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venerdì 28 giugno 2013

Claudio Cionini

Durante una delle mie recenti puntatine alla Bottega di Franco Ristori ho scoperto un nome nuovo.
Ammetto che per me quella quarantina di metri quadri in piena Firenze (e già questo basterebbe) è diventata una sorta di sacrario dove andarmi a ritemprare, al bisogno, mente e anima; praticamente mi piazzo lì e mi guardo attorno, naso all'insù, con l'aria estatica che ci si aspetta da un bambino delle elementari davanti ad una vetrina stracolma di torte al cioccolato. Le opere d'arte se ne stanno abbracciate strette strette sulle pareti, confabulano con la pila di cornici rugginose a terra, mentre le cornici appese, vuote ma imponenti, suggestive nella loro perfezione, scrutano dall'alto e mantengono quel contegno da vecchie signore per bene che io perdo, inevitabilmente, man mano che il mio spirito adolescenziale riemerge. Per non parlare del fascino mostruoso che ha su di me il suo laboratorio, dove a volte ho avuto il colpo di fortuna di trovare qualche opera in lavorazione, quieta quieta, addormentata in attesa delle mani del Maestro che le ridaranno un aspetto nuovo ed una vita nuova, con tutte le boccette di vernice che dai loro scaffali commentano, attente e sveglie, sempre vive e un po' petulanti, il risultato, dandosi di gomito. Clinica estetica Franco Ristori, traboccante di oro e legno. 
Completamente fuori di testa, ecco cosa sono io in certi luoghi impregnati di una magia senza tempo, nè più nè meno della volta in cui sono andata a trovare Armodio nel suo studio (e ne è nato il post "Tra realtà e incanto", lo scorso Novembre): una droga, un profondo respiro di benessere, amore incondizionato.
Orbene, in una di queste visite ho trovato esposto in vetrina un quadro dalle pennellate ventose, tutto giocato su toni rosacei (forse alba, forse tramonto, più probabilmente sogno o ricordo lontano): una lunga strada d'asfalto che sfuggiva dalla vista, rincorrendo palazzi di nuvole. Quando Franco mi ha chiesto se sapevo chi fosse io ho azzardato Alessandro Papetti, e giuro che per me, nell'incertezza, era un profondo complimento, perchè ritengo Papetti un artista a dir poco straordinario; lui, sempre senza dire niente, ha fatto una delle sue tipiche facce-torve-modello-Ristori particolarmente adorabili e ho capito subito di aver cannato, ma per arrivare a dirmi chi fosse davvero mi ha fatto penare un pochino. Ho volutamente lasciato che la curiosità prendesse il sopravvento, anche perchè trovo normale e tutt'altro che umiliante il fatto che che io non conosca tutti gli artisti toscani esistenti, soprattutto considerando che non è il mio campo (per lo meno, non quello principale).
E' andata così la mia prima volta con un quadro di Claudio Cionini, che per la cronaca ha esattamente vent'anni in meno di Papetti (vent'anni di vita, e di esperienza, di lavoro, di tele, di studio, di esposizioni) ma a vederne i lavori non si direbbe proprio, tanto è già "avanti" (magari giusto tre o quattro, quel tanto che basta perchè la prossima volta un assicuratore in estasi, ammirando un lavoro di qualche giovane nuova leva, azzardi con deferenza che è un Cionini). Esattamente come mi succede con la pasta, il formaggio e le bistecche, la prima volta non mi basta mai, e ho voluto - ingolosita e lievemente bulimica - vederne ancora e ancora, finchè una voce un po' meno torva e più rasserenata non mi ha buttato lì l'idea di scriverci sopra qualcosa. Franco Ristori è un gran dritto, sa perfettamente quali sono le richieste a cui io difficilmente dico di no, tant'è che qualcosa è davvero uscito fuori come da un'ampolla di ricordi, da un'unione spirituale di percorsi, teoricamente destinato (come ultimo, ultimissimo, quasi nascosto) al Catalogo di una prossima Mostra romana. Dico "teoricamente" perchè magari sarebbe meglio che me ne stessi zitta e buona senza divulgare alcunchè, ma sono talmente elettrizzata dall'idea di poter far scoprire Claudio Cionini a chi - come me - non ne conosceva il lavoro e la profonda sensibilità, che posso anche rischiare di bruciarmi la pubblicazione.
L'ho postato qui sotto, sotto questo fresco cappello estivo un po' anomalo; se, leggendo queste mie parole d'anima, ci sarà anche una sola persona - un amico fedele o un navigatore di passaggio, un nome a me noto o uno sconosciuto fugace - che sentirà la curiosità di approfondire un legame con Claudio Cionini nel suo sito, oppure che passerà per Firenze giusto per darci un'occhiatina dal vivo nella Bottega Artigiana di Franco Ristori, o che sentirà sotto sotto il bisogno - lentamente insopprimibile - di vedere appeso, nel proprio studio, nel proprio salotto, qualcosa di suo (forse di rapido, come un lampo in un viale, forse di calmo, come un argano solitario nella polvere), io sarò veramente appagata. E contenta.

Anime d'acqua e cemento

Sono nata in una città dormitorio, alla fine degli anni Sessanta.
Una città grigia, con grappoli di condomini dalle forme sgraziate, cresciuti di fretta - ai miei occhi di bambina spuntavano magicamente in una sola notte - in maniera disarticolata, senza l'accenno di un piano regolatore. Una città senza alberi, senza prati, spesso pervasa dall'odore cattivo della chimica. Una città in cui crescere con giochi di cemento e asfalto. Una città sconosciuta, un nome-crocevia, buono solo da annunciare nella stazione dei treni come penultima fermata, una manciata di minuti prima dell'altra, sua bellissima sorella, città unica al mondo che le ha dato in prestito il nome, città immensa - questa sì - di ori e di bianchi abbaglianti, con una storia regale, meta vera dei viaggiatori, dove l'azzurro del cielo diventa liquido.
Una città, la mia, che ha cominciato a concepire i primi abbozzi di aree verdi quando io frequentavo ormai le scuole medie, invitando tutte le classi di bambini a disegnare spazi gioco ideali, futuri labirinti, altalene, parchi. Ho terminato l'Università mantenendo la segreta speranza che, da qualche parte, prima o poi il labirinto della Seconda C sarebbe stato realizzato. E ancora ricordavo bene il percorso esatto per arrivare alla torretta centrale e poi uscire (destra, destra, sinistra, destra...).
Una città che ancor oggi, seppur in gran parte ripulita ed abbellita, soffre zone di profondo degrado. Ma è la mia città, ed il cordone ombelicale è impossibile da recidere anche se te ne allontani. Per questo la mia anima è particolarmente legata a quella dei pittori che scelgono la città come soggetto delle proprie opere.
Perchè la città è difficile.
Perchè la città è cruda.
Perchè la città è monocromatica.
E comunque la guardi - con gli occhi bassi, posati sull'asfalto bollente nella calura estiva, o a volo d'uccello, sopra tetti irregolari nei cieli pungenti e infiniti di Gennaio - LEI vive. Negli ultimi anni il suo fascino continua ad attirare un numero sempre più cospicuo di artisti, come una donna sensuale da scoprire e conquistare poco a poco: uno sguardo sfuggente dietro i vetri dei palazzi, e braccia, e gambe, e dita lunghe come strade, segnate sulle nocche dalle cicatrici delle strisce pedonali, i capelli avvolti dalle nuvole, una bocca - rossa - nel lampo lucido di qualche vettura solitaria di passaggio.
Fugace.
Forte.
Graffiante.
Purtroppo, non tutti sono in grado di coglierla e di mostrarla come è realmente. Non basta sedersi a dipingere: è necessario sentirla dentro. E' necessario averla vissuta, come un'impronta indelebile sulla pelle, sia essa metropoli dagli immensi viali, costeggiati da bianchi edifici lineari, sia essa groviglio di architetture industriali macchiate dalla ruggine, moderne foreste di alberi spezzati ed anneriti. E' una regola non scritta che scorre nelle vene, è lo stesso motivo per cui l'odore del mare sprigiona meglio dalla tela se le mani di chi lo dipinge sono cresciute giocando con la sabbia.
Non è mai simpatico stilare classifiche di bravura o competenza, ma dal momento che io scrivo d'arte solo per passione, da collezionista invaghita e mai sazia, posso permettermi - a volte - qualcosa che è negato ai critici di professione, o agli addetti ai lavori, siano essi curatori o galleristi. Posso, secondo il mio gusto e la mia sensibilità, dividere i bravi dai meno bravi. Posso scegliere di non interessarmi al lavoro di chi, a mio giudizio, si intestardisce tristemente con pennelli e colori, quando magari sarebbe stato un eccellente panettiere. O pilota d'aereo. O ortopedico. Posso dire, senza paura di essere smentita da chi, per certo, ne sa più di me, che Claudio Cionini è - al contrario - decisamente da podio. Già ora, in giovane età, mentre lo sguardo sulle "sue" città è in continuo cambiamento, è mutevole, e quindi lanciato verso nuovi traguardi e nuove forme, come metallo fuso che si forgia, rinnovandosi.
Opere scelte, le sue, mai seriali, mai scontate, non facili da reperire, raffinate golosità per palati esigenti.
Claudio Cionini sa trasmettere. Con pochi colori: ocra, azzurro, grigio. Rosa, a volte. E qualche squarcio scuro. Ma danzanti tra loro, fusi nel vento che accarezza gli edifici, che trasporta l'umore salmastro delle acque, le polveri delle fabbriche inerti. Pochi colori che diventano velatura, trasparenza, oppure colatura, o densità improvvisa, o polla gorgogliante: gli occhi di chi osserva l'opera di Cionini non conoscono la noia. E' un percorso da seguire: ora è lampo verticale, verso un cielo mai completamente terso, che cela bagliori come ricordi di vicine piogge; ora è volteggio orizzontale, ad inseguire presenze sconosciute. Mai si vede ombra umana nelle opere di Cionini, eppure trasudano in abbondanza di umanità, di fatiche, di sforzi. E di storia.
Grandi città, ancora assonnate, splendenti in livide albe, oppure madide di nebbia: dall'Europa del passato, secoli di pietre e di marmi, alle nuove lontane metropoli di vetro scintillante. E fabbriche, tante queste, abbandonate forse, o forse in notturna attesa di un abbraccio metallico tra corridoi ed impalcature: forgiate dalla mano dell'uomo e lasciate alla pura contemplazione, sospese nel tempo, come cattedrali diroccate, dalle immense navate aperte su un cielo senza più un dio.
Con mano sapiente Claudio Cionini accompagna chi si abbandona volontariamente alla sua città - chi la vuole respirare a fondo, quale unico visitatore privilegiato – riuscendo a svelare prospettive sempre nuove, mentre il viaggiatore incuriosito trattiene il fiato per non spezzare la magia del silenzio aleggiante, ed in punta di piedi attende qualcosa di sorprendente in fondo alla via, dietro l'ultimo angolo.

martedì 25 giugno 2013

Oggi parla.../11

... Nelson Mandela:

"Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati"

Imprevedibili contraccolpi

A volte mi chiedo se è il caldo. Probabilmente anch’io, nelle giornate più torride, finisco per dire cose strane, sarà il caso che stia attenta, e mi morda la lingua prima, o che chieda conferma ai miei Clienti.
L’altro giorno ho sentito dire da Carlo Vanoni che l’arte non è emozione. Ma non l’ha detto a me, gomito a gomito durante uno degli Eventi Orler in cui ci si incontra un po’ tutti, in mezzo all’allegra caciara più o meno alcolica, tanto da lasciarmi il dubbio di aver capito male. L’ha detto in diretta, con la sua faccina seria e compunta tanto fascinosa, mentre presentava una notevole serie di Pinelli.
Ha detto testualmente che l’arte non è emozione, bensì linguaggio. E che non dobbiamo stupirci se quando tentiamo di rivendere quadri che avevamo comprato per un’emozione scopriamo che non valgono niente, perché l’emozione è personale e non si quantifica, quindi non è detto che il compratore “veda” e “senta” in quel quadro le stesse cose che ci abbiamo visto e sentito noi. Se invece ragioniamo secondo l’importanza dei linguaggi allora andiamo sul sicuro, è come la classica  metafora dell’assegno circolare che andava di moda tra i venditori Volkswagen.
Che poi, in linea di massima, potrei anche essere d’accordo con lui. In linea molto di massima. Perché Carlo non è mica uno scemo, assolutamente. Secondo il mio parere del tutto personale, trovo che tenda a celebrarsi un pochino troppo, o forse è solo bisogno di autostima, quando sciorina tutte le Fiere ed i Musei che frequenta manco fosse l’unico sul pianeta che viaggia negli States o che legge libri d’arte direttamente in lingua originale. Anzi, potrebbe anche essere facile preda di qualche stalker aeroportuale, visto che informa puntualmente i telespettatori Orler di ogni suo movimento in giro per l’Europa. Ma scemo non lo è, di sicuro. Le sue trasmissioni sono sempre estremamente gradevoli perché le imposta come fossero delle lezioni d’arte più che delle televendite, come lui stesso tende a sottolineare con enfasi “non sono qui per vendere quadri, ma per parlare d’arte con voi”, che detto così è bellissimo, se trascuriamo il particolare irrilevante che gli Orler campano vendendo quadri, e se io fossi uno di loro mi sentirei prurito sulle mani ogni volta che glielo sento dire. A volte faccio veloce zapping-on-line sulla sua pagina Facebook, quel tanto che io posso sbirciare non essendo registrata, e vedo che lancia sempre spunti, idee e provocazioni interessanti, con un suo seguito di affezionati che lo riempiono, giustamente, di complimenti, ed interagiscono con lui in modo intelligente. Poi, secondo me, giusto a naso, è tutta gente che non scucirà mai mezzo Euro per comprare un’opera d’arte (o perché sono tutti puliti come calzini o perché fa figo fare gli intellettuali), ma non è un mio problema, io vendo assicurazioni, non quadri.
Questa cosa dei linguaggi è vera, sacrosanta e giusta. Tra l’altro, soprattutto se parliamo del contemporaneo di mercato, cioè il cosiddetto “Post-War” con le sue sperimentazioni, che Carlo conosce bene e studia con passione e rigore (mi dicono, invece, che andando a ritroso nel tempo qualche strafalcione qua e là possa manifestarsi). E’ vera, sacrosanta e giusta, se ti rivolgi all’emiro in tunica bianca con in testa la tovaglietta a quadretti bianchi e rossi. Oppure al megamiliardario americano. O ancora al Pinault di turno, anzi al “Monsieur Pinault” come viene sempre chiamato quando lo citano a riferimento del collezionismo europeo con nome (Monsieur) e cognome (Pinault), un po’ come succedeva a Paolo-Beltramo-Dai-Box, che alla fine ha dovuto modificare anche il codice fiscale altrimenti non gli accreditavano più i contributi.
Cioè a quella gente che caccia in mano al proprio consulente qualche milioncino di dollari da spendere IN ARTE, ma vuole la certezza che l’investimento triplicherà; non vuole neanche sapere COSA il consulente comprerà, tutto va bene purchè sia qualitativamente eccellente ed abbia un valore intrinseco nel tempo. Esattamente come costruire grattacieli o gestire – che so io - scuderie di purosangue.
Il fatto è che a me qualcosa dice che questa gente non stia propriamente attaccata alla televisione per seguire le trasmissioni Orler. Davanti a Orler Channel ci sto io, l’uomo della strada. Magari ci sta anche l’imprenditore infinitamente più benestante di me, come quel signore simpaticone con cui ho chiacchierato durante una diretta e che era interessato (e intendo, che potenzialmente poteva davvero interessarsene!) ad un De Chirico da sei cifre, e la prima non era “uno”. Almeno cento volte più benestante di me. Eppure anche lui diceva mi piace, mi trasmette qualcosa, mi lascia a bocca aperta, mi parla, mi fa venire la pelle d’oca, mi emoziona insomma, benedetto il cielo!
Sentirmi dire “l’arte NON E’ emozione”, così, senza lasciare speranza a voi che entrate, drasticamente, in una afosa giornata di Giugno, a me che sopravvivo solo perché certe emozioni ancora esistono, tangibili come un abbraccio, a me che rappresento idealmente tutti coloro che fanno fatica a tirare avanti ma lo fanno perché c’è un “oltre”, a me che rifiuto di guardare il portafoglio quando c’è il cuore di mezzo, a me che so ancora innamorarmi perdutamente davanti ad un quadro, a me che fa stare bene sapere che c’è gente come me, a me che se un quadro è bello è bello e accidenti al resto, ha dato un fastidio da formicaio.
E, per la prima volta dopo anni, ho cambiato canale.

Do ut des

C’è qualcosa che mi sfugge. Sul serio.
Ho già riflettuto in post precedenti di questioni economiche (micro e macro), sempre sottolineando che con tutta probabilità non ne capisco niente: la mia testa lavora per le assicurazioni (mediamente bene), al limite il mio cuore straparla d’arte (quando è in vena), e lì mi fermo. Tuttavia, resta latente quella parte di empirismo data da oltre quarant’anni di osservazione del mondo, dei ragionamenti della gente, degli atteggiamenti verso le questioni pratiche della vita che mi ha sempre affascinato e fatto riflettere. Da oltre quarant’anni, perché in effetti anche da bambina osservavo e ragionavo parecchio. Quando i miei genitori, che facevano parte del Cammino Neocatecumenale, ospitavano a casa i “fratelli di Comunità” per la preparazione delle loro riunioni, dovevano cacciarmi a letto con la forza (e sì che io sono sempre stata una che va a letto prima delle galline) perché tendevo ad accovacciarmi dietro la porta, o dietro qualche mobile, pur di ascoltare i discorsi dei grandi. Alcuni si interrogavano su quanti figli avessero i miei genitori, visto che ne saltavano fuori da tutte le parti.
Comunque sia, l’altro giorno stavo inseguendo dei pensieri con in sottofondo il canale delle news di Sky, e mi ha incuriosito un’inchiesta sul tasso di disoccupazione giovanile (e non, aggiungerei io), che pare abbia raggiunto livelli inimmaginabili, da piena recessione anni Settanta. E la curiosità era stimolata dal fatto che, nel servizio/inchiesta immediatamente precedente, un altro giornalista Sky aveva appena finito di dare tutta una serie di utili consigli alle famiglie italiane per come risparmiare al massimo in questi grami tempi di crisi. Roba semplice, del tipo da farsi l’orto sul terrazzino di casa, al frequentare un corso di bricolage per imparare a aggiustare le tapparelle o il sifone del lavandino. Oltre, ovviamente, al cercare di spendere meno possibile per cose assolutamente inutili, secondo il giornalista, come le assicurazioni, a partire dalla RCA obbligatoria, assurdo e odiato balzello da evitare come la peste.
Buffo.
Io, nella mia ingenuità, avevo sempre creduto che la ricchezza si producesse facendo girare l’economia, non ingessandola in una morsa soffocante. Quando sono diventata imprenditrice di me stessa, mi è balzato subito all’occhio che la riduzione dei costi è indubbiamente una voce importante, ma sterile, che apporta miglioramenti solo per un periodo limitato: per guardare con serenità al lungo periodo l’unica cosa che serve è un modo per incrementare le vendite, e quindi le entrate, o quanto meno per cercare di mantenerle costanti. O il fallimento è già scritto.
Per carità, mi farò l’orto in terrazzino, così poi le fila dei disoccupati si ingrosseranno con qualche fruttivendolo in più, ed innumerevoli suoi dipendenti. Oppure diventerò abilissima a tinteggiarmi le pareti, con buona pace degli imbianchini che dovranno imparare a saltare almeno un pasto: signori, è la crisi, lo dicono anche in televisione.
Poi, e qui vengo al punto, verrà da me in ufficio una bella signora bionda, dicendo che le dispiace tanto ma – anche se con un po’ di timore – ha deciso dopo tanti anni di provare le assicurazioni on-line perché risparmia ben quaranta Euro l’anno (e sottolineo “ben”). E mentre chiacchieriamo del più e del meno, perché io mica mi arrabbio per discorsi del genere (mi limito solo a sottolineare le differenze tra due mondi diversi, ma sotto sotto mi stanno anche simpatiche le Compagnie dirette, perché ci tolgono dai piedi una massa notevole di rompiballe atomici), la bella signora bionda mi chiederà se per caso ho bisogno di un’impiegata, perché la figlia è rimasta senza lavoro ed è veramente un grosso, grossissimo problema, poveri giovani che nessuno li aiuta, se vogliono sposarsi prendere una casa con il mutuo fare tanti bambini non possono più pensare al futuro e chi li aiuta adesso dovrebbero farlo quelli del governo invece di pensare solo alle loro poltrone.
A parte l’accenno alle poltrone del governo, che tutto sommato non è poi una bestialità completa, mi sono morsicata le labbra per non dare alla bella signora bionda una risposta a scelta tra:
a) Oh, mi dispiace, dove lavorava sua figlia, magari in una Agenzia di assicurazioni in difficoltà?
b) Perché non prova a far domanda al Call Center della Compagnia on-line a cui sta dando i suoi soldi?
Invece ho fatto una faccia molto triste ed ho snocciolato le solite frasi fatte, non so se la signora abbia capito l’ironia. Chi assume, chi dà lavoro, chi garantisce il futuro se le imprese – piccole o grandi – saltano? Come si riprende un’economia in cui il denaro non circola? Voglio dire, che la gente abbia paura del futuro, si veda sull’orlo del baratro e cerchi di spendere il meno possibile lo capisco anche; quello che non capisco è quanto manca alla Fine del Mondo quando l’imbeccata a “non spendere” viene incessantemente dai media di ogni colore, quando non dalle istituzioni stesse (governo o chi per esso). Un governo - non intendo questo qui in particolare, intendo in generale tutti quelli che io ricordi - che negli anni ha dimostrato di non saper razionalizzare, risparmiare, economizzare, ottimizzare assolutamente niente (ma solo spendere a sprecare a pioggia), e che viene a dire a me come fare per non arrivare, virtuosamente, pulita pulita a fine mese.
Eccome se mi sfugge.

domenica 2 giugno 2013

Tris di coppie

Sabato 01 Giugno, alle ore 11.08 di mattina, ho ricevuto questo sms (che trascrivo testualmente) dalla mia ipertecnologica mamma: "Immagino che tu sappia che qst sera alle 18 da Orler c'è roba x te". Ovviamente, Il Colonnello immaginava bene. Però che piacere, sentire le premure della gente che ti ama.
Non ho la più pallida idea di come la mia mamma, che è addentro al mondo dell'arte contemporanea esattamente come un fagiano di monte è a suo agio nella pesca del branzino, abbia reperito questa informazione; certo è che sapeva perfettamente che essere lì per me equivaleva all'usuale iniezione di buonumore-Orler, e voleva sincerarsi che prendessi la medicina tutta d'un fiato. ROBA X ME, insomma. Per me, e per qualche centinaio di altri malati.
Gli Orler sono tutti un po' matti, forse è per questo che mi sento tanto in sintonia con loro, io e la mia vena nascosta di follia. Ogni inaugurazione, ogni nuova Mostra, sembra studiata per superare la precedente. Ma non solo in quanto a quadri, ad opere esposte (per numero, e soprattutto per qualità), quanto per il progetto che sta dietro ad ogni scelta. Qui si trattava della definitiva riscoperta e riconsacrazione di Vinicio Berti e Gualtiero Nativi, e della loro collocazione nell'ambito di quell'Astrattismo Classico che agitò le acque toscane dalla fine degli anni Quaranta in poi.
Niente didattica, niente storia dell'arte pura su Trecose, non è mio compito e finirei per fare qualcosa che non mi appartiene: c'è già il catalogo, che è venuto fuori una meraviglia, con un saggio di Giovanni Faccenda che mette in parole semplici - come la saga di una grande famiglia raccontata ai nipotini, con i suoi matrimoni, i suoi divorzi, i suoi colpi di scena - la vita ed il pensiero dei due artisti, così arrabbiati con il loro passato e, un po', anche con il loro presente. E, se proprio proprio uno vuole, anche senza spostarsi dalla sedia per aprire un testo di storia dell'arte vero, fatto di pagine di carta (cosa che sarebbe sempre bene fare, di tanto in tanto, per non dimenticare), può trovare in rete una moltitudine di notizie su questa strana coppia, due uomini così diversi e contemporaneamente così simili, come Roger Moore e Tony Curtis in "Attenti a quei due".
Però, il pigro navigatore in rete non ci trova il testo di Dario Olivi, che completa alla perfezione quello di Giovanni Faccenda, infilandoci l'emozione di ricordi passati ma non troppo, di incontri, e di scoperte importanti. Per sognare su quello ci vuole il catalogo, per forza.
Storia a parte, quindi, questa volta io mi sono divertita a guardarmi attorno, ad osservare, ad interpretare gli sguardi che incrociavano i miei. Collezionisti, amici, curiosi, artisti, studiosi. Berti & Nativi sono un invito inusuale, non è la solita esposizione per rinforzare l'artista di scuderia, o per suggellarne un nuovo trionfo, o per segnare il traguardo di un'importante antologica. Berti & Nativi rappresentano una scelta, rappresentano un progetto, rappresentano la volontà di far capire al collezionista di oggi come e perchè è stato possibile arrivare all'astrattismo. A quell'astrattismo. E non è semplice, non è immediato; infatti, negli occhi di molti (e non solo, con i più intimi ce lo siamo domandati direttamente) scalpitava l'interrogativo: tu, quale preferisci? Ti senti arrabbiato, sferzante, urlante come Berti; sei ipnotizzato dai suoi tratti rapidi e neri come unghiate feline, balenanti di colore sempre acceso e quasi cattivo; ti stordisce quel guardare in alto, sempre più in alto oltre le umane possibilità, fino a ricadere giù domandandoti se l'alto infinito ed il basso infinito - in fondo - coincidono? Oppure preferisci le lisce superfici di Nativi, perfette come fustelle senza una sbavatura, le sue geometrie regolari come dolci prati inglesi che attendono solo di solleticarti i piedi, laghi di pastello che si fanno darsena riparata per i velieri della mente? E poi, piano piano, arrivare a realizzare insieme che il messaggio era il medesimo, il fine era lo stesso, anche se è possibile raggiungerlo per strade differenti.
Provate a rileggere cosa ho scritto e... comprendete!
Era una Mostra di una Galleria, un'attività commerciale che vende quadri per lavoro, per mantenersi, per mangiare a fine mese, non un Museo, non una Fondazione. Eppure nessuno mi ha chiesto, in prima battuta: tu, quale hai comprato? Oppure, quale compreresti? Che poi è la domanda di rito tra di noi malati in certe occasioni (per curiosità, per vedere se "ce l'ha più bello del mio", per sondare i gusti altrui). Berti & Nativi hanno elevato per una sera il concetto stesso di condivisione: per quanto i bollini rossi fioccassero, eravamo tutti come bambini timorosi che cercano di prendersi per mano per darsi forza a vicenda prima di accostarsi alla cattedra. Quale preferisci? Questo non è Nunziante (mica perchè ce l'abbia con lui, per carità, l'ho detto e ridetto che ho anch'io a casa due sue opere straordinarie; è solo che è stato l'evento immediatamente precedente a questo, ed è più immediato il ricordo): vivente, innanzitutto, e poi poliedrico, multimediale, organizzatissimo, esperto in comunicazione tanto quanto lo è di pittura. Gli commissioni un quadro del ciclo che più ti piace e lui te lo fa (o te lo fa fare). E' bravo, facile, immediato. Quale compri? Quale hai comprato?
Loro no. Prima li devi capire, prima li devi ascoltare, immergendoti nella realtà che LORO vivevano e che li divorava dentro; perchè per noi, uomini e donne del terzo millennio, con il grande web che ti toglie ogni fame, è tutto normale, è tutto facile. Dai paesaggi sfumati e sognanti di Scuffi, alle misteriose forme delle radiche di Cheri. Per loro invece era lotta, battaglia, urlo continuo. Niente più casette, niente più alberelli, niente prati o omini seduti: via tutto, bruciamo tutto. Ci metto i miei dolori sulla carta, i miei urli sulla tela, le mie indecisioni, la mia impossibilità di vivere in una società che non mi vuole, che non capisce che le mie idee sono le sue, anche se le esprimo in un modo nuovo. Che potenza comprendi, allora. Io, per prima, come molti, più vicina alla suggestiva calma di Nativi, in punta di piedi ad ascoltare la voce gridata di Berti (a me i quadri parlano sempre, anche se preferisco i delicati sussurri delle Piazze d'Acqua di Scuffi): calmati, fiera ferita, non sono qui per farti del male, io voglio COMPRENDERTI.
Serata irreale, tutta giocata (mi chiedo se volutamente o casualmente) sul dualismo, sulla coppia, sul diverso-ma-uguale: Vinicio & Gualtiero (così succede, che dopo un paio d'ore te li sei fatti amici e puoi dar loro del tu); Dario & Giovanni, sarà che sono entrambi toscani ma si intendono a meraviglia, basta uno sguardo e via (anzi, suvvia). Uno completa l'altro, si passano tra di loro cuore e sogni come due esperti di dribbling, anche se Dario, che conosce l'impianto elettrico della Galleria di Mestre, ha carognamente lasciato a Faccenda il posto sotto ai faretti da stadio invertendo la posizione originale dei segnaposto, così il Professore alla fine dell'intervento a momenti mi collassa dal caldo, avrà perso per lo meno un paio di chili.
E poi, ancora, Antonio & Laura, perchè la contrapposizione doveva essere perfetta: nella serata dedicata a due artisti arrabbiati, delusi, a lungo incompresi, il divertimento, la gioia, lo stupore di fronte al talento dovevano divenire trionfo assoluto. Antonio Orler, giusto per dovere di cronaca, e Laura Galigani (fidanzata canora e fonte di continua ispirazione per lo smagliante rampollo di casa). Questo post ha già abbattuto più di un argine, quindi rimando al mio precedente "Talento e merito" (Marzo) il riassunto di ciò che penso di Antonio Orler, che peraltro ogni volta che lo vedo mi lascia il dubbio se col tempo diventi sempre più bravo o sempre più bello. Anche questo è dualismo, del resto.