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sabato 26 ottobre 2013

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Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo. 
Ma andiamo con calma con le spiegazioni; intanto, non ho più tempo di fare niente di tutto quello che solitamente mi piace fare. Ottobre è un mese molto denso del suo, e visto il momento non è il caso di trascurare nessun Cliente, proprio nessuno, neanche quelli più piccoli e apparentemente meno interessanti - quindi se bisogna fare qualche chilometro in più per incassare la RCA di una Panda da una nonna di campagna ci si va, vuoi mai che ti si apra tutto un mondo intorno di nipoti pieni di soldi, nella speranza ovviamente che siano anche desiderosi di darli a te (assicurativamente parlando, certo), altrimenti il fatto che ne abbiano non è assolutamente rilevante. 
Aggiungiamoci il famoso trasloco, che ormai quasi mezza Italia attende affinchè io smetta di parlarne; siamo praticamente in vista dell'arrivo. Passo dopo passo, nell'ufficetto nuovo sono arrivati i mobili (in tante scatole con kit di montaggio, ma il mio angelo della manualità vede e provvede), le tende, la corrente elettrica, l'insegna esterna, le vetrofanie. Bisogna svuotare centoquaranta metri quadri e ridurli a settantacinque, del resto i traslochi servono esattamente a questo: a ripulire le case, a ripulire gli uffici, a ripulire i cuori, a ripulire le vite di ciascuno. Io vorrei tenere tutto, ogni foglio, ogni cartellina mi ricorda un volto, una voce, una storia. Impaccare tutto nella campana della carta, o direttamente nel container del macero, è doloroso, sento quasi lo strappo dell'abbandono. 
Il mio angelo della manualità non ha mai lavorato in un ufficio, e mi deride un pochino, ma è così. Un sinistro particolarmente difficile gestito bene, con il Cliente che ti dice grazie e ti porta i cioccolatini. Una famiglia che ha subito un lutto e si è divisa, alcune Polizze sono rimaste ed altre no. Quella grossa flotta aziendale, un parto allucinante sia la trattativa che la stampa. La mia procura per il vecchio Agente. Gli attestati dei corsi di formazione, quelli fatti negli anni Novanta che dicevano quasi il contrario di quelli degli anni Duemila, ma uno di questi l'avevo fatto a Milano da un docente universitario, e lui durante la simulazione di vendita in aula mi aveva riempito la scheda di valutazione con tanti "più", dicendomi che forse era il caso che pensassi a qualcosa di "oltre" (ero capoufficio, all'epoca; tutto doveva ancora cominciare). 
Via, via tutto, in pacchi ben confezionati, perchè l'angelo della manualità è una scheggia con lo scotch. Sto buttando nel container del macero tre quarti dei miei ricordi, del resto anche il Modello Unico lo puoi buttare dopo cinque anni (con l'Agenzia delle Entrate che scandisce la legalità del tempo che passa). Va bene, è così che sto vivendo questo trasferimento: voglio un ufficio vergine. Lo riempirò di nuovi volti, di nuove storie, di nuovi ricordi. Sarà un punto a capo umano. 
La prossima settimana staccheranno le linee telefoniche qui e le riattaccheranno tre chilometri più in là. Staremo quattro giorni come nel Limbo tra color che son sospesi, con i computer attivi qui ed i telefoni attivi di là, ma viste le evoluzioni necessarie per ottenere appuntamenti certi con i tecnici non era il caso di lamentarsi più di tanto. Però si corre un sacco, in questo mese. Affari da concludere, scatoloni da spostare. Penso solo al lavoro, a chiudere bene i conti, non ai visi e ai ricordi; e non scrivo più, non leggo più, non ho tempo, il mio cuore non si apre. 
Faccio foto. 
Eccomi arrivata a bomba, dopo uno dei miei soliti voli per spiegare il battito. Quand'ero ragazzina mi piaceva fotografare, devo averlo anche raccontato in un post di un secolo fa, più o meno. Avevo smesso per due motivi: uno, l'avvento del digitale, perchè per me fotografare non poteva prescindere dal rullino e dalla carta. Estrarre il rullino dal cilindretto di plastica, assaporare appena quel tipico odore sgradevole ma ogni volta eccitante, perchè avevi davanti trentasei opportunità di VEDERE solo tue, infilarlo, alla fine riavvolgerlo. Portarlo a sviluppare. Attendere qualche giorno prima di poter verificare se quello che avevi visto tu attraverso l'obiettivo si era davvero fissato sulla carta in QUEL modo, il modo in cui lo ricordavi. Quelle ombre, quelle luci. Ci ho messo un po' a farmi coinvolgere dall'aspetto positivo del "se-è-venuta-male-la-cancelli-subito-e-via", oppure "puoi-scattarne-centocinquanta-tanto-non-costa-niente". Indubbiamente positivo, ma che all'inizio rendeva tutto così piatto, troppo semplice. Sembrava non servisse più applicarsi per studiare la luce, il tempo, l'inquadratura. Ero entrata nell'era del tutto e subito, soprattutto del tutto-e-subito facile, e non mi piaceva per niente; non perchè a me piaccia far fatica, mica sono masochista. Ma ho sempre sentito molto più "mie" le cose che ho ottenuto con un minimo di sforzo, di impegno (dalle foto a molto altro, nella vita, anche perchè in effetti di roba facile facile non me ne ha riservata poi tanta).
Secondo motivo, l'angelo della manualità odia le foto e tutto ciò che ci gira intorno. Odia l'idea di tornare in un posto visto la mattina perchè al pomeriggio la luce sarà diversa e più "giusta". Odia fermarsi per respirare attraverso un rettangolo. Quindi la mia reflex era finita, all'epoca, dentro l'armadio dov'è tuttora (perchè il trasloco di casa l'ha protetta, dentro l'armadio, perchè certe cose non si possono buttare via anche se non si usano più, sarebbe come tagliarsi via un piede).
Un paio di settimane fa ho compiuto di nuovo gli anni. Capita, tra un post e l'altro, lo sapete. E ci ho riprovato con l'idea dello Smartphone, perchè qualcuno di molto importante me ne ha regalato uno di molto importante, praticamente è una macchina fotografica che, tra le altre cose, ti permette di telefonare. Così puoi scambiarti infiniti mms di scatti di mostre, di quadri, di arte, e sentirti più vicino. Ed è per questo che mi sembra di essere tornata indietro nel tempo. Non mi si apre il cuore per scrivere, leggere, comunicare, ma faccio un sacco di foto, e rivedo in queste (nuove, immediate, incredibilmente definite) com'ero, cos'ero da ragazzina. Cosa cercavo, cosa vedevo attraverso il rettangolo. Mi piaceva l'idea di entrare nelle cose, non ho mai amato scattare ai paesaggi, ai tramonti, alle immensità. Io ero una da piccoli particolari, cercavo la simbiosi con il primissimo piano, quando non addirittura col dettaglio: le venature del legno, il colore di un occhio, uno solo. Un pezzo di animale, non l'animale intero. Sembra che questa volta l'angelo della manualità apprezzi, visto che non coinvolgo lui in prima persona (però gli ho fotografato i piedi mentre dormiva). Nelle mie ore di stanchezza la casa diventa un immenso tempio di particolari da fotografare, senza sforzo e a mente vuota. Il mio cuore e la mia mente fluiscono all'interno delle cose, della carta, della ceramica, del bronzo, e lì si fermano, in attesa di protezione. Direi che quasi si nascondono, perchè sta per arrivare un cambiamento, una nuova maturazione. Ancora poche settimane e uscirò dal bozzolo, ancora una volta.











domenica 6 ottobre 2013

Furto d'anime

In un post precedente - parecchio tempo fa, ormai - avevo accennato al fatto che mi spaventa quanto l'attuale "crisi" (e lo metto virgolettato perchè mi dà sempre più fastidio usare questo termine, diventato un modo di dire, assunto a capro espiatorio per giustificare tutto ciò che una volta ci saremmo vergognati di fare, degradando noi stessi, le nostre abitudini, i nostri rapporti umani sempre più aggressivi e basici) stia eliminando dalla nostra quotidianità tutto ciò che è superfluo. L'effettiva mancanza di liquidità in circolazione - e questo è un dato di fatto - unita ad una pressione mediatica fuori da ogni grazia divina mai vista prima, sta portando lentamente l'italiano medio, quello che io chiamo "l'uomo della strada", io, te, noi insomma, a realizzare che forse-tutto-sommato se ho una pagnotta in tavola (rafferma, magari), e due tute da ginnastica da intercambiare (quando ne lavo una, uso l'altra) posso sopravvivere comunque. So che c'è chi inorridisce a sentire certe cose, ma io sono e resto una consumista convinta, nel senso che credo fortemente che far girare l'economia (spendere, comprare, consumare) apporti benessere generale a tutti. Non mi piace sopravvivere e basta, proprio per niente. 
Ne parlavo qualche giorno fa con un mio Cliente, beh, diciamo che adesso è un mio Cliente, ma fino a quel giorno lì era Cliente di un Broker, il quale appoggiava a me le Polizze di questo signore. C'è la crisi anche per i Broker, evidentemente; non dico tutti, di sicuro ce ne sono ancora in giro di bravi ed onesti, ma molti finiscono per fregarsene degli interessi del proprio Cliente ed appoggiare le Polizze alle Agenzie che retrocedono aliquote provvigionali più alte, o, detto volgarmente, che sganciano più soldi, indipendentemente dalla bontà del contratto. E che il Cliente si arrangi, tanto se sceglie di andare da un Broker è evidente che non si leggerà mai le Condizioni contrattuali, perchè non ha tempo, o voglia, o perchè non ne è capace, e quindi in caso di dubbi io Broker posso sempre girargliela come mi pare. 
Questo Cliente invece non è poi così sprovveduto (o quanto meno ha delle impiegate in gamba, che sanno capire che se hai una Polizza degli anni Novanta quando la normativa relativa ai danni subiti dai dipendenti è già cambiata tre volte, forse è il caso di preoccuparsi), per cui ha buttato fuori a calci il Broker lavativo, e ha mandato tutte le disdette a me, incavolato come una bestia. Perso per perso, io sono andata a trovarlo (e l'appuntamento me l'ha dato, perchè sa chi sono e come lavoro), con il risultato che ci siamo professionalmente piaciuti un sacco, e probabilmente alla scadenza non solo manterrò tutte le Polizze, ma mi andrò a prendere anche quelle poche che il Broker aveva appoggiato a colleghi della concorrenza che scucivano più di me. Ma non abbiamo parlato delle sue coperture assicurative, proprio per niente: quelle andavano rifatte come si deve, alla svelta, e basta. Mica c'era tanto da discutere. Noi abbiamo parlato di arte, di artisti locali o meno, delle cose che ci piacciono, e di quel benedetto superfluo che fa muovere il mondo, visto che questo signore è un grosso, grossissimo imprenditore (molto noto dalle mie parti) nel settore dell'illuminazione e dell'oggettistica in vetro. Figuriamoci se non la pensa come me. Del resto c'è la crisi, possiamo stare anche con la lampadina che penzola giù dal soffitto direttamente dal filo, ma se ci attacco un bel lampadario di design mi si allarga il cuore e sono più contenta. E vado anche a lavorare più contenta, e sorrido, e non aggredisco la gente che mi rivolge la parola, solo perchè la frustrazione di un domani che non esiste sta prendendo il sopravvento. 
Io, poi, vado matta per i vasi di questo signore qui. Fa oggettistica che è una meraviglia, mille sfumature di ogni colore e dimensione in un'unica forma tutt'attorno nello show-room, un colpo d'occhio da fermarsi ore a fare foto. Io vado matta per i vasi in generale, devo dire, a casa ne ho sparsi dappertutto. Di ferro battuto, di terracotta, di vetro, smaltati, rivestiti di corda, addirittura di quelli fatti dai peruviani con le foglie masticate, pressate e poi verniciate. Alti e stretti, bassi e larghi. Chissà quale strano significato ci troverebbe un freudiano. Soprattutto perchè me li tengo là vuoti, quasi sospesi, pronti per accogliere, sostenere, esibire qualcosa che non arriva mai. Vasi superflui, bellissimi. Famiglie di vasi. Vite di vasi.
Perchè poi il punto è esattamente questo: la differenza tra sopravvivere e vivere. La differenza fra cibarsi, nutrirsi, o invece piuttosto assaporare, gustare. La differenza tra coprire il proprio corpo dal freddo e indossare un bel vestito. La differenza tra guidare la defunta Trabant celeste - che, poverina, a dirla tutta ti portava pure lei dal punto a al punto b - oppure una macchina vera (e neanche parlo delle super-auto di lusso, me ne basta una che abbia un bel suono quando la metti in moto, con le portiere che, chiudendosi, facciano un bel solido "floc" invece che un rumore di ferraglia; poi se dentro è un trionfo di pelle e radica mica mi fa schifo, eh). 
La differenza fra addormentarsi fissando una parete vuota oppure con un quadro appeso, un quadro bello, che ti piaccia, ti trasmetta qualcosa, ti emozioni, e ti faccia fare bei sogni. Questo sta facendo la "crisi" e, credo, purtroppo, chi la sta manovrando: sta uccidendo i nostri sogni! E io, per quanto mi riguarda, non ho alcuna intenzione di permetterlo. Perchè se lasciamo che muoiano i sogni, allora è finita, siamo destinati ad essere come le immagini dei cinesi di cinquant'anni fa: tante piccole marionette tutte uguali, vestite uguali, taglio di capelli uguale, stessi gesti, stessi percorsi, casa-lavoro-casa. Orribile. Io lo faccio spesso, il casa-lavoro-casa, mi stanco, mi sfibro, ma mai fine a se stesso. Lo faccio perchè ho dei sogni da realizzare, e finchè starò in questo mondo qui saranno i sogni da realizzare a muovermi, a spingermi, ad appassionarmi. Non voglio appiattirmi. Poi, nell'altro mondo, si vedrà.
Rimuginavo questa cosa della crisi e del superfluo giovedì sera, perchè siamo andati a Milano, alla Fondazione Matalon, dove il carissimo Marcello Scuffi inaugurava la sua nuova Mostra "Una questione di impegno". Per la prima volta, non ho avvertito la magia. Non è stata la solita festa. Eppure (ribadisco, vedendola ora per la seconda volta dopo la prima, quella di Armodio) la Fondazione è proprio uno spazio gradevole, tutta bianca, raffinata, minimalista, luminosa, così la puoi riempire come vuoi, di tanto colore oppure di non-colore, perchè si adatta a qualunque gesto. La parte al piano terra accogliente, fronte strada ma riservata, mai sfacciata come ci si potrebbe aspettare dalla Milano più modaiola; e poi il piccolo soppalco, intimo, vetro e travi in legno, fatto apposta per un mondo d'acquerello. 
La Mostra è bellissima, cos'altro potrei dire di più su Marcello che non abbia già detto... 
Sono sempre loro, i suoi soggetti, tanto mare, molte notti e molte lune stavolta, tante darsene rispetto ai treni o ai circhi, per mia gioia perchè adoro i suoi silenzi d'acque, comunque mai uguali; e qui posso tranquillamente bacchettare chiunque dica che dipinge sempre le stesse cose. Non scherziamo, per favore (vogliamo parlare un pochino di un tizio che di nome faceva Giorgio Morandi?). Io, un po' per caso e un po' per scelta, ho tra i suoi dipinti i vari soggetti, ma non fa differenza; potrebbero essere tutte darsene, tutte spiagge, e andrebbe bene lo stesso. Quelle dei primi anni Duemila, intense nel blu, con le vele molli a baluginare colori fortissimi - aranci, verdi, rossi - non sono certo uguali a quelle portate al Chiostro del Bramante, monocromi di grigio, pura grafite soffiata su lastre di marmo. O a certe, nuove, di Fiesole, con lampi di mattone e terra. Accantonato l'arcobaleno, mi sembra che negli ultimi mesi di ricerca pittorica Marcello si sia concentrato ancor di più sul supporto: queste tele milanesi sono particolarmente lavorate, graffiate, con tratti rapidi e scuri che ricordano macchie, o screpolature, ma sono solo errori nell'occhio di chi guarda, perchè la superficie è sempre lei, inconfondibile, liscia, unica. Si potrebbe comprare un quadro di Marcello Scuffi ogni anno, per avere una serie di anime diverse, tutte racchiuse sotto quella carezza di vetro, puro vetro soffiato senza mai asperità alcuna. E poi adesso ogni tanto ci fa spuntare qualche albero, cipressi solitari, verde intenso, nuovi colori che ritornano, prodromi di qualcosa che sta per mutare. 
Belli come sempre i suoi dipinti (di Marcello mi piace davvero quasi tutto, è rarissimo che un suo dipinto non mi coinvolga), eppure c'era questa tristezza che ci volteggiava sopra, e che ci portava dentro un po' di freddo. Gente che è arrivata alla chetichella, e che alla chetichella è andata via. Tanti astanti singoli, ma non un vero gruppo legato da amicizia o condivisione. Visi pensierosi, incupiti. Discorsi volanti colti qua e là, monoargomento: crisi e soldi, soldi e crisi. Non facciamoci rubare i sogni! Siamo nel tempio del superfluo, per i predicatori della crisi (cosa te ne fai di un quadro: non si mangia, non ti copre, non ti paga il mutuo, non ti fa andare la lavatrice), ma siamo nello scrigno della vita, per me! Lo scrigno della bellezza, l'attimo sospeso, il respiro del vivere, quel qualcosa che ci tiene uniti, che ci differenzia dall'animale, la capacità di nutrirsi - ma per davvero - di armonia, di piacevolezza. Nutrire l'anima, non solo la carne! Elevarsi da quel "livello zero" da marionette, perchè possiamo rinunciare ad una pastasciutta, per una volta, e non cambierà niente, ma non possiamo rinunciare alla serenità interiore, alla musica del silenzio, al bello, quello vero. 
Qua sul bello vero apro una parentesi, perchè non so se è per via della crisi o meno, ma stavolta Marcello non ha fatto incorniciare i quadri a Ristori, come a Roma e Fiesole, e si vede lontano chilometri. Mi è venuta una fissa pazzesca per le cornici, del resto vado perdonata perchè è una passione scoperta di recente, sono ancora nella fase tutta luccicosa come una quindicenne al primo amore (quando arriverò alla maturità romperò molto meno, promesso). Però sfido chiunque a fare un confronto: l'alluminio coi graffietti finti non è e non sarà mai argento mille, neanche al buio. Ce n'erano alcune che, da molto ma molto lontano, ricordavano quelle "pietrose" create per la Mostra al Bramante, e poi più da vicino, accarezzandole (bisogna accarezzarle, le cornici, con le dita! Sentire che cosa diventa il legno quando viene brunito a mano, con la pietra!), sembrava avessero sopra una pellicola di plastica, come una stampa adesiva. Va bene la crisi, ma scopiazzare è sbagliato, come a scuola. Io, che personalmente a scuola ero un tantino bravina, lasciavo anche che mi copiassero, purchè lo facessero bene: della serie, vi do qualche spunto, ma poi metteteci qualcosa di vostro. Già è una copia, perchè farla anche brutta? Non puoi copiare una giacca di Armani (sempre lì torno, del resto come fa le giacche Armani non c'è nessuno) e pretendere di rifare il modello con un tessuto acrilico triste, con le cuciture storte, o le finiture sbavacchiate a macchina; piuttosto vado in giro con un anonimo ma decoroso maglioncino. Infatti, dei quadri di Marcello, ho preferito quelli con il semplice listello bianco, e basta. Vestitino semplice semplice, come il grembiulino dell'asilo. Mancava l'abbraccio della cornice, ma andava bene, era come se il quadro chiedesse il tuo, di abbraccio: un quadro solitario e bisognoso di coccole. Proprio così: ognuno di noi poteva scegliere un quadro nudo, e abbracciarlo. Era un invito all'affetto. Alla faccia della crisi.

Ciak si gira

Io vi ho mentito, parzialmente. Anzi, più che una bugia è stata una voluta omissione, quando ho raccontato della mia esperienza romana alla Mostra di Claudio Cionini, del mio discorsetto tappabuchi davanti a tutti  i presenti, e ho detto che era andata meglio rispetto all'intervista con microfono sotto la faccia alla Mostra di Vincenzo Balsamo. In realtà, c'era stato un episodio intermedio: Giovanni Faccenda mi aveva intervistato con microfono sotto la faccia una seconda volta, anche alla Mostra di Armando Cheri, sempre al Bramante (si vede che è la location che crea un certo movimento); e io, memore della volta di prima, avevo evitato di farmi riprendere dal basso, ero stata infinitamente più sciolta, ormai il microfono non mi frega, ho capito come fare per evitare di mangiarmi mezze frasi. 
Indubbiamente aveva aiutato anche il fatto che tra il Chiostro di Balsamo e il Chiostro di Cheri fossero passati sette mesi, e quella sorta di soggezione-tremarella che mi prendeva quando avevo vicino il Professore dall'Occhio Blu, all'inizio della nostra conoscenza, ormai si era tranquillamente trasformata  in un rapporto tra due fratelli gemelli che si vogliono un bene infinito, e che se da un lato non prendono sul serio quasi nulla di quello che l'altro dice, dall'altro lato non riescono a fare a meno del suo parere. Ci canzoniamo a vicenda, a volte. Ci raccontiamo segreti inenarrabili. Ci copriamo le marachelle. Abbiamo bisogno di sapere, sempre, che l'altro sta bene, senza tanti altri inutili discorsi. Bene e basta. Gladiatori combattivi. Iper perfezionisti. Non lo so se siamo amici nel senso più profondo del termine, per certo siamo qualcosa, qualcosa che mi permette di mandarlo a quel paese se mi fa riprendere in video in un modo che a me non va, e di riderci poi assieme.
Comunque, c'è questo pezzettino di me tra le ore di girato per Cheri, e tra l'altro avevo addosso un gran bel vestitino, un tubino nero di maglina che fa vedere bene quanto ero dimagrita nell'ultimo periodo, con le curve al posto giusto (di solito non sono così vanesia, ma la sofferenza della dieta merita un minimo di ostentazione, a risultato raggiunto). Un pezzettino che ho solo io, un file nel mio computer, e basta.
Perchè su Cheri è successa una cosa curiosa. Eravamo negli studi Orler per non mi ricordo cosa, e parlavamo io, Giovanni Faccenda e Giuseppe De Luca, che definire il regista degli Orler è riduttivo: lui è l'anima tecnica di quegli studi. Aleggia ovunque, ma non in spirito, riesce a farlo in carne ed ossa, e poi tiene calmo Giuseppe Orler, cosa da non sottovalutare. Si parlava di questo dischetto della Mostra di Cheri al Bramante che andava fatto, e io ho buttato lì come niente fosse che tutto sommato si poteva provare qualcosa di diverso dal solito schema: Professore-che-parla, intervista-al-personaggio-famoso, intervista-al-personaggio-sconosciuto già vista nei video degli altri artisti targati Orler. Magari si poteva mettere il Professore in coda, ecco, e magari lasciare più spazio agli sconosciuti. Ma non con la classica intervista a microfono e la domandina "che emozioni ti suscita" che mi sa tanto da candidata a Miss Italia contro la povertà e la fame nel mondo. Un susseguirsi di visi, senza domande, solo impressioni, rapide, continue. E poi io ne avevo di roba pronta scritta, su Cheri, già usata per Trecose e altro, ma mai in video. Ora come ora non saprei dire se è stato perchè Giovanni aveva altro da fare, tra il C.A.M. e tutto il resto di quello che già fa (e quindi non gli è parso vero evitare un nuovo impegno), oppure perchè ha letto nei miei occhi la voglia di provare qualcosa di nuovo e diverso e l'ha fatto per farmi un regalo, oppure perchè l'aleggiante De Luca aveva già previsto tutto, fatto sta che il dischetto di Cheri l'abbiamo fatto io e Giuseppe, mandando in panchina il Professore.
Lo ammetto: era un'esperienza che mi mancava, ed è stato divertente, parecchio. Giuseppe è venuto a casa nostra (perchè con la scusa del video ci sono scappate un paio di seratine con pizza e risate che male non fanno, mai) per farmi incidere i testi, sulla base della scaletta che avevo preparato, ed è stato fantastico, soprattutto quando ha detto che erano scritti bene, e gli piacevano, tranne forse la parte iniziale in cui non si capiva cosa volevo dire realmente (peccato che la parte iniziale fosse una citazione papale papale dal testo di Giovanni pubblicato nel Catalogo della Mostra). Dopodichè, una volta scaricato e ripulito tutto il girato - operazione che si è sobbarcata tutta lui, che aveva fatto le riprese, e sapeva quindi come ridurre a una mezz'oretta abbondante le iniziali tre ore di misto Roma - ci siamo chiusi in cabina di regia un'intera mattinata per il montaggio. Non so cosa pensasse di me Giuseppe De Luca prima di quella mattinata; di certo so che, dopo, si era guadagnato un posto in prima fila in Paradiso. Mio marito mi aveva accompagnato, e mi ha lasciato lì con un mezzo sogghigno, invece delle solite battutine che di solito si presume si scambino due maschietti quando uno dei due consegna l'unica donna presente all'altro. Lui mi conosce bene, e ha guardato Giuseppe con una faccia che era tutto un programma, prima di allontanarsi sognante e felice di aver ceduto l'aureola della sopportazione, foss'anche per una sola misera mezza giornata (lasciare mio marito libero di scorrazzare in un giorno feriale nel magazzino incustodito degli Orler è estremamente pericoloso per i nostri conti correnti bancari; devo dire però che adesso abbiamo una carta di Licata del 1974 da far invidia). 
E' stato bellissimo. Non ero mai stata dentro una VERA cabina di regia, lo dico volutamente in modo infantile, con tutti quei pulsanti, quelle levette e quelle lucine. Praticamente hai davanti un grosso computer su cui metti giù le varie tracce: il video, l'audio di sottofondo (le musiche) e l'audio normale (i miei brani e la gente che parla), e ci smanetti sopra in modo che tutto combaci. Giuseppe De Luca fa questo lavoro da una vita, ed è una persona dolcissima: mi voleva spiegare i vari trucchetti, dove è meglio fare le dissolvenze, come usare i fotogrammi bianchi, ma io avevo già in mente come volevo venisse fuori, e ho cominciato a stressarlo fin dai titoli di testa, con una precisione e una meticolosità che - dopo qualche ora - nemmeno il mio miglior sorriso riusciva a mascherare. Infatti adesso Giuseppe ha qualche capello bianco in più di prima. Ci eravamo ritagliati mezza giornata dai rispettivi lavori per l'intero dischetto, e dopo mezza giornata eravamo esattamente a metà, infatti la seconda parte l'ha montata da solo, peccato. Mi sarebbe piaciuto finirlo insieme, ma mi rendo conto che mettevo a repentaglio la mia sopravvivenza, in cabina di regia ci sono anche oggetti acuminati. Però ho scelto tutte le musiche! Che poi sono due brani di George Harrison, che io adoro (lui e i brani); mi piace questa idea di associare l'opera di Cheri, che si fonda su qualcosa dato dalla terra, profondamente intriso di Madre Natura, alla musica ed al messaggio di un artista che, nell'ultima parte della vita, aveva riscoperto esattamente quel messaggio. Brani che parlano di amore, di bellezza, di fiducia e di divino. Quando il video è stato mandato in onda, durante l'ultimo Speciale dedicato a Cheri, Dario Olivi ha chiesto chi avesse scelto le musiche, e mi è parso che l'accezione della domanda non fosse positiva (a me dispiacerebbe, perchè tengo visceralmente al parere di Dario), ma io insisto: c'era tutto un ragionamento dietro. E poi è stata una prima volta, ci affineremo se ci saranno altre opportunità. L'unico neo è che o leggo i miei testi o appaio nel video: non entrambe le cose, altrimenti si crea una sovraesposizione fastidiosa, qualcuno potrebbe pensare male, come minimo mi becco della prezzemolina come le ospiti di Mediaset. La mia intervista quindi, con il mio pensiero sulle mani di chi lavora il legno, sul flusso di "storia-pietra-legno", sui colori caldi, sulle resine, e tutte le altre cose che avevo detto sbattendo gli occhioni davanti alla telecamera, rimane in quel piccolo file nel mio computer. Giusto un ricordo privato. Per il pubblico, invece, sta già andando in onda su Orler TV il primo figlioletto mio e di Giuseppe De Luca, che se mai riuscirò a capire come si fa inserirò anche qui su Trecose, per quella condivisione che resta pilastro fondamentale di tutto ciò che amo in questo mondo.