la Vecchiato Arte. E da parte mia, nel salutarlo con un post che vuole augurargli tutto il bene del mondo, vorrei aggiungere a tutto quello che ho detto di lui finora una cosa che finora non avevo detto, per rispetto verso il suo ruolo e verso chi lo retribuiva. Una cosa per me importantissima, che fa la differenza, e che mostra in modo chiaro perchè io stimo tanto - nel mucchio dei televenditori d'arte - questo ragazzo che in fondo non conosco, che ha oltre 10 anni meno di me, che vive in un'altra città, e con il quale ho condiviso appena qualche momento. Ma che continuo a segnalare a chi ama l'arte.
Riccardo Sandonà non vende urlando, non si incavola sul serio o per copione mentre spiega l'importanza di un'opera d'arte, non spinge come un forsennato affinchè tu compri. Riccardo Sandonà, se gli dici che un'opera è bella e ti piace, capisce esattamente quello: che l'opera è bella e che ti piace. Non capisce: vai, insisti per vendermela a tutti i costi. Non te la carica in macchina a forza. Non ti fa sentire psicologicamente impegnato a comprarla solo perchè ci hai parlato per due ore, perchè anche a lui piace parlare d'arte per ore, indipendentemente dal resto. Riccardo è pacato e competente. Certo, ovviamente è un venditore, e lo scopo di un venditore è vendere. Ma c'è modo e modo, e lo dico per esperienza: nelle Fiere d'Arte ne ho viste di cotte e di crude.
Faccio spesso un piccolo paragone con quello che è la vendita nel mio, di lavoro. Anch'io sono capace, se voglio, di forzare la trattativa che mi porterà ad acquisire un nuovo contratto: in fondo, basta sottolineare quanto sia importante la tale copertura assicurativa per la persona che ho davanti (creandole quel determinato bisogno, e attenzione che non sempre è vero che ce l'abbia, magari spaventandola un po' ipotizzando cosa potrebbe succedere in caso di sinistro praticamente domani), fermare l'asticella del premio quel tanto che basta perchè non sia nè impossibile arrivarci nè troppo regalato, essere insistente e forse melliflua, e far leva senza dir nulla sul fatto che ho appena perso un'ora con te, il mio tempo costa, mica vorrai andartene senza firmare! Certo che ne sarei capace. Ma NON VOGLIO. Questo è parte dell'atteggiamento che ha fatto sì, negli anni, che la gente odiasse gli assicuratori, e li vedesse come squali approfittatori (col suv), soprattutto quando la firma era su un contratto decennale e il disgraziato tornava a casa dicendo "perchè cavolo ho firmato, che cavolo ho comprato" e si sentiva il cappio al collo. Per fortuna oggigiorno ce ne sono meno, di squali in suv. Molti colleghi sono come me: preferiamo vendere meno pezzi, meno Polizze, ma sicuri che siano state vendute a gente contenta della firma fatta, che ne sarà ancora più contenta in caso di bisogno, e soprattutto che non mi manderà mai una disdetta immediatamente l'anno dopo perchè non ha capito cos'ha comprato. E' inutile che io corra come una matta dalla mattina alla sera, stancandomi e preoccupandomi come una bestia, se poi otto contratti su dieci decadono l'anno successivo, e magari mi becco anche una pubblicità negativa paurosa; io corro poco, ma ho un nome immacolato, la gente di me si fida, e quei tre contratti che vendo mi restano sempre, e tre è più di "dieci-meno-otto", se la matematica non è un'opinione.
Riccardo non ha mai alzato la voce, con me, non è mai stato aggressivo, ha "perso tempo" a chiacchierare di artisti che ci piacciono, sia che fossero della "scuderia Vecchiato" sia che non lo fossero, e il risultato è che ho a casa tre pezzi unici di Rabarama, e anche tre tele di Berlingeri! E' evidente che continuerò a seguire con interesse le iniziative della Vecchiato Arte (adoro Rabarama, come potrei non farlo?), ma non so se avrei speso in modo così FELICE se qualcuno mi avesse forzato la mano. Come ho già avuto modo di commentare, ho trovato spesso paradossali analogie tra il suo modo di vendere ed il mio, nonostante i due ambiti lavorativi non abbiano nulla in comune; entrambi abbiamo questo approccio così soft e consulenziale, ma è quello che fa la differenza. Del resto, mi sta bene procacciare una Polizza (ci guadagno, non sono ipocrita), ma il mio obiettivo principale resta il CLIENTE, Cliente che deve possibilmente tornare e farne altre, di Polizze, deve parlare bene di me ai suoi parenti ed amici, cosicchè diventino a loro volta miei Clienti. E non credo succederebbe se io lo spaventassi, o lo aggredissi, anche solo con il tono della voce o la postura. O peggio ancora se mi mostrassi troppo "finta", eccessivamente subdola, quasi sbaciucchiona.
Noi sapevamo di questo annunciato distacco, perchè era stata una commossa confidenza; non abbiamo voluto indagare sulle cause perchè ogni distacco (che sia personale o professionale, o entrambe le cose insieme) è sempre cosa delicata, in se stessa e da gestire; ci siamo quindi concentrati con curiosità personale e interesse da collezionisti sul futuro di Riccardo, che ha un'autostrada davanti. Ormai di venditori forsennati in televisione ce ne sono un po' troppi, lui è così giovane ed entusiasta, due caratteristiche fondamentali quando si devono fare scelte importanti e dolorose, ti aiutano a sgommare sulla famosa autostrada, mica puoi stare fermo al casello. L'età, neanche volendo, si ferma: essenziale è che non si fermi nemmeno l'entusiasmo. Ed è il mio augurio più grande per un amico.