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domenica 25 agosto 2013

Atmosfere

Mi capita praticamente ogni anno, quando sta terminando l'estate. 
Perchè l'estate termina a fine Settembre solo sulla carta, giusto perchè andava bene così, quando è stato istituito il Calendario attuale, e bisognava decidere un inizio e una fine che mettessero d'accordo tutti. 
In realtà l'estate qui da noi termina ora, con la fine di Agosto, quando di giorno il caldo è ancora caldo, ma non è più afa, non è più umido spalmato come colla, che appiccica capelli e vestiti. Quando la pioggia - bellissima d'estate, leggera, tiepida, quasi vapore prima ancora di toccare la distesa d'asfalto bollente - diventa cupa, incattivita, notturna. Si sfoga, di notte, ogni notte, con violenza, fa l'amore con il vento, e sussulta nell'abbraccio dei tuoni. E al mattino, quando apro le finestre e ascolto il frullare dei miei pensieri, già pronti, meticolosi, ordinati sulla scrivania, proiettati al lavoro dei prossimi mesi, al mattino l'aria punge un pochino, solo un poco, ma prima delle sei è così. Ho un termometro fuori, in terrazzo; i miei gesti mattutini rincorrono le loro stesse abitudini: aprire le imposte, uscire - io sola, mentre il tutto dorme - guardare la temperatura esterna prima che il calore della casa, il mio calore, la contamini, e annusare l'aria, e respirare. Sono sempre venti gradi, fuori, alle sei di mattina, come un paio di settimane fa; ma qualcosa pizzica, e la mia mente vola alle montagne.
In questi giorni in cui l'estate si stempera nel prurito di un nuovo autunno, come ogni anno la poesia mi apre il cuore. Malinconia. Attesa. Speranze.
La cerco dappertutto: nell'immensa rete del web, nei vecchi libri, nei miei ricordi. E' come aprire un rubinetto quando hai sete, un gesto istintivo. Ne ho un bisogno quasi fisico. E' come chiudere la lampo del sacco a pelo, dentro un rifugio ad alta quota: tu dentro, accoccolato, protetto come in una reminiscenza d'utero caldo, mentre fuori il cielo scuro cerca di entrarti, liquido, nell'anima. Ci sono notti di rifugio in cui gli squarci delle stelle fanno quasi paura, tanto sono immensi.
Ho imparato due lingue straniere nella mia vita - finora, almeno. Poter leggere poesia in lingua originale è da privilegiati; ho un'ammirazione sconfinata per i traduttori di poesia: è un compito arduo e improbo. Poche volte ci riescono completamente, infatti. Non è solo il peso delle parole, il loro significato: è la sequenza stessa, è la cadenza. Ci sono poesie che, lette, sembrano sinfonie musicali. Partiture per l'anima. Cambi la lingua ed è come fare analisi logica su un trattato di profilassi antitetanica.
Inglese, la prima, sempre utile, sui banchi, ma soprattutto spagnolo, poi, per scelta. Una scelta adulta, di cui porto ancora disegni sulla pelle.
Neruda. Salinas. Benedetti. Lorca. Bolle che risalgono dal profondo, si spingono su attraverso una strana viscosità, e poi affiorano, e scoppiano, si abbandonano sulla superficie. E' un'immagine ricorrente, per me, questa delle bolle nell'acqua. C'era una mezza botte, credo, o forse era solo un grosso mastello, nel terrazzo della casa di mia zia sul Lago di Como, un terrazzo vastissimo ed assolato dove ho passato infinite estati, con i piedi che scottavano sulle piastrelle - poi l'hanno ricoperto, creando una enorme veranda per i "grandi" estremamente confortevole, travata e con ampie finestre scorrevoli, ma per fortuna io ero già cresciuta, e non ho sofferto troppo: la parte di me bambina del cemento aveva fatto in tempo a viverne la magia all'aperto. Magia di aria e di sole. 
La botte era un richiamo continuo, per noi piccoli, come tutto ciò che gli adulti proibiscono. Mia zia ci teneva le ninfee: ricordo l'acqua scura, torbida, quasi verde, che ti impediva di vedere il fondo. Ti entrava negli occhi soggiogandoti, con una punta di paura. Uno degli innumerevoli gatti che popolavano la casa delle mie vacanze ci era finito dentro da cucciolo, era stato salvato appena in tempo (con una fantasia senza pari si era beccato subito il nome di Mosè; probabilmente da adulto, bellissimo e sdegnoso come il suo manto per metà persiano, si vergognava più del nome che del ricordo). 
Sulla superficie galleggiavano le ninfee, corolle di petali rosa e al centro un cuore giallo, asciutte, quasi irreali, con le loro larghe foglie su cui potevi appoggiare una macchinina, una caramella, un pupazzetto di carta, come su un prato opaco e striato, inventandoti una storia dopo l'altra e chiedendoti come mai la macchinina sì e il piccolo Mosè no, lui era andato giù di sotto subito, annaspando, con il suo prato diventato improvvisamente sottile ed inutile come carta velina.
E a volte, dal fondo del mastello, quel fondo lontano e torbido che un braccio di bambina non poteva raggiungere, nemmeno afferrando il gambo sotto la corolla e seguendolo piano, verso il basso, a volte da quella profondità lontana salivano le bolle. Rade, improvvise. Affioravano dal nulla come il respiro passeggero di un pensiero inespresso. E svanivano. Tu aspettavi di vederne una, e potevi aspettare per ore; poi desistevi, ed eccola. Ancora oggi - e sono passati quarant'anni! - sento alla base della nuca quel ricordo vivido, di qualcosa di nascosto che si fa improvviso. Senza che tu lo voglia. Quando non te lo aspetti, perchè lo hai aspettato troppo. 
Questa è la poesia di oggi, una bolla che mi ha raggiunto dalle mie stesse profondità, ed è ancora qui, che indugia sulla mia superficie, e io so perchè.         

No te amo como si fueras rosa de sal, topacio
o flecha de claveles que propagan el fuego:
te amo como se aman ciertas cosas oscuras,
secretamente, entre la sombra y el alma.
Te amo como la planta que no florece y lleva
dentro de sí, escondida, la luz de aquellas flores,
y gracias a tu amor vive oscuro en mi cuerpo
el apretado aroma que ascendió de la tierra.
Te amo sin saber cómo, ni cuándo, ni de dónde,
te amo directamente sin problemas ni orgullo:
así te amo porque no sé amar de otra manera,
sino así de este modo en que no soy ni eres,
tan cerca que tu mano sobre mi pecho es mía,
tan cerca que se cierran tus ojos con mi sueño.

Pablo Neruda

(Non ti amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
ti amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima. 
Ti amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
e grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.
Ti amo senza sapere come, né quando, né da dove,
ti amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti che così,
in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.)

mercoledì 21 agosto 2013

Oggi parla.../13

... Charlie Chaplin:

"Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione; perchè la tua coscienza è ciò che sei, la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te. E ciò che gli altri pensano di te è problema loro"




















                                                                                                       
Mestre (VE), 14/10/1973

martedì 20 agosto 2013

Liaison estiva con Cagnola Srl

(Se l'Elefantino perde il pelo, ma...)

Non amo parlare a vanvera, e non mi piace chi lo fa. 
Anche i classici discorsi a vuoto sui luoghi comuni mi danno un po' di fastidio. E' vero che tendenzialmente parlo parecchio, ma cerco di farlo con cognizione di causa, di argomenti sui quali sia un minimo ferrata, o su cui io abbia esempi pratici vissuti direttamente sulla pelle mia; in caso contrario è meglio ridere e scherzare di futilità varie, e siamo tutti più contenti.
Giusto per dire a tutti quegli scellerati, quei perfidi, quei bruti che negli ultimi mesi mi hanno allertato perchè avevo deciso di mettere un quadro in vendita da Cagnola Srl che non è giusto riempirsi la bocca di paroloni ("sono dei delinquenti", "dei farabutti", "veri disonesti" eccetera) quando non si è provato - eh, no, non si fa: è come dire che gli assicuratori sono tutti ladri. Prima provare e poi giudicare, questo è il mio motto, rigorosamente con i verbi all'infinito che fa tanto internazionale e piacione.
Io l'ho fatto! E ora racconterò con dovizia di particolari la mia personalissima esperienza, pregando chiunque sia addentro al mondo dell'arte di diffondere il mio messaggio. Tutto vero, reale, e, volendo, corredabile di dati certi e cartacei. Delinquenti? Farabutti? Disonesti? Non esageriamo... Una cosa è certa, comunque: birichini. Col miglior sorriso, ma tanto birichini. Giudicate voi, e magari datemi dell'ingenua (è cosa che mi capita spesso, ultimamente), ma mi raccomando: un'ingenua imparziale.
Cominciamo dal principio. E' necessario che io faccia riferimento al mio post "Sinonimi e contrari" di questo recente Maggio ( http://trecose.blogspot.it/2013/05/sinonimi-e-contrari.html ), esattamente quando racconto che a me piacerebbe cambiare spesso i quadri, pur sapendo che non è esattamente un segnale di intelligenza (dal punto di vista dell'investimento). Del resto, sono una persona normale, ho la casa con il mutuo, sento anch'io il calo di lavoro dato dall'infausto periodo economico: non posso continuare a tirare fuori soldi freschi all'infinito, per quanto io comprenda che questo sarebbe il sogno di ogni gallerista. Prima o poi per comprare nuove opere devo permutare o vendere quelle vecchie. 
E qui entra in scena Gastone Biggi. 
Un paio d'anni fa ho acquistato un dipinto di Biggi della serie dei Fiori; non l'ho comprato da Franco Boni, per intendersi, che all'epoca era ancora a Telemarket, perchè un mutuo casa ce l'avevo già e non era il caso di aprirne un altro. L'ho trovato tramite una ricerca on-line, in un canale alternativo, per quanto sempre ufficiale, e l'ho pagato parecchio meno. Tutto sommato eravamo contenti. 
E non ho smesso di credere in Biggi, sia chiaro! Trovo sia un astrattista fenomenale, e che la storia di vita e pittura che ha alle spalle (è uno dei pochi in cui vedo ancora fortissimo il connubio "vita e pittura") parli per lui. Assieme a tutte le autorevoli voci che l'hanno accompagnato. Certo, ti deve piacere l'astratto, ma a quell'astratto lui ci è arrivato con un percorso; personalmente mi piace come studia l'astrazione del colore, più che della forma (sia essa tesa a ricordare il fiore, piuttosto che la serie infinita di punti), riesce a passare dall'estrema delicatezza alla violenza più sferzante in un solo gesto. Ora sussurra, ora grida. E poi, con lui, ho scoperto che mi piace da matti l'industrial paint, mi ricorda lo smalto, è vivida come i miei pensieri, sempre lucida, sempre intensa. Non sono mai stata così rimbambita da credere che potesse valere quanto un appartamento in centro, ma nessuno può negare che sul mercato dell'arte televisiva (che, ribadiamolo per ogni utile ragionamento, è lontano anni luce dal mercato delle aste o delle Gallerie) girino sovrumane schifezze di gente che ha ancora in bocca il ciuccio, ben più sopravvalutate rispetto all'ironico e tosto vecchietto. Secca un po' che sia arrivato a ottantacinque anni dipingendo pochissimo (il nostro Fiore è il suo dipinto n. 5.505, perchè lui ha sempre numerato tutte le opere fin dalla primissima), e poi si sia messo di colpo a spennellare come un forsennato decuplicando la sua normale produzione, ma non si può pretendere tutto dalla vita (lui dovrebbe stare attento però, perchè così facendo ci sarà più di qualcuno che gliela chiama).
Senza nulla togliere alla bravura ed alla grandezza del Maestro, diciamo che, forse, probabilmente, non mi piace più di tanto il NOSTRO, QUEL quadro. Magari ho cambiato umore. Non mi va più di alzarmi e vedere un fondo così scuro. Non sopporto più il verde. Chi lo sa. Oppure non ho digerito bene la storia della mancata pubblicazione, e questa sì, bisogna dire che è stata una gran porcata (libera traduzione di "promessa non mantenuta"), anche perchè i cataloghi più prestigiosi di Biggi dell'ultimo periodo riguardano Mostre internazionali, e si sa che all'estero la carta tira tantissimo, se un quadro non è pubblicato è come se non esistesse.
In prima battuta ho contattato l'organizzazione dove l'avevo reperito, precisando che non volevo soldi, ma mi sarebbe piaciuto cambiarlo con qualcos'altro (chiedevo anche consigli in merito!), e non si sono neanche degnati di rispondermi. Personalmente ho trovato la cosa gravissima, perchè io ho una vera e propria fissazione per il post-vendita, lo dico sempre anche a tutti coloro che lavorano con me: è orribile la sensazione di aver speso dei soldi (tanti o pochi non importa, ma diciamo che quando non sono proprio pochissimi - come nel mio caso - è ancora più evidente) per acquistare qualcosa da qualcuno, dalla Polizza al divano, dal quadro al frigorifero, e sentirsi totalmente abbandonati, rifiutati, cancellati non appena l'assegno è andato a buon fine. Esigo che nessun mio Cliente la provi, e gradirei - nel limite del possibile - non provarla neanche io, quando sono dalla parte di chi compra. Da quel giorno, infatti, uno dei miei link ai "Siti consigliati agli amici" è improvvisamente sparito, chissà se tra i miei più vecchi lettori c'è chi ha buona memoria. Mica mi agito tanto, io, per queste cose; conosco il sottile ed infausto potere della cattiva pubblicità.
In seconda battuta ho inviato una mail al rappresentante ufficiale di Biggi, che nel frattempo aveva lasciato la traballante Arca Verde per scendere in campo con il Terzo Polo. Che vedessero loro se gestire la cosa come un cambio o come un conto vendita da privato, poco importa. Anche in questo caso, assenza totale di risposte: ma costa davvero così tanto? E' così difficile? E' evidente che io vivo su un altro pianeta, il Pianeta della Correttezza che probabilmente verrà riscoperto troppo tardi; mando addirittura la risposta scritta via posta (con tanto di francobollo da 0,70) a tutti i curricula che ricevo, fosse anche per il classico formalissimo "no-grazie-siamo-a-posto-ma-terremo-presente". Firmata di pugno. E lo faccio perchè so che a ME farebbe piacere, se fossi dall'altra parte della scrivania. E' un gesto umano, un gesto d'altri tempi. Sa di coccola. Per lo meno capisci che per trenta secondi sei esistito per qualcuno. Invece niente di niente (e così facendo ti instillano il subdolo dubbio che ci sia il flop in agguato dietro l'angolo).
Qualunque terza via non era percorribile, perchè Gastone Biggi è un nome controverso, corrucciato quanto la sua raucedine, e nessuno che non lo tratti alla luce del sole lo considera. O ti ridono dietro o te lo valutano mille Euro (e parliamo di un 100 x 80, non sono così masochista). Antipatici.
Non ci restava che Cagnola quindi, e visto che a me piace tutto sommato fare questo genere di esperienze sociologiche, da raccontare ai nipotini nelle lunghe notti invernali, la terza battuta si è diretta lì, al Signor Renato Marchioni, referente per l'Arte Contemporanea, che ha risposto praticamente subito! Un bacio in fronte non foss'altro per la cortesia. Biggi a loro interessa - è chiaro, lo promuovono alla stragrande, vorrei anche vedere che dicessero di no. All'inizio c'è tutta una serie di schermaglie, che ricordano la danza amorosa di corteggiamento dei pinguini, da fare, perchè visto che da Cagnola non possono sapere se da questa parte c'è un collezionista che vuole muovere un po' di opere piuttosto che un disperato in mano agli strozzini, tentano prima di proporti l'equivalente di un paio di pizze ai funghi per un quadro che tu hai pagato una somma a cinque cifre. Ma rispondono sempre. Il Signor Marchioni, che di persona non ho mai visto nè sentito, è stato gentile e premuroso. Alla fine ci siamo accordati. 
Apro una piccola parentesi maligna, perchè a quel punto è successa una cosa curiosa anzichenò. Non uno, non due, non tre, ma QUASI TUTTI i nostri amici e/o conoscenti collezionisti, i quali (tutti, unanimi) quando dicevamo di avere in casa un Biggi ci guardavano con il sorrisetto di compatimento e l'occhio paterno di chi vorrebbe dirti che gli dispiace per il solenne bidone che hai preso ma non sa quali parole usare per non ferirti, ebbene, costoro tutti, al sentire che l'avevamo messo in vendita se ne sono usciti con un "mah, siete sicuri? proprio adesso? io ci penserei, io me lo terrei...". Due verbi al condizionale, comunque, eh. Non uno che abbia usato l'indicativo ("lo compro io") o men che mai l'imperativo ("vendimelo"). Giusto per continuare il Grande Affresco del mondo dell'arte e di chi ci gira intorno, chi di qua e chi di là del fiume. Sono sicura che anch'io agli occhi di molti sembro un po' suonata.
Analisi grammaticale a parte, la Cagnola Srl è definita "agenzia di affari per la vendita per conto di terzi" ai sensi dell'art. 115 del T.U.L.P.S., come chi vende auto usate, o i servizi funebri, o le infortunistiche stradali. Firmi un Mandato di Vendita della durata massima di novanta giorni, durante i quali presumi che loro presentino realmente il tuo quadro in televisione, o quanto meno tentino davvero di venderlo usando le modalità che ritengono più opportune. E lo presumi tranquillamente e fiduciosamente, visto che firmi nero su bianco che - della cifra pattuita di vendita - loro si trattengano un terzo, un terzo secco. Una bella cifretta, che ritieni possa ingolosirli. 
L'unico punto un po' oscuro e decisamente migliorabile del Mandato è il n. 2, in cui si legge che il Mandatario (cioè loro) non può "essere ritenuto responsabile in caso di guasti o vizi agli oggetti", ma bene o male la colpa grave è compresa, per cui incroci le dita e consegni quadro, autentica e Mandato firmato al simpatico e loquace addetto che viene presso casa tua per il ritiro. Che ovviamente è uno che ha sempre lavorato per Telemarket (quando addirittura non ci lavora ancora, te lo dice con un candore disarmante), e qui bisogna chiarire subito una cosa che innervosisce un pochino, perchè da Cagnola si sgolano continuamente a ripeterci che non dobbiamo confonderli con Telemarket, perchè trattasi di altra Azienda, pensando che siamo tutti imbecilli. E' evidente che è un'altra Azienda per la Camera di Commercio: ha un'altra Partita IVA, un'altra ragione sociale, eccetera eccetera. Che discorsi. Ma è altrettanto evidente che Cagnola E' in tutto e per tutto Telemarket. Ha i suoi dipendenti. Sta nella sua sede. Vende le sue opere d'arte. NON E' VERO che "sono tutte opere provenienti da privati", proprio per niente. A meno che non vogliamo cavillare sul fatto che Telemarket, non essendo a conti fatti un Ente Pubblico, può essere considerata un soggetto "privato", ma la vedo un pochino tirata per i capelli. 
Il problema tuttavia non è questo, del resto la Cagnola Srl a casa sua può fare quello che vuole, come io faccio quello che voglio a casa mia, anche mandar via un Cliente che a naso non mi va, perchè sospetto che sia un tira-bidoni, oppure perchè ad ogni rinnovo mi fa perdere tre anni di vita con estenuanti trattative per uno sconto di dodici Euro.
Il problema è che le uniche opere che la Cagnola Srl vuole/deve/può (mah? non ho ancora capito qual è il verbo servile giusto) vendere sono le ex-Telemarket, o del suo giro. Prendiamo il nostro Biggi, per esempio. E' stato ritirato il 16 Maggio, e da quel momento io e mio marito abbiamo iniziato a monitorare come in un infinito gioco del Risiko TUTTE le loro trasmissioni di Arte Contemporanea. Monitorare non significa vederle tutte in diretta; saremmo già al ricovero, nel caso. Però registrarle tutte, questo sì, tutte, e passarle con la velocità x30 di Sky (mai ringraziato tanto Sky come in questi mesi) per vedere se arrivava LUI. Dopo circa quattro-cinque giorni ecco che il buon Roberto Porcelli fa la sua famosa faccia stupita come se gli avessero detto che è appena stato scoperto sotto lo scantinato della sede di Roncadelle il più vasto giacimento di petrolio degli ultimi tempi; e avverte che è arrivato un nuovo Biggi, inedito, meraviglioso, uno dei Fiori, introvabile. Era mezzanotte e un quarto (Biggi va fortissimo tra gli insonni). Il quadro ha il vetro, e fa un effetto specchio devastante, non si vede un tubo. Via subito a toglierlo (e stando attenti, o vi taglio le mani), e arriva l'una meno venti. All'una meno un quarto la trasmissione finisce. Noi ci guardiamo perplessi.
Passano altri tre-quattro giorni ed ecco che riappare il nostro Biggi in una fascia oraria umana, Porcelli non ha neanche bisogno di sgolarsi più di tanto, confermato, via subito, e ti credo, battimani, evviva evviva. Dopodichè, più nulla. Silenzio totale. Sparito dal palinsesto (con noi testardi ed eroici, sempre a registrare, controllare e verificare). Tant'è che ce ne siamo anche dimenticati, e aspettavamo Agosto dando per scontato che da Cagnola ci marciassero un pochino sulle valute. 
Spiego: nel Mandato ti si dice che qualora l'opera venga venduta tu sarai avvisato con una mail a fine mese, ed il denaro ti verrà accreditato via bonifico alla fine del mese seguente. E' un contratto abbastanza standard, sono tempi ragionevoli e comprensibili, è evidente che nessuno che abbia l'intelligenza pari quanto meno a quella di un pennarello crederà mai ad Alessandro Orlando quando sbandiera che tu vai a Roncadelle con il quadro sotto il braccio, e ne esci subito con i contanti cash in mano. L'ha detto davvero, in diretta! Il Signor Orlando deve avere una dispensa particolare dal Papa in persona per raccontare tutta 'sta montagna infinita di fandonie e non temere di finire dritto dritto all'inferno. Oppure nella prima ora di diretta gli pizzicano un po' gli occhi e le orecchie, e non si ascolta. O ancora resetta tutto dopo ogni trasmissione, pensando che la gente lo segua sempre per la prima volta, ma non è così. Ha fatto decine di trasmissioni sui tappeti Habibian di Nain, bellissimi tra l'altro (ne ho preso uno anch'io, era prima di approdare agli Orler... per carità, ammetto che non ha l'afflato ed il fascino storico di un caucasico di fine Ottocento, ma sul parquet a listoni scuri mi sta da dio e fa una scena pazzesca), dicendo ogni volta che era la prima e l'unica. Per non parlare di quando cerca di convincerti che un Habibian a nove fili è più pregiato di uno da sei, con una improbabile quanto impossibile spiegazione tecnica su DOVE passa il filo dell'annodatore.
Noi, che valiamo almeno quanto un pennarello e mezzo, davamo per scontato che Cagnola ci avrebbe dato la conferma della vendita all'ultimo giorno utile, per poter poi pagare all'ultimo giorno utile. Lo fanno anche i Broker con le Agenzie di assicurazione, e li perdoniamo ogni volta. A tutti sotto sotto fa piacere girarsi un bel po' di soldi altrui, di questi tempi.
Tuttavia, poichè fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, io il giorno 22 Luglio mando una mail gentile gentile a Renato Marchioni giusto per precisare che il mandato scadrà in pieno Ferragosto, come si fa per la riconsegna dell'opera invenduta (voglio dire, è mica è davvero invenduta, eh?). E lui, sempre rapidissimo, mi risponde dicendo che "l'opera è stata prenotata due volte ma poi non confermata" (non è vero! La prenotazione era stata una sola) ed "è qui nei nostri magazzini" (a fare la muffa da circa due mesi, aggiungo io) e ancora "per noi va bene portarla a fine mandato". 
Uno shock. Nuova mail con cui preciso che "in franchezza sono un po' delusa" perchè l'opera non ha avuto visibilità, come cavolo pensavano di venderla in questo modo, insomma dai Renatino, una sola volta all'una di notte e poi basta, ma vi fanno proprio schifo cinquemila Euro così sull'unghia senza rischiare niente? Sibillina risposta: "Spero di riuscire a recuperare nei prossimi giorni". Non mi è dato a sapere cosa lui intendesse dire, considerati i "prossimi giorni" trascorsi nella calma piatta più assoluta; il novantesimo giorno è arrivato puntualmente, senza spuntar di Fiori alcuni. 
Passati altri sei giorni, abbiamo preso armi e bagagli e siamo andati a riprenderci il quadro a Roncadelle, prima che ci finissero le ferie e diventasse tutto più complicato. 
Lo show-room dell'Azienda-che-non-è-Telemarket è esattamente nello stesso posto di prima, sempre bello e ben tenuto, anche se le opere in esposizione stavolta erano di un livello che sfiorava l'infimo, rispetto alla nostra prima volta. Che peccato. Il personale è gentilissimo e sorridente, se si passa sopra al senso di gelo e all'atmosfera da coltello che aleggia un po' dappertutto. Non ne ho le prove, ma secondo me hanno tassativi ordini di non parlare con "i privati", di non fare commenti, di non aprire bocca neanche per chiedere come vi siete trovati, o che peccato il quadro non è andato, perchè non ci riprovate o altre amenità del genere. Ecco la vostra opera, ecco l'autentica, una firmetta qui e via, è stato bello, ma forse neanche più di tanto. Mi sapeva da trafila vista altre volte, mi si è infilato in testa il sospetto strisciante che anche quella misera, unica conferma fosse in realtà una finta, tanto per darci lo zuccherino.
Questo è quanto. Mi resta, tra un sospiro e l'altro, lo spazio per una serie di riflessioni, che non pretendo siano verità assolute, ma che temo siano difficilmente smentibili. A meno che, a distanza di oltre un anno dai post rivelatori sull'essenza più profonda del mio Paperino, la sua nuvoletta scura non abbia fatto di noi l'unico Cliente Cagnola totalmente insoddisfatto (il dubbio, di fondo, permane, ma dovevo almeno provarci...):
- La dispensa papale di Orlando è arrivata anche a Porcellino, a quanto pare. Perchè mente proprio di brutto brutto. Non è assolutamente vero che hanno centinaia e centinaia di quadri di privati, tant'è che fanno vedere sempre gli stessi, fino alla nausea, a volte. Stessi nomi e stessi dipinti. E la maggior parte sono di Telemarket, ce li ricordiamo benissimo: Biggi e Mambor, ovviamente, più intere camionate di Sciacca e Faccincani, per non parlare di tutti quegli street-artists... oppure per una probabilità su cento milioni tutti i possessori di "fondamentali opere" di Pho hanno deciso di disfarsene nella medesima settimana? Tutti improvvisamente indebitati al punto di vendere a mille Euro, provvigione compresa, un'opera pagata quattro volte tanto l'anno prima? E poi, se avessero davvero centinaia e centinaia di opere di singoli privati, con Mandati di novanta giorni, scadrebbero i termini prima di poterle presentare tutte.
- Hanno, in effetti, qualche quadro da privati, da gente comune, di quella che firma il Mandato a vendere, ma presumo solo per fare un bel po' di fumo, perchè non sono assolutamente intenzionati a promuoverli o a venderli. Altrimenti, certe scelte commerciali non si spiegherebbero. Quadretti da mille Euro presentati decine di volte (e in teoria ci dovrebbero guadagnare appena dai trecento ai cinquecento euro), e un Biggi inedito che fa la muffa in cantina, mentre Porcellino dice "non chiedeteci più Biggi, non ne abbiamo più, men che meno il ciclo dei Fiori che è andato via bruciato". Ti cresce il naso. I Biggi da spingere sono solo i loro, non c'è dubbio, riconoscibilissimi del resto, perchè sono incorniciati tutti uguali, l'ha notato anche un telespettatore polemico che ha fatto perdere per un attimo l'aplomb ridanciano a Porcellino. Oltre a noi, ovviamente, che conosciamo personalmente il corniciaio di Telemarket perchè ha il capannone a circa un chilometro in linea d'aria da casa nostra, e prima di conoscere Franco Ristori portavo lì tutti i miei quadri a spogliare e rivestire (perchè con tutto il bene che voglio agli Orler non sono cieca: le loro cornici sono terrificanti).
- Certo, mi possono dire che il "mio" Biggi non era della qualità giusta (in base a quali parametri vorrei sapere, visto che proprio sulla qualità aveva puntato chi me l'ha venduto...), che è una frase ad effetto che fa sempre colpo. Io lo trovo qualitativamente pregevole, comunque. E' complesso, graffiato, con forti riferimenti alle sue puntocromie, ed inediti elementi a croce. L'accostamento del colore è studiato, tutte tinte forti. Ma poi torno pragmaticamente al punto: che te frega? Tu presentalo, lascia decidere allo spettatore, alla sua sensibilità, al suo gusto. Alla fin fine, la provvigione la prendi lo stesso. A meno che... sul "mio" prendi la provvigione di un terzo, mentre sui "tuoi" il prezzo intero. Oppure il Terzo Polo te li passa a condizione che tu venda solo i suoi. Mistero della fede.
- Tutta questa manfrina dei privati bisognosi viene enfatizzata, a mio parere, solo per avere una giustificazione ufficiale per rifiutare qualsiasi rientro e/o permuta, che è la cosa che più detesta chi vende arte. Non è una critica solo a Cagnola, cari signori. Andiamo avanti così, e il mercato si ingessa. Mica li fabbrico, io, i foglietti colorati verdi, o rosa scuro. Eccheccavolo. 
- Non posso sapere, ovviamente, con certezza, qual è la reale portata delle vendite di Cagnola. Roberto Porcelli afferma che vendono come dei dannati, e io glielo auguro, così l'economia gira, ma ho i miei seri dubbi. Per lo meno sulle opere davvero di privati, che puntualmente sgamo su Ebay (Classic o Annunci indifferentemente) già il giorno dopo che Robertino ha pronunciato la famosa frase "l'opera non è più disponibile" (fatalità). In questi giorni, una china di Xavier Bueno, ad esempio, ne sono certa. O un paesaggio di Annigoni grande e spettacolare, cascasse il mondo. Entrambe pezzi unici e inconfondibili. Se giudico a naso (il mio nasetto da sedici), per quanto io ci capisco di mercato, di crisi, di vendite, di Clienti più o meno incazzati e/o senza soldi, è un'operazione studiata a tavolino, e a tavolino ha la fine già scritta.
- Avevo scritto a Renato Marchioni la mia delusione, e qui la ribadisco. Ma non perchè non mi hanno venduto il dipinto, assolutamente; vorrà dire che lo metterò in vendita su altri canali, anche se meno esposti di quello televisivo, oppure lo prenderò come una strizzatina d'occhio del destino e me lo terrò, chissà. Il fatto è che mi sono sentita presa in giro. Da tutta l'operazione, dagli inviti spudorati che fanno ai telespettatori a contattarli per mettere in vendita le proprie cose, già sapendo che non verranno mai mostrate, se non una volta sola, all'una meno venti. Dalla mail che lui mi ha scritto il 24 Luglio, in cui mi dice di essere "dispiaciuto nel sentire che non siete stati, fino ad ora, pienamente soddisfatti", ma mi prendi per scema o scherzi? E ha insistito per arrivare a fine mandato, tenendo il quadro in magazzino a marcire (e rischiare graffi, colpi e danni vari) ed impedendomi, di fatto, di poterlo re-immettere sul mercato per conto mio. Delusa dalla sfilza inenarrabile di bugie. Dalla incredibile faccia tosta. Dal fatto che il collezionista è sempre considerato un emerito deficiente, con cui si può/deve parlare solo ed esclusivamente di denaro (montagne di denaro facile, perchè solo quello l'emerito deficiente sa comprendere).
- Molto birichini.



"In questa Serie quasi ovvia e banale ho voluto però rappresentare la per me insopprimibile esigenza dell'uomo di ritrovare una bellezza perduta, il profumo di un fiore, la sua ritmica presenzialità, la sua non violenza, il suo offrirsi alla umana specie all'inizio di ogni nuova stagione come rassicurazione che il sole continuerà a sorgere, la luna ad imbandirci la chiarezza della notte, gli animali che certamente non cesseranno di contrappuntare con la giustezza infallibile del loro istinto la precarietà bisognosa del nostro vivere".
Gastone Biggi

AVVISO AI NAVIGANTI: Tra i vari commenti che seguono, occhio al mio "Aggiornamento" dei primi di Settembre, che ho inserito come un curioso ed imprevedibile ragguaglio a questa love-story sotto l'ombrellone... 

sabato 17 agosto 2013

Gratitudine

Ormai mi conoscete bene tutti, e lo sapete: io non scrivo a comando. Mi deve venire da dentro, dev'esserci uno stimolo particolare, un'emozione, quel "qualcosa" che fa partire l'incipit (fondamentale lui, con un incipit sbagliato si rischia che tutto poi sembri noioso, anche se non è vero), che fa sì che le parole si leghino l'una all'altra. 
Mi devo poter sentire come quando ero piccola, e avevo la mania (anche questa è stata generazionale) di infilare le perline: una dietro l'altra, quasi uguali per forma ma mai per colore, a comporre infinite collanine, piccoli bracciali, coroncine, tutte di cromie diverse così com'era l'umore del momento, intenso e macchiato di rossi e arancioni, o solare come un prato, lunga distesa di giallo e di verde, oppure ancora più cupo, di blu e violacei screziati - sempre se può esserci un giorno cupo nella vita di una bambina di dieci anni. Io poi, ovviamente, avevo perfezionato la tecnica, perchè essere come tutte le altre bambine non mi bastava mai, dovevo sempre andare "oltre". Mi ero costruita, con il coperchio di una scatola da scarpe e degli spilli, un vero e proprio mini telaio, con il quale non mi limitavo ad infilare collane, bensì producevo vere e proprie fascette intessute di perle, lunghe una ventina di centimetri e larghe un centimetro, un centimetro e mezzo, a seconda della grossezza della perla. Una decina di fili tesi in ordito, e poi con l'ago via via a infilare orizzontalmente, avanti e indietro, creando la trama, perla dopo perla, con i colori che formavano strani disegni, fino alla fine, quando fissavo le due estremità con dei pezzetti di alcantara incollati, e poi la fettuccina a legare il polso, o più spesso la fronte, come una piccola indiana imbronciata. Finita una, già ripartivo con la mente fissa sulla seguente, più bella, più calda, più nuova.
Così le parole: è necessario che fluiscano, che sia l'emozione latente a spingerle fuori, che si inanellino sul filo della carta, o della tastiera, riempiendo un vuoto che resta sempre e solo momentaneo. Emozione che può essere positiva o negativa, certo, perchè posso scrivere di meraviglie o di rabbia, di affetti o di delusioni. Possibilmente sempre con quella punta di ironia che sdrammatizza la vita, quando sembra faccia apposta ad apparire pesante o insormontabile: un filino di ironia la rimette in riga, e le ricorda che siamo noi a tenere le fila del nostro destino, delle nostre gioie e dei nostri dolori, e non lei (e farle capire chi comanda è fondamentale fin da subito, o si finisce per piangersi un po' troppo addosso, cosa che non ha mai aiutato nessuno).
Poi però capitano anche momenti in cui ti senti in dovere di metterti lì e sdebitarti, in qualche modo. Anche se sono emozioni già provate, non importa. Vuoi solo forgiarle nuovamente e farle diventare una sorta di "grazie". E' quanto sta succedendo a me ora, da inguaribile, emotiva, romantica sognatrice quale sono (quando depongo l'uniforme ed il cipiglio da Comandante Supremo del mio universo), dopo le ultime due Mostre fiorentine dell'inarrivabile Armodio. Ho già scritto tre volte di Armodio, e non voglio rischiare di ripetermi, anche se a mia volta - a dire il vero - non mi stanco mai di "gustare" i suoi dipinti: del resto, non è che smettiamo di bere o di mangiare, di dormire o respirare solo perchè sono gesti già compiuti il giorno prima, o quello prima ancora! Abbandonarsi ad un'opera di Armodio è un abbeverarsi alla fresca fonte della "pittura senza errori": non stanca. Non stanca mai. E coinvolge tutti i sensi, non solo la vista (quello che appare il più ovvio), o il tatto, se ti spingi - timoroso, con il lato più bambino di te - a sfiorarla per vedere se qualcosa, di quella immobile perfezione, magari si muove piano sotto le dita. Un cartiglio a rilievo, con un soffio di vento. Un libro che fruscia. Un filo che si allenta. Giusto per sobbalzare nell'anima e dire a te stessa che sì, avevi ragione, non poteva che essere viva! Coinvolge il gusto, anche se ci vuole un po' di esperienza e tanto esercizio, ma alla fine senti davvero che, entrando dagli occhi, qualcosa di indefinitamente morbido, soavemente dolce, fatto apposta per placare ogni sete ti scivola giù per la gola, solleticando appena appena la lingua, come una lieve acquolina davanti ad una tavola imbandita (è davvero tavola, è davvero cibo per la mente e l'anima una Mostra di Armodio). Coinvolge l'udito, e coinvolge l'odorato, perchè c'è musica infinita nel silenzio di un palazzo museale (basta solo saperlo tradurre, cadenzando il rumore dei passi e stemperando il brusio delle voci di ammirazione in sottofondo), ed il profumo della storia che esce dalle sue pareti si mischia in un'essenza unica e delicata con il legno delle tavolette, o delle cornici.
Nel giro di un mese Firenze è tornata protagonista due volte, ospitando Armodio praticamente in contemporanea, alla Biblioteca Medicea Laurenziana ed a Palazzo Medici Riccardi. Noi non ce ne siamo persa una, piuttosto mi sarei fatta staccare un braccio, anche se erano entrambi giorni tosti e sarebbe stato utile restare in ufficio (tuttavia, vedere lo sguardo della Somma Acidini che fulmina Franco Ristori in ultima fila, perchè nel silenzio assoluto della sua presentazione risuona la sirena da ambulanza che Franco ha come suoneria del cellulare, non ha prezzo). 
Ma di Armodio ho già detto molto, e per gli smemorati e i pigri riporto; guai a voi se procedete senza prima rileggere questi, se già non li ricordate, perchè ogni storia deve avere un percorso ben definito, e questo è il percorso che mi ha portato a comprendere Armodio, al quale - come per tutto ciò che è "grande" - non si arriva mai dal nulla:


Queste ultime volte invece mi sono soffermata di più su tutto ciò che stava "attorno" ad Armodio. 
Forse è una deformazione che ho preso da quando è iniziata la mia amicizia con Franco Ristori, che vede tutte le cose a partire dai bordi. E comunque mi ci voleva, perchè a furia di trovare soluzioni partendo dal fulcro dei problemi, non ti accorgi quanto può essere semplice arrivarci partendo dalla periferia; anzi, magari dalla periferia non ti appaiono neanche come problemi, ma come robetta da niente, da farci spallucce, una risata e tutto scivola via. Grande uomo, Ristori, la sa davvero lunga su un sacco di cose, basti pensare a quanti artisti, quanti galleristi, quanti studiosi sono passati per la sua Bottega, per le sue mani, e lui è ancora lì, silenziosamente sornione, a guardare chi passa e chi torna. A chiudere (nel suo caso) il rettangolo della vita. 
Gli allestimenti delle ultime Mostre di Armodio sono frutto del suo ingegno, e a mio parere il massimo l'ha raggiunto alla Biblioteca Medicea Laurenziana. Perchè in effetti sono i LUOGHI che trasudano storia, che danno il tocco in più alle opere, che apportano loro il respiro vitale mentre, contestualmente, tolgono il fiato agli estatici astanti. Attraversare la BML per arrivare alla Tribuna d'Elci a me l'ha tolto, di colpo. Sarà che io subisco da morire il fascino dei libri, indietro nei secoli, intesi come strumento di trasmissione del sapere oltre che di bellezza fine a se stessa. E' una sensazione che mi porto dietro dai tempi dell'Università (a volte andavo a prendere qualche tomo alla Marciana solo per vedere la Marciana e basta). Il pensiero dei copisti, i codici miniati. Le pergamene. Gli inchiostri. La carta. Gli icunaboli. Le legature. Prosaicamente tutte cose che non danno da mangiare a fine mese, ma se avessi capito come fare per vivere d'aria mi sarei barricata in una qualche Biblioteca storica per il resto dei miei giorni. Per la cronaca infatti, quando ho saputo che la Mostra settembrina a Roma di Claudio Cionini sarà all'interno di una di queste sono andata fuori di testa (ragazzo in gamba il Cionini, infatti c'era anche lui da Armodio a Palazzo Medici Riccardi, prelibatezza per artisti e non). 
La BML è ultraterrena, con il suo soffitto intarsiato che ride della tua pochezza umana, con il suo pavimento, che a quella umana pochezza chiede protezione, con le sue panche strette strette, che ancora conservano lontani brusii. Con la volta accecante della Tribuna, che mi ha ricordato un piccolo Pantheon. Solo dodici tavolette per la Tribuna d'Elci, ma dodici per chi mastica un pochino di numeri è numero importante, numero biblico ricorrente, numero simbolico, ci scommetto la mia tavola di Armodio con l'uovo che Armodio lo sapeva benissimo, e ci ha giocato un po' su, visto che anche lui ha una vera mania, per queste cose.
Poche, uniche, somme, perfette. Non fissate a muro, ma appoggiate ad altezza pancia (in senso sia letterale che emozionale), quasi levitanti su invisibili supporti, sopra metri e metri abbandonati di raso blu, luminose onde, come morbido mare. Mare che sarebbe potuto divenire cascata, giù fino al pavimento, se la Direzione della BML l'avesse permesso, ma invece hanno preferito che si vedessero i libri, sopra e sotto le tavolette, in una spirale di storia, cultura e magia dalla terra al cielo (peccato che alcuni scomparti contenessero i fancoils, per certo meno suggestivi dei libri, da vedere).
E sopra quel mare di blu, attorno ai dipinti, dodici cornici tutte uguali, chiare chiare, venate appena di miele e terra calda, come finestre aperte, come occhi guardinghi. Con i passepartout a differenziarle, nero per le tempere a fondo chiaro, e bianco per quelle a fondo scuro, alternati, in cerchio. Altra forma perfetta, del resto. 
E spezziamola questa benedetta lancia! Si vede lontano chilometri quando la cornice è di Ristori. Con tutto il bene che voglio ad Armodio (ed è molto, bada bene). Quelle stesse cornici della BML hanno un paio di gemelle a Palazzo Medici Riccardi, io ormai ho la vista abituata e le ho individuate immediatamente, anche perchè sono strepitose. Ma gemelle diverse, perchè - spiegava Franco - su una delle due, orizzontale, ha usato più terra, per creare delle colature più intense che riprendessero, ricordassero, rincorressero le sfumature orizzontali del libro nel quadro. Non so voi, ma per me è un privilegio anche questo: sentir raccontare come nasce l'abbraccio della cornice. Stare lì buona e zitta, ad ascoltare una persona che, nel tempo, ha potuto accarezzare De Chirico, per dirne uno in mezzo a mille. Che ha illuminato i migliori, i più importanti, quelli che sono già da tempo nei Musei. E che per ovvi motivi non ama particolarmente gli scultori, ma riesce a dare consigli giusti anche a loro. E' uno step ulteriore: prima ascolto Armodio, e mentre ascolto immagino tutto, come dalla tavoletta vuota prende forma un'immagine, il disegno, e si crea il dipinto perfetto, con il suo fondale di muro e polvere, o la sua balaustra di marmo e vene, o il suo libro fragile, cuoio e pergamena. Poi ascolto Franco Ristori, e all'opera finita (già così, già lei, non modificata nè modificabile) spunta una nuova vita tutt'intorno. Fatta a mano. A occhi. A cuore. Perchè è la pura verità: o mano-occhi-cuore, o meglio che il quadro resti nudo. Come una bella donna: la moda è puro piacere, ma se non ci si arriva meglio niente che infagottata in un vestito orribile, pesante, di tre taglie più grandi oppure troppo strizzato. Anche questa è arte.
In occasione dell'ultima Mostra, poi, mi è successa una cosa. Una cosa nuova e strana. Una cosa che mi ha commosso, perchè io sempre lì casco: nello stupore di quanto le emozioni in generale, e quelle legate all'arte in particolare, riescano ad azzerare le distanze, ad unire le anime, e creare un invisibile legame tra sconosciuti - come un cordone ombelicale, non a caso in grado di trasportare letteralmente la vita stessa. Sensazione che, da quando ho aperto Trecose, ho ormai provato diverse volte, eppure ogni volta mi prende come se non lo sapessi. 
Una persona mi ha riconosciuto. Nelle ampie sale del Palazzo Medici Riccardi, mentre i nostri vestiti estivi frusciavano (è bellissimo, vedere come le Mostre inseguono le stagioni). Mentre eravamo impegnati nell'eterno, goloso gioco del "meglio le carte anticate o le tempere" che spesso non ha soluzione (per me sì, io vado dritta sulle carte, senza tentennamenti). Mentre i turisti, forse solo alla ricerca di una pausa ristoratrice, entravano in quell'oasi di pace, arte e tradizione, e sgranavano gli occhi nel ritrovarsi davanti ad un'inaspettata fonte di bellezza (in effetti non molto segnalata), ed improvvisamente rallentavano il passo. 
Una giovane pittrice, Francesca, che veniva per l'occasione dalla lontana Calabria (anche se sottolineo che il record dei malati di Armodio resta il nostro Venezia-Palermo, per quanto percorso con l'aereo e quindi più rapidamente...), perchè si vede che è sveglia: nessun giovane pittore dovrebbe prescindere dalla vicinanza con Armodio, almeno una volta nella vita (nella vita del giovane pittore, intendo). Se la sua arguzia, la sua intelligenza e la sua profondità umana ed emotiva sono una gioia per noi comuni mortali che ci occupiamo d'altro, non oso immaginare cosa possa essere un suo consiglio per chi sceglie di intraprendere oggi quel sentiero tortuoso che è il fare Pittura Vera. Pittura delicata, con pennelli e colori (non uno splatter colato direttamente dal tubetto), pittura figurativa, per chi ha ancora la capacità ed il coraggio di farla. Il coraggio, già, una parola a volte dimenticata. Ma confrontarsi con chi sta in cima alla montagna, con chi quel sentiero l'ha percorso tutto (anzi, in alcuni punti l'ha aperto lui, puntellandone i paletti, segnando una via stabile dove prima non c'era nulla, tranne che nei suoi occhi), può trasformare una passione in coraggio ed il coraggio in professione.
Devo dire che Francesca è stata aiutata da un assist di Giovanni Faccenda, che durante la sua presentazione ha parlato di ammiratori provenienti da ogni parte d'Italia, da Mestre a Catanzaro. E visto che da Catanzaro ci veniva lei, deve aver fatto due più due. Nel senso, ha capito che io ero in mezzo agli altri. Ed infatti ad un certo punto, quando sono andata a salutare il Maestro assieme a mio marito prima di andar via, ha chiesto se io ero "la signora del blog". Più che due più due deve aver fatto uno più uno più uno: la mia provenienza, la mia ammirazione per Armodio, ed il fatto che alle Mostre noi andiamo sempre in coppia, perchè niente unisce e tiene saldo come l'emozione del bello. E' stato incredibile e buffo, essere riconosciuta perchè parte di una coppia malata d'arte, buffo quasi quanto ascoltare mio marito presentarsi a lei con un "buongiorno, sono io l'inseparabile scudiero" (facendo il verso al mio post "Buona la prima" sulla Fiera di Bologna). 
Ecco, io oggi come oggi vengo chiamata in molti modi, nome proprio a parte: tutti i nomignoli che usa mio marito (e che principalmente fanno riferimento al mondo del tappeto orientale, come ho scritto in "Gente di Palermo"), oppure Signor Agente, o ancora La Dottoressa della Fondiaria (neanche fosse tutta roba mia). Ultimamente c'è qualcuno che mi chiama La Numero Uno, ma sospetto sia un pochino di parte. Sentirmi identificare come "la signora del blog" mi ha letteralmente sciolto (sorvolando sul "signora" che fa un po' troppo vecchietta per i miei gusti, considerando che quando Francesca è nata io infilavo le perline, l'Università è arrivata parecchio dopo, tanto per capirsi), perchè ha reso tutto così... reale. 
Lei mi legge, mi leggeva da un pezzo, e io non lo sapevo. Ama Armodio, e ama Scuffi, e io non lo sapevo. Stima tantissimo Giovanni Faccenda, come amico e come studioso, e non sapevo neanche questo. Lei esisteva, da qualche parte, e io non lo sapevo, ma tutte le emozioni che sono passate per Trecose hanno creato un ponte tra me e lei, perchè questo è lo scopo dell'arte (non oso dire delle assicurazioni, ma sicuramente anche degli uomini): condividere. Essere davanti al BELLO (un dipinto, ma anche un concerto, un discorso, la lettura di un libro, il cielo, il mare d'inverno, le Dolomiti d'estate...) e far sì che diventi PIU' bello, solo per il fatto che non è solo "nostro", perchè è in grado di raccogliere in un'unica rete tutti coloro che lo vivono come tale. E dico questo in attesa di stringere la mano a Michele alla Fondazione Matalon, chiaramente, perchè in realtà tutto è cominciato con Michele, e i suoi treni di Scuffi, e il suo forse-non-irraggiungibile Schifano. 
Un grazie a Francesca, che si aggiunge a Michele e agli altri otto, e diventa il mio decimo, coraggioso Lettore Fisso (e siamo in doppia cifra, adesso possiamo far su una squadra di calcio me compresa, altro che l'iniziale briscola), strizzando l'occhio a chi legge senza iscriversi, o perchè non vuole apparire o perchè proprio non ci riesce (riprova, Betty, riprova). Giusto per far capire alla vita che cosa può venire fuori anche dal niente. E portare a tutto.

P.S. Dopotutto questo è il Post dei Link, e non c'è tre senza quattro.
Continuerò a parlarne all'infinito come se fosse la prima volta, perchè ne ha ogni volta il sapore e lo stupore, ma tutto era già chiaro, chiarissimo come un cielo estivo, limpido come due occhi veri, da tempo:
http://trecose.blogspot.it/2012/05/condivisione.html

giovedì 8 agosto 2013

Inconsapevoli, maleducati, e legalizzati

Nervi, sempre nervi, fortissimamente nervi.
Come vorrei che i nostri legislatori, non dico tutti, ma per lo meno quelli che hanno varato la Norma Idiota che ha eliminato il tacito rinnovo delle Polizze RC Auto, avessero ascoltato la telefonata che ho fatto questa mattina!!!
Succede che, come noto, sto perdendo molte, moltissime Polizze RC Auto di Clienti che passano al mio ex-collaboratore ora rappresentante della concorrenza. Visto che la recente Legge ha sdoganato pubblicamente la Maleducazione, la disdetta non serve più (intesa anche come fax, o mail, o semplice telefonata, giusto per un ciao-è-stato-bello). Ma io, che sono scema al limite del masochismo, non prendo i contratti e li annullo e basta, tanto per levarmi di torno inutili rotture di scatole, quando una Polizza è giunta al termine dei previsti quindici giorni di mora. Macchè. Io conosco i miei polli, intesi come: Pollo n. 01 l’ex-collaboratore sfacciatamente empatico e gioviale (da vero venditore) ma un po’ cialtrone, per il quale il “più o meno” a volte è una realtà scientifica, e Pollo n. 02 il suo Cliente-tipo, cioè colui che non si preoccupa minimamente di niente (garanzie, scadenze, capitali assicurati) perché l’unica cosa che conta è Spendere Meno.
Quindi io annullo i contratti solo DOPO aver appurato che queste persone si siano EFFETTIVAMENTE assicurate altrove (leggasi: da lui), non mi basta che me lo dicano a voce quando rifiutano la mia ennesima offerta scontata, lo voglio proprio vedere scritto nel Database dell’ANIA. Per chi non lo sapesse, noi assicuratori possiamo accedere con un clic al Database dell’ANIA, dove troviamo digitando una targa tutta una serie di informazioni simpatiche e utili, tra le quali principalmente se c’è e con chi è la copertura assicurativa (ma poi ci sono anche altre cose tipo i sinistri avvenuti – così chi tenta di vendermi una macchina incidentata senza dirmelo viene subito beccato – o il codice fiscale del proprietario dell’auto – cosa utilissima se sei a caccia di un fidanzato, per lo meno fai una scrematura in base all’età oltre che al modello di Porsche).
Oggi vedo che c’è uno scooter ormai fuori copertura da qualche giorno (quindi OLTRE ai normali quindici), e conosco anche il Cliente: è un signore un po’ supponente ma non stupido, che nella fattispecie mi ha già detto addio con l’autovettura e con la Polizza Infortuni della Famiglia (regolarmente disdettata con Raccomandata-in-serie, di quelle che ormai conosciamo bene perché sono tutte uguali, precompilate e spedite dall’ex), quindi è evidente che anche questo scooter è destinato ad andare da lui. Però non risulta ancora assicurato, e io mi preoccupo, anche perché so che è lo scooter che usa il figlio, e mi dispiace perché è molto meno supponente del padre. Faccio un po’ di brainstorming con la Bionda (“Che dici? Me ne frego?”) e lei giustamente mi ricorda che io sono una signora nel profondo, una signora scema e masochista, ma pur sempre una signora, e forse sarebbe carino avvisarlo, o quanto meno appurare. Quindi lo chiamo, e gli dico “Guardi caro Signor L. che ha lo scooter fuori copertura da cinque giorni! Stavo per annullarlo e vedo che non l’ha ancora assicurato di là: come mai? Per caso è fermo? Spero di sì, perché se invece suo figlio lo sta usando sono c/zi”. Più o meno, insomma, senza le parolacce. E quello mi fa (supponente): “NON CREDO PROPRIO”. La classica risposta che ti fa partire l’embolo. Guarda, non te lo sto chiedendo, te lo sto DICENDO. Perché io sono L’Assicuratore Che Sa, e tu al contrario sei Il Bifolco Ignorante, che non solo non tiene sott’occhio le proprie scadenze (e quindi secondo i nostri Legislatori non sa fare “scelte contrattualmente consapevoli”), ma nemmeno mi ascolti! L’ho ripetuto in più modi, invertendo l’ordine delle parole, aggiungendo e togliendo avverbi, calcando la voce ora qua ora là. Alla fine deve aver capito e, ammutolito, mi dice: “La chiamo tra cinque minuti”. Ed in effetti dopo cinque minuti mi chiama e mi dice: “Adesso è assicurato (Pausa)  Da cinque minuti  (Pausa)  Quindi lo annulli pure”. Immagino cosa può essere successo: il fetente ex, che ha il suo (anzi, dovrei dire MIO) bell’archivio di fotocopie di Polizze ordinate per data di scadenza, così è tanto facile mandare le disdette in serie, non ha considerato che nel frattempo il Signor L. aveva sospeso la Polizza dello scooter in inverno, e quindi quando l’ha ripresa per la primavera la scadenza contrattuale si è spostata in avanti. Funziona così, infatti, lo sa anche un neo-assunto. Ovviamente si è verificata l’annosa coincidenza che ha visto da un lato il fetente cialtrone non trovarsi in mano la fotocopia della Polizza, perché stava sotto un altro mese, e dall’altro un Cliente che, in uno stato di cose così delicato, prende la busta con l’attestato di rischio e la butta via. Io tuttavia dovrei fregarmene, e godere di questi intoppi, che a me mai capiteranno perché ho un modo di lavorare collaudato e preciso, ma non riesco. Scema e masochista.
Bene, giusto per capire da dove derivano i miei nervi: non tanto perché il Supponente Bifolco, alla fine, ha fatto una telefonata all’ex e si è assicurato in tutta fretta da lui (tanto me l’aspettavo), e neanche perché non mi ha detto nemmeno GRAZIE (che sarebbe stato carino, ma ho già detto che la Legge ha sdoganato la Maleducazione, quindi mi aspettavo anche questo). Quanto perché ha aggiunto che era COLPA MIA, perché se gli avessi mandato l’avviso di scadenza (cioè una seconda busta dopo l’attestato di rischio, che con ogni probabilità sarebbe stata cestinata esattamente come la prima) lui si sarebbe ricordato di andare ad assicurarsi da un’altra parte!!! Da notare che inviare l’avviso di scadenza non è mai stato obbligatorio per contratto, neanche prima; era da sempre una ovvia cortesia che l’assicuratore sano di mente aveva nei confronti del proprio Cliente. Adesso che è stato eliminato il tacito rinnovo, e conseguentemente anche l’obbligo di dare disdetta, andrebbe da sé che – in teoria – potrei fare a meno di mandarti l’avviso (se tu non mi avvisi delle tue intenzioni perché io devo sentirmi obbligata?). E’ chiaro che l’assicuratore sano di mente continua a mandare gli avvisi di scadenza nonostante la Norma Idiota, ma è altrettanto chiaro che non ha senso inviarli a chi SAI GIA’ che cambierà Compagnia; quanto meno risparmi il francobollo.
Già sappiamo che, per questioni economiche (e per marciarci sopra, alle questioni economiche) ci sono in Italia MIGLIAIA di veicoli che circolano liberamente senza copertura assicurativa RCA, ed è un problema enorme finora troppo sottovalutato; sarei curiosa di vedere, a fine anno (cioè quando la Norma Idiota spegnerà la prima candelina) di quanto sarà salito questo numero. Stranieri. Anziani. Semplici smemorati. Disordinati. Gente che non usa il computer. Persone che hanno cambiato casa nel frattempo, o che semplicemente hanno perso l’attestato di rischio. O l’hanno buttato via, per sbaglio o perché non hanno ancora capito bene a cosa serve. 
Vorrei prendere chi ha scritto la Famosa Norma, farlo accomodare qui di fronte a me, in una delle due comodissime poltrone di pelle nera, offrirgli uno dei nostri specialissimi caffè fatti con la macchinetta Dolce Gusto così viene bene anche la cremina, e chiedergli, chiedergli, chiedergli fino allo sfinimento COSA INTENDEVA CON “SCELTE CONTRATTUALMENTE CONSAPEVOLI”. Ma si sa, noi assicuratori siamo fini sociologi, mentre chi fa le Leggi non ha mai messo il naso fuori dalla porta.  

domenica 4 agosto 2013

Arte, croce e delizia




Cominciamo col guardare insieme questa foto. Ve lo chiedo come favore personale. La guardiamo bene per un po', e poi ci torneremo sopra.
Che gran bel weekend ho passato! Mi piace Agosto, mese in cui finalmente rispetto al resto dell'anno possiamo permetterci di prender su la macchina e andarcene via, senza programmi particolari, solo per raggiungere amici distanti o coccolarci in due. 
Siamo stati a Campiglio dagli Orler, che come da tradizione festeggiavano il primo weekend agostano con una mega diretta dalla Galleria montana. Ci siamo anche concessi una più che classica partenza-non-intelligente (il primo sabato d'Agosto alle nove di mattina), quando praticamente imbocchi l'autostrada del Brennero a Verona ed è tutta un'unica lunghissima coda fino alla parte più a Nord del Lago di Garda, ma chissenefrega, è comunque una scampagnata in ambiente climatizzato, tanto mica ci corre dietro nessuno. E ne valeva la pena, perchè eravamo già stati a Campiglio l'anno scorso in Luglio, vedendo la Galleria aperta con quadri e tappeti esposti insieme, ma arrivare e trovarla addobbata tutta SOLO con tappeti (e che tappeti!) è stato un colpo d'occhio da far girar la testa. Parere personale: gli Orler hanno Gallerie di ottima qualità in quanto a quadri (poi ci sono momenti più alti e meno alti), ma non sono certo gli unici in Italia su questi livelli. Per il tappeto invece, tappeto in generale e antico in particolare, sono davvero un centinaio di spanne sopra chiunque altro, in Italia e in Europa. E mi sa che non bastano, cento spanne, per qualità, rarità, bellezza ed armonia dei manufatti, e per la passione e la competenza dei loro esperti. 
Mio marito non si è perso d'animo, lui che con i tappeti ha un rapporto quasi viscerale - ma è normale, perchè il quadro tendenzialmente lo guardi e basta (a parte me, che ci parlo e li accarezzo), mentre con il tappeto il rapporto è più intenso, è tattile, è olfattivo, è mentale. I tappeti, soprattutto gli antichi, non nascono per essere guardati quanto per essere USATI, e quindi averne tra le mani uno (leggero e sottile come una pashmina, sebbene sia fatto di trama, ordito e NODI) significa avere tra le mani la vita, la storia - le vite, le storie - di intere famiglie lungo un percorso di oltre cent'anni. Non erano ancora passati quaranta minuti dal nostro arrivo che già lui aveva staccato dalle pareti una sella. Bellissima. Io gli faccio il musetto tanto per farlo sentire in colpa quando è così compulsivo, ma sono manufatti talmente rari e preziosi che sotto sotto mi fa piacere quando fa l'irrefrenabile con l'annodato. 
Dopo una minima pausa-albergo durante la quale in teoria avremmo dovuto riposarci e/o altro e invece abbiamo continuato a guardare in televisione la diretta Orler dei tappeti dalla quale eravamo appena venuti via (tanto per chiarire la nostra sanità mentale), siamo tornati lì per la grande serata di Dario Olivi, che rientrava dalle ferie in splendida forma. E' un grande, Dario, un grandissimo. E' il miglior venditore d'arte, in assoluto, per certo in Italia, ma tanto io non ne conosco di stranieri (e l'ha detto anche Boni padre, un altro che non scherza in quanto a capacità di convincere, tra una raffica di mitra e l'altra). Infatti è stato un rientro col botto: se lo merita lui, se lo meritano gli Orler, e se lo merita anche questo mercato sempre più soffocato, spaventato e asfittico. Per carità, c'erano opere che gridavano vendetta da sole, come un Hartung del '63, il primo andato via, uno spettacolo emotivo indescrivibile, un unico MareCieloVento ed altro non saprei (chiudi gli occhi e pensa al mare, alle sue onde, alla sua spuma, al suo blu, ai suoi verdi; aggiungici dentro - sempre ad occhi chiusi, mi raccomando - il cielo, i filamenti traslucidi dei cirri e le bianche scie di chi osa profanare i suoi azzurri; adesso fai soffiare sopra a tutto questo, ma cerca di tenere tutto dentro, una serie di venti, ora dolci brezze che appena appena increspino, ora forti sibili che scuotano ed intreccino. ADESSO stai vedendo quell'Hartung). C'era un afghan di Boetti da trentasei lettere particolarmente intenso, un'unica armonia di cromie e pensiero (mica sono tutti uguali, mi pare ovvio, gli arazzi con le lettere di Boetti, per quanto l'idea di base sia sempre la medesima: ne ho visti anche di tristi e sbiaditi verdini e rosa da far pietà, con frasi da Amici-del-Bacio-Perugina). Il mio podio personale era completato da uno Scanavino a fondo rosso talmente forte da turbarti l'anima, che mi ha ispirato un furto con destrezza per qualche minuto. Giù da mio podio, comunque, tutta la Galleria era un percorso museale da mangiare con gli occhi. Ma Dario Olivi ci mette sempre quel quid "da Dario Olivi"... Non è solo la competenza, non è solo la passione sua personale, credo sia proprio una questione di empatia, di quell'invisibile legame di fiducia reciproca che riesce a creare con un certo tipo di collezionista: il collezionista che ha abbastanza soldi e vuole spenderli in arte. Perchè poi tutto lì si riduce, credo, per il gallerista. Gli Orler per l'arte contemporanea (tappeto a parte, quindi) hanno anche Franchino, che vende abbastanza ma ad un target di Clienti totalmente diverso: direi collezionisti che vogliono spendere in arte ma che di soldi ne hanno pochi. Chi ne ha di più è probabile che trovi Franchino, con i suoi improbabili aggettivi ed i suoi neologismi verbali, un po' troppo folcloristico. E poi c'è Carlo che è bravo - l'ho già detto - e anche il più carino dei tre - detto anche questo - ma decisamente più divulgatore che venditore, e credo abbia un suo pubblico di appassionati d'arte che non ha assolutamente importanza se ha tanti o pochi soldi, tanto non ha la minima intenzione di spenderli.
Ecco che mi sto perdendo in discorsi vari come sempre mi succede quando vado in mezzo agli Orler e mi attacco al distributore a gettoni del pathos. In realtà quello che volevo condividere oggi, finchè sono ancora lucida e prima di crollare dal sonno, era un'altra cosa, ma tutto sommato stavo parlando di target di collezionisti, spettatori, ed amanti dell'arte in generale, e non è che andiamo tanto distante da qui. 
Sabato sera alle pareti c'era anche un cemento di Giuseppe Uncini del 1961. Parlo di Uncini, credo uno dei più concettuali tra gli artisti più concettuali: opere crude, forti, fatte solo di cementi, ferri sporgenti o piegati, sabbie, maturate in anni in cui il cemento dell'edilizia iniziava l'espansione a pioggia, morsicava il paesaggio, divorava gli orizzonti. Arte come denuncia, arte come protesta, arte come sensazione di qualcosa che cambia, in un contesto che ormai ha già superato e abbandonato l'idea di forma, figura, colore. Ovviamente, i concettuali (quelli veri come Uncini intendo, non quelli che non sanno dipingere-scolpire-forse-nemmeno-pensare e allora dicono tanto per darsi un tono di essere concettuali) sono, tra gli artisti contemporanei, i più difficili da capire: o ci leggi il colpo di genio, o ti senti preso per i fondelli. Per carità, io mi sforzo di capire e leggere "oltre", ognuno poi si senta libero di fare quello che vuole. E' chiaro che parliamo di opere venute fuori negli anni Sessanta; chi si sognasse di creare un ferrocemento adesso pensando di fare la furbata del secolo forse sarebbe meglio che imparasse a fare la pizza, che i pizzaioli bravi scarseggiano. 
Messaggio importante nel cemento di Uncini, quindi, ma è pur sempre un blocco di calcestruzzo, quindi non è che brilli per pura bellezza. Io a certe cifre non ci arriverò mai, se fossi milionaria magari/forse un Uncini degli esordi me lo prenderei (sicuramente dopo una lunga lista di molti altri desiderata) giusto per metterlo sotto al letto ed attendere un sicuro investimento; per certo non me lo appenderei in camera. In camera ho appeso una meraviglia di tappeto tutto in seta che raffigura la volta della Moschea Blu di Qom, e anche due Scuffi lunghi e stretti (a me piacciono un sacco i quadri verticali, non so perchè) velati su toni trasparenti di blu e beige. Tutta roba senza dubbio meno concettuale, ma molto più "bella" in senso assoluto. Perchè io, che posso permettermi poche cose da tutto sommato pochi soldi, cerco quello.
Visto che il pezzo di Uncini era oggetto di molte attenzioni "telefoniche", abbiamo avuto una piccola, simpatica discussione con alcuni astanti sicuramente più esperti e preparati di noi, che hanno iniziato una tiritera senza fine sulla bellezza intrinseca del manufatto e sui suoi significati. Sul senso nascosto dei buchi affioranti dal calcestruzzo. Sulla profondità del messaggio dato dalle sue irregolarità orizzontali. Senza sapere che mio marito è figlio di un muratore, e quindi sa perfettamente che i buchini nel calcestruzzo altro non sono che le bolle d'aria che affiorano quando il prodotto non viene vibrato, e che le irregolarità orizzontali sono assolutamente normali, visto che al calcestruzzo appena gettato (mistura semiliquida di cemento, sabbia e ghiaia) viene data forma - in attesa che solidifichi - con delle assi di legno, dai cui bordi il prodotto a volte fuoriesce formando piccole strisce irregolari sulla superficie. E così lui ha finito per incavolarsi un po', perchè va bene leggere un messaggio nell'arte concettuale che possa avvicinare al contemporaneo chi non lo conosce, ma non dobbiamo per forza volerci trovare ogni santa volta dei significati nascosti inesistenti, tanto per farci ridere dietro da chi continua a sostenere che "potevo farlo anch'io". Per la cronaca, la foto in alto raffigura la parete del garage sotterraneo dove avevamo parcheggiato la Deltina in quel di Campiglio. Calcestruzzo compreso nel prezzo della camera, senza alcun significato aggiunto.

giovedì 1 agosto 2013

Caos

Continuo a filare dietro al post precedente, alla storia degli Imprevisti da gestire oggi. Io, attaccata come sono non tanto al domani quanto addirittura al "ieri". Ci filo dietro talmente tanto da interrompere la tradizione del "mai postare in Agosto".
L'imprevisto/macigno del mio collaboratore assassino alla fine mi ha portato ad una decisione importante quanto pesante: cambierò ufficio. A breve, brevissimo. Ma non è solo causa sua, in fondo lui è stato solo la ciliegina sulla torta di m/da, continuare a parlare di lui equivale a dare importanza ad una persona che non ne ha, una persona meschina ed inutile, quindi cercherò di farlo il meno possibile, perchè non lo merita, non merita nemmeno i ricordi. L'oblio, ecco la peggior punizione che riservo a chi tradisce la mia fiducia. Altro non serve.
E' l'intero periodo che fa orrore. Indagini approfondite delle Camere di Commercio dicono che il Triveneto è tra le zone più colpite dalla crisi, senza darsi una spiegazione che qui è lampante anche per i bambini dell'asilo: non c'è gran crisi in zone dove la stragrande maggioranza delle famiglie è composta da dipendenti statali. O, per lo meno, senza voler fare demagogia, ce n'è di più dove c'è almeno una Partita IVA ogni due famiglie.
Il mio trasloco però non è solo una questione schifosamente economica, per quanto l'ottica di risparmio dei costi abbia il suo bel peso, visto che non parliamo di cifrette (con quello che risparmierò tra affitto e spese condominiali mi esce lo stipendio di un paio delle Mie Ragazze). Lo sto vivendo come il classico taglio di capelli che fai quando ti ha mollato il fidanzato, o lo vuoi mollare tu e cerchi solo di girare pagina; è così tipicamente femminile! Uno dei pochissimi atteggiamenti "da donna" che ho anch'io, si vede che su certe cose noi andiamo tutte a istinto: tre drastici tagli di capelli nella mia vita, più un paio di cambi di colore (uno era un terrificante rosso fuoco). I tagli per i fidanzati ufficiali, il colore per i non ufficiali. Quando, qualche anno fa, ho lievemente modificato la pettinatura giusto perchè mi andava di avere la frangetta, mio marito mi ha chiesto se c'era qualcosa di cui doveva preoccuparsi.
Con l'ufficio è uguale: ormai ci sono dentro troppi ricordi, cominciano a starci stretti, bisogna lasciarli liberi. Ho cominciato a lavorare qui, proprio qui dentro, fresca di Laurea, e avevo come titolari due Agenti che - come tipico del nostro settore - litigavano e si sbecchettavano costantemente come ragazzini delle elementari. Poi ne è rimasto uno solo, e poi - dopo una parentesi altrove - sono tornata a rilevare tutto io.
Un ufficio grande, un ufficio storico. Perchè è stato il primo, ed era l'unico qui nella mia città, quando ancora la nostra gloriosa mandante aveva la sede a Firenze e non era ancora cominciata la lunga, penosa trafila dei passaggi di mano; una Agenzia sola c'era, ed era questa. Affacciata proprio dietro la piazza, in una zona che era tra le più signorili e piene di vita, di giorno e di sera, ed ora invece andrebbe ripulita con gli idranti (o i lanciafiamme, a scelta). Il cuore del commercio si sposta, in un'altra zona commerciale nuovissima, pulitissima, ordinatissima, e infatti tutti lì ci ritroveremo, mentre la vecchia città, la città che era "nostra", muore abbandonata. Non per fare polemica (oppure sì), vorrei capire perchè certe amministrazioni comunali diciamo un po' troppo "permissive" (per usare un eufemismo) poi non se li portano a dormire sotto le case loro o gli uffici loro, tutti questi signori che mi tocca scavalcare prima di aprire la porta. Loro e le loro bottiglie di birra, vuote o piene, intere o a pezzi.
Ma non è solo quello che sta fuori dell'ufficio, è ancora e più quello che ci sta dentro. Le risate, le aspettative, le riunioni, le ore di stanchezza, di duro lavoro e di emozione per i tanti passi avanti, la rabbia per qualche passo indietro, i traguardi, la stima. Queste mura mi hanno visto formare una specie di famiglia che si è sgretolata, e se c'è una nuova famiglia, se c'è un punto a capo, ci vogliono mura nuove. Piccole, pulite, da riscrivere completamente, piene di quadri vecchi e nuovi, con qualcosa di prezioso e segreto in più.
Se penso adesso al fatto che tra tre mesi dovrò traslocare il contenuto di un ufficio che è qui da quarant'anni, e dovrò farlo senza interrompere il servizio di apertura, senza poter affiggere cartelli del tipo "Ma tu vuoi davvero bloccarmi il trasloco perchè hai comprato un motorino?", mi prende male. Già solo per le linee telefoniche ed i computer mi si strozza l’esofago. E allora io non ci penso. Gestione del Caos! A tempo debito le cose si faranno, e bene. La decisione di cambiare è stata ieri, il trasloco sarà domani. Oggi penso all'oggi, attimo sospeso in un tempo senza impegni, ore estive fatte solo di sogni; è follia? Forse, per certo è un filino di incoscienza. Ma non me ne frega niente, arrivi ad un momento della vita in cui è ora di smettere di preoccuparsi per quello che potrà succedere, perchè hai già visto che se lasci la briglia sciolta alla vita stessa, tutto sommato, ti fa sorprese piacevoli. E mica solo sul lavoro, mica solo in ufficio. Ho conosciuto persone, in questo mezzo Duemilatredici, ancora genuine nel loro essere comunque di spessore, che mai avrei neanche lontanamente immaginato, e ho scoperto che lasciarsi sconvolgere la vita senza opporre troppa resistenza è estremamente gradevole. Persone di cui fidarsi. Persone che ti fanno stare bene solo perché esistono. Perché ti parlano, ti consigliano, ti coccolano.
Se rileggo il mio post di esattamente un anno fa (il traguardo dei cento, l'ultimo prima della pausa agostana) io sorrido, perchè ci sono, e sempre ancora ci saranno, dopo un’estate nuova, nuove Mostre di Armodio e di Scuffi da visitare, mentre tutto intorno mi cambia, in questo susseguirsi di porte che si chiudono, e di portoni che si spalancano. Ci sono persone che sembrano fatte apposta per entrarti dritte dritte nel cuore, per riscaldarlo, per avvolgerlo, per proteggerlo (e se ti sembra di avvertire sulla pelle la sensazione che vogliano uscirne fuori, magari perchè è proprio il tuo cuore ad essere troppo stretto per loro, o forse solo perchè è un pochino spaventato, ti fa male). Domani non mi interessa. Voglio oggi.

Probabilità e Imprevisti

Quand'ero ragazzina Internet non esisteva, nemmeno lontanamente. Per i giochi ci si industriava.
Noi che difficilmente potevamo contare su alberi, corse, prati e pallone, a casa avevamo un sacco di quei giochi in scatola da fare in due, tre o quattro; chi ha più o meno la mia età ha sicuramente passato almeno una volta, con la manina che tremava, le forche caudine dello stramaledetto Osso del Desiderio dell'"Allegro Chirurgo", fatto apposta per farti perdere, puntualmente (a me quello del Crampo dello Scrittore veniva via al primo colpo... destino?). Io sotto sotto lo detestavo, quell'omino fastidioso, soprattutto il palese parrucchino che aveva disegnato in testa, e quel suono lamentoso e gracchiante che emetteva quando sbagliavi (la promessa sulla scatola recitava "strabilianti e divertentissimi effetti sonori", ma a me ricordava più il muggito di una mucca con gravi problemi di stitichezza).
Tutto bianco e rosa, come fragole con la panna per noi bambine era invece "Barbie Reginetta del Ballo", che io e mia sorella abbiamo letteralmente consumato a furia di giocarci, giri e giri all'infinito per beccare quello straccio di vestito, di fidanzato e di anello per andare a farsi incoronare, così fin da piccola impari che anche se non sai lavorare non importa, basta che riesci ad incastrare il grullo di turno e sei a posto. In effetti da bambina io ero... una bambina, intendo cioè in tutto e per tutto una rappresentante del gentil sesso, sognavo anch'io vestiti lunghi e luccicosi, carrozze e Principi. Non so esattamente quando ho smesso di esserlo ed ho cominciato a sognare di usare armi da fuoco e comandare brigate e reggimenti.
Come tipico delle sorelle minori, io non possedevo la Barbie (appannaggio della primogenita) bensì la Skipper, vale a dire La Sorellina Piatta Di Barbie: niente tette, niente cosce, niente polpacci, praticamente dalla testa andava giù dritta come un tronco. Aveva piatti anche i piedi la poverina, cosa che la costringeva ad un guardaroba infinito di ballerine colorate (la ballerina è la scarpa meno sexy dell'universo, sembra fatta apposta per mortificare le gambe), però almeno poteva reggersi in verticale a piedi nudi, cosa impossibile a quella gnoccona della sorella maggiore che aveva il piedino di plastica stampato già pronto per il tacco dodici, ma senza scarpe cadeva, e ti faceva pena perchè, dietro quel sorriso finto, aveva scritto in faccia che era devastata dai crampi.
Il mio futuro da maschiaccio era già scritto fra le righe, comunque, perchè mi stava sulle scatole Ken, e manco morta volevo lui per fare la Reginetta, così incravattato, lisciato e pronto per piazzarsi dietro alla scrivania di una Banca d’affari. O di una concessionaria d’auto di lusso. Visto che artigiani vispi il gioco non ne prevedeva, solitamente giravo più volte per accaparrarmi la carta del meno sfigato, che era una specie di sportivo con i capelli rossi che a pensarlo così sui due piedi oggi mi ricorda vagamente il mio primo morosetto (acne a parte). La parte migliore in ogni caso andava a mio fratello piccolo, che segretamente a volte giocava con noi, nonostante fosse un gioco da "femmine", ma solo perchè gli consentivamo di giocare a rovescio, cioè di scegliersi un  vestito maschile tra i quattro papabili nostri fidanzati, e di beccarsi una fidanzata tra le modelle dei nostri vestiti (ed erano tutte strafighe, altro che Ken, Bob o Tom - che in teoria doveva impersonare un venticinquenne ma sembrava mio nonno - tutti ragazzotti americani con nomi di tre lettere come allegri cagnolini).
Già, il mio fratello piccolo, quello che si è mangiato la pallina metallica che si infilava nel camino del "Castello Incantato" per far cadere gli oggetti; se chiudo gli occhi ho ancora ben netta l'immagine, ferma come un fotogramma stampato nella mente, del mio papà che tiene questo frugolino biondo per i piedi e lo scuote, a testa in giù, finchè la pallina gli esce dalla bocca, rimbalzando sotto la credenza bassa e lunga del servizio buono. Giusto perchè, presumo, se avesse deciso di aspettare che la pallina, che era anche piccola e liscia, facesse il suo percorso intestinale fino alla - diciamo - "naturale espulsione", avrebbe avuto per qualche giorno due figlie femmine urlanti e molto, molto fastidiose. Scuotere l'unico erede maschio sottosopra per un paio di minuti deve essergli sembrato il male minore.
Certo, oltre ai giochi tipicamente infantili poi c'era il Monopoli, che ti faceva sentire già grande, perchè ci giocavi assieme agli adulti, e potevi maneggiare i soldi, e decidere da solo la tua strategia: se avere tante piccole proprietà da poco, oppure una sola, però direttamente al Parco della Vittoria. Io ero un martello al Monopoli, se mi ci penso mi do fastidio da sola. Lo vivevo come una missione, anzi due: la prima, uno o più alberghi nei quartieri alti, a qualunque costo. E poi, la seconda, il lento ed inesorabile prosciugamento degli avversari. E ci riuscivo, il più delle volte: con quel briciolo di fortuna che mai non guasta e che tendenzialmente avevo, puntualmente come aprivo il primo albergo tutti gli altri ci finivano sopra, ad ogni giro. Mai come in altri giochi, io a Monopoli giocavo solo ed esclusivamente per vincere, per vedere l'espressione incuriosita degli adulti davanti ad una bimbetta o poco più che sfoderava, a muso duro, una determinazione da panzer.
Oddio, perchè tutta questa crema da spalmare di ricordi d'infanzia, solo per arrivare al Monopoli. Non lo so, è che in questi giorni il Monopoli mi frulla e rifrulla per la testa, lui con le sue carte delle Probabilità e degli Imprevisti. Tutto per un articolo che ho letto di recente su un giornale femminile, di quelli che sfoglicchio, in mancanza d'altro, quando vado dalla parrucchiera a farmi stirare i riccioli. Evitando come la peste i giornali di gossip, sugli altri qualche spunto buono ogni tanto lo trovo. Questa era un'intervista ad uno stilista olandese, se non ricordo male, neanche potrei dire come si chiamava, ma so che presentava uno spaccato del suo modo di lavorare che lui definiva "Gestione del Caos".
Già la parola mi turba nel profondo, a me che sono una perfettina tutta programmi e certezze. E invece ha ragione lui: oggigiorno nulla è più certo, nulla è più programmabile. I commercianti chiudono, gli artigiani soccombono, i loro dipendenti se ne vanno a casa, non girano più soldi, non si produce più la minima ricchezza, mentre il nostro governo è tutto preoccupato per la languida signora kazaka espulsa.
Io penso al mio lavoro, dove in teoria si dovrebbe procedere per campagne di vendita quanto meno di mesi (tra programmazione, effettuazione, verifiche e correttivi). Mesi? Ci sono buone probabilità che le persone con cui parlo OGGI di accantonamenti pensionistici (perchè hanno una signora busta paga data da una signora azienda e quindi sono discorsi che ancora si possono fare), DOMANI - e intendo proprio domani, non è un modo di dire - mi vengano a dire che non hanno più nè la signora busta paga nè il lavoro. Per non parlare delle telefonate alle famiglie ad ore pasti, ormai assurde ed anacronistiche, per proporre "interessanti soluzioni assicurative": conosco gente che ucciderebbe per molto meno.
Ha ragione l'olandese, saper programmare e pianificare non è più una qualità che fa la differenza. Ciò che serve davvero ora è saper gestire l'Imprevisto, al meglio. L'ordine importante da evadere quando hai mezzi dipendenti in ferie. Il servizio impeccabile da fornire quando sei attaccato alla canna del gas. Decidere l'oggi per l'oggi, senza pensare ad altro. Deciderlo, farlo, e farlo bene. Differenziarsi dagli altri in questo: esserci, sempre pronti, con inventiva. Sicuramente non è un bel lavorare, ma solo chi di noi (assicuratori italiani e stilisti olandesi, ma anche ristoratori, idraulici, carrozzieri, gelatai, venditori d'auto piuttosto che di abbigliamento, e chi più ne ha più ne metta) riuscirà a gestire l'Imprevisto, con ogni Probabilità ne uscirà prima degli altri.
A me, da Cliente, è successo ieri: ho telefonato – una telefonata molto femminile – per farmi spostare l’appuntamento dall'estetista, perché me li fanno prendere un mese prima ed è praticamente impossibile che io possa sapere se tra ventotto giorni esatti alle ore 18.00 in punto sarò libera o meno. Lo segno, ma poi devo vedere come butta; è evidente che se un Cliente mi dà appuntamento per una Polizza nuova o anche semplicemente per pagare, io ci vado, ceretta o non ceretta (casomai vedo di andarci con i pantaloni lunghi). Chiamo l’estetista per spostare di un giorno, prima o dopo non importa, ma mi hanno risposto di no, non c’è posto, perché adesso sono in pieno periodo-Groupon, e il Centro estetico è superaffollato da cybernaute che prenotano una manicure a quattro Euro. Risultato: visto che a me la ceretta serve, mi tocca andare da un’altra parte, ma se mi trovo bene non è detto che torni indietro, anzi. Quindi tu perdi un’ora con la cybernauta sottocosto che non rivedrai mai più in vita tua, e il tuo concorrente guadagna una fedele Cliente irsuta (insomma, ho ciglia e capelli folti e sani, mica potevo pretendere che la cosa si fermasse lì?!) puntuale come un orologio e che in quanto a spesa non va tanto per il sottile (altro che Groupon!) quando c’è da sfoltire ovunque, e sottolineo ovunque. Gestire l'Imprevisto è anche saper decidere, in un amen, a chi dire sì e a chi dire no, quale Cliente coccolare e quale no, perchè in tempi grami anche la gestione del proprio tempo è fondamentale. Non puoi spaccarti la schiena per niente. Infatti quando sono stata io la cybernauta di Groupon (avevo comprato un coupon per il lavaggio della Deltina) mi sono sentita rispondere dal gestore del lavaggio che accettavano al massimo tre Clienti Groupon al giorno, perchè la maggior parte dell'orario di lavoro era riservata ai Clienti abituali. Oppure, se mi andava bene lo stesso, il cybernauta doveva adeguarsi e portare l'auto al primo giorno di pioggia (sic). Anche questa è, comunque, gestione del caos.
Magari è tutto solo un modo che la Grande Ruota del Tempo usa per tirarci le orecchie, per ricordarci che per avere un domani, anche un domani qualunque, è indispensabile avere un buon oggi. Per ridare valore, a quell' "oggi" che nessuno considera. Insomma, sono giorni che ci rifletto sopra, a questa cosa degli Imprevisti, e non riesco a schiodarmela dalla mente. Sarà che il mio Duemilatredici è stato (finora! E ne manca ancora una metà scarsa...) un unico, eterno, infinito susseguirsi di imprevisti, esattamente nel senso più basico della parola, cioè "cose-non-previste" (avvenimenti, incontri, viaggi), non necessariamente con l'accezione negativa che di solito tendiamo a dare a questo sostantivo. E a furia di sbatterci il naso, comincio a trovarli quasi simpatici.