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sabato 13 luglio 2013

Ai piedi di Giorgio Celiberti

Villa Manin è già uno spettacolo di suo. A porte chiuse, intendo.
Si erge linda, lineare, armonica e avvolgente nel nulla più assoluto della campagna friulana; bella d'inverno, quando ti spunta all'improvviso dalla nebbia come una chiesa, levitando leggermente sulla bruma, illuminata di luce propria. Ancor più bella, e diversa, d'estate, mentre ti chiama dalla calura al delicato refrigerio dei suoi lunghi porticati, in un abbraccio salvifico di verdi e di grigi. Magari il turista straniero, abituato com'è a girare su e giù per l'Europa con il treno, gradirebbe che ci fosse un collegamento pubblico su ruote, anche uno solo al giorno, da una qualunque Stazione al citato Nulla, e rimane deluso al cercarla avanti e indietro per il centro di Codroipo prima di decidersi a fare l'autostop. Ma ne vale comunque la pena, e poi è un problema che noi veneti non abbiamo, visto che in un'oretta l'automobile ti ci porta proprio davanti, e se riesci ad astrarti dagli enormi palchi per concerti che spesso si ergono, nel periodo estivo, tra l'Esedra di Levante e quella di Ponente,  hai un colpo d'occhio da portarti dentro per qualche settimana.
Sede di Mostre imprevedibili, Villa Manin. Mi è capitato di andarci, tempo fa, per qualcosa che riguardava Monet e altri impressionisti: giusto il tempo di contare a spanne le trecento persone che componevano la coda, sospirare, fare retromarcia e tornare a casa. E sì che cerco sempre di fare le classiche partenze intelligenti, per le Mostre, tipo anonimi giorni feriali alle tre di pomeriggio. Oppure, al contrario, rischiare improbabili sabati estivi col fiato sospeso, e godersi a sorpresa un intero percorso in solitario tête-à-tête con la più importante antologica istituzionale di Giorgio Celiberti realizzata, a mia memoria, negli ultimi anni.
Incredibile Celiberti. Ci trovi qualcosa degli anni precedenti all'illuminazione di Terezin: pittura del suo tempo, colore, maestria;  bravo di certo, ma niente a che vedere con quello che successe poi. Quando lo strappo al cuore, il dilaniarsi dell'anima, mani su mani nella sofferenza, occhi sulla storia e sul dolore, aprirono una stagione unica che continua, ininterrotta, da quasi cinquant'anni. 
So già che, prima o poi, qualcosa di Celiberti entrerà a casa mia. Ne sono sicura, e non ho neanche la fretta o la smania di cercare, perchè sarà una scelta reciproca quando le nostre strade si incroceranno; del resto, con le opere d'arte succede, a volte, come con le persone: trovi quella speciale e lo senti. 
Quello che non so, ma non ha importanza perchè - in fondo - rende l'attesa ancora più sognante e gustosa, è cosa sarà esattamente, perchè di Celiberti mi piace quasi tutto. Lui è artista nel senso più profondo che io, personalmente, do alla parola: sperimenta in continuazione, cambia supporto, tecnica, materia. Me lo immagino davanti a polveri, colori, pennelli, tele, cementi, metalli, come un bulimico davanti ad un frigo aperto e ricolmo. Mi piace cosa fa e mi piace il suo percorso (verso la qualità estrema, visto che le opere degli ultimi anni sono incredibilmente belle). E poi ama i gatti, proprio come me. 
Conoscevo già i suoi affreschi, e come è normale ho le mie preferenze, le mie affinità elettive: mai troppo sgargianti, perchè un po' mi spaventano quelle grida di blu e di rosso insieme. Li adoro soffusi, quasi monocolori (grigio su grigio, bianco su bianco, nero su nero, al limite con un velo di tramonto arancio-rosa), graffiati a fondo nelle zone più dense di materia, come quando, sotto un cielo d'inverno terso da far male agli occhi, ti trovi davanti una superficie di neve appena caduta e ancora intonsa. Vaporosa, perfetta nel suo essere fatta di nulla e di ghiaccio, spumosa alla vista e  croccante al tatto: è un invito a toglierti i guanti - separandoti solo per un attimo dal loro ancestrale calore, come di ventre materno - ed affondare le mani aperte, la pelle nuda in quel mare di densa sofficità. Le ritiri subito, mentre già pungono, e lasci al sole un'impronta stellata, nitida ma non troppo, tridimensionale nel vuoto, azzurrina nel bianco che la circonda. I suoi affreschi sono strati su strati di lacrime e polvere, con simboli e scritture ora affioranti ora nascosti, ampi gesti  o minuscoli scavi, e in ogni caso mi affascinano sempre. 
Ho rivisto i suoi muri, ricordi di viaggi lontani e di culture diverse, ciottolo su ciottolo, segno su segno, e le sue terracotte scure, appena spruzzate di bianco e d'argento.
Ma c'era una stanza, una sola, che aspettava il mio profondo stupore. Il respiro che si ferma, per una manciata di secondi. La voglia di stabilire un contatto fisico, il bisogno di sentire il tocco dell'epidermide, che si scontra con il timore reverenziale di avvicinarsi, di rompere la perfezione dell'ambiente, di sporcarlo con un'ombra. Una parte di te è attirata, una parte si blocca tra il tic-tac di due secondi e resta come sospesa. Una sala come tempio isolato, con un'oasi di cemento grigio, dal quale si ergono come monoliti senza tempo le Stele di alluminio. 
Tante, immote e immobili, eterne. Lisce, graffiate, ricoperte di scritte e geroglifici, alcune comprensibili a tutti, altre solo a pochi eletti che sanno usare il linguaggio dei simboli. Uniche. Universali. Alcune alte e possenti. Altre piccole e nascoste, ma mai fragili. Forse fredde, ma mai gelide. 
Una piccola digressione: mi piace, quando vado per Mostre, osservare non solo le opere direttamente oggetto dell'esposizione, ma anche l'ambientazione, l'illuminazione, tutto ciò che porta a rendere la Museologia una disciplina vera e propria, da studiare ed imparare. Il mio ricordo più forte è legato ad una visita, molti anni fa, al Museo Egizio di Torino, che se non ricordo male è, per numero e qualità dei reperti, secondo solo a quello del Cairo. Un appassionato di egittologia potrebbe passarci dentro degli anni; la sola sala del Libro dei Morti merita il viaggio: lo vedi srotolato lungo le pareti, e "senti" millenni di storia che ti ricadono addosso, addosso a te, piccolo grumo di ossa, muscoli e organicità di passaggio, per un soffio, sulla Terra. Ricordo che ero rimasta male per lo stridore del confronto tra l'immensità del COSA (i reperti, la loro unicità e perfezione, la loro vastità) e la pochezza del COME (il modo con cui venivano esposti: troppi, troppo accumulati, troppo polverosi, illuminati in modo asettico, una sensazione da ospedale). Ma c'era una sala, una unica sala, che era stata appena allestita dal "nostro" scenografo hollywoodiano Dante Ferretti. Sei/sette pezzi e non di più, ma con la penombra giusta, la giusta distanza tra loro - giusta per i loro bisbigli eterni, giusta per i nostri passeggeri silenzi - e uno studio voluto dei materiali e dei colori sia dei reperti (legno scuro, oro, tanta pietra) che della sala stessa. Una sala, un Museo.
La stanza delle Stele di Celiberti, regno quadrato di torri metalliche in penombra, mi ha richiamato la stessa passata emozione. Ho fatto anche una cosa che non andrebbe fatta. Abbassando gli occhi sul mare di grigio cemento da cui sorgevano, ho scoperto piccole increspature, impronte di mani, di dita. Piccole mani e piccole dita, perchè la Mostra è pensata - finalmente qualcuno ci pensa! - anche per i bambini, per i loro occhi, per il loro modo di capire. Del resto, non sono state le piccole mani e le piccole dita di Terezin la sorgente di tutto questo? Non è allora come un cerchio che si chiude? 
Per farla breve, ho scoperto che quel mare di cemento era in realtà qualcosa che ricordava la sabbia. Sabbia grigia, granulosa e pungente. Come nei mini-giardini zen, con il mini-rastrello che traccia segni misteriosi per placarti la mente. Avevo ai piedi delle sottilissime infradito, e sfilarne una per lasciare la MIA impronta tra le Stele è stato un attimo. Mi sono anche beccata una vigorosa tirata d'orecchi dalla mia inscindibile metà ("hai rovinato un'opera d'arte!"), che io ho subito rintuzzato spiegando che, a mio parere, era esattamente il contrario: un invito all'interattività, al muto e continuo dialogo con l'artista, da un lato le sue Stele immobili ed immutabili, dall'altro le tracce del nostro passaggio, che possono essere cancellate, sovrapposte da quelle di chi ci seguirà. Lui uno, noi molti, ma con lo stesso messaggio. Ci ho anche aggiunto un inciso sui diversi piani ottici: la verticalità delle Stele dell'artista, che spuntano da un punto preciso e si innalzano verso l'infinito, e l'orizzontalità della sabbia di noi tutti che assistiamo a questa crescita, sabbia senza un inizio, ma limitata dallo spazio quadrato dell'oasi. Insomma, ero lanciatissima, Dario Olivi sarebbe stato fiero di me. Meglio, comunque, che non ci fossero solerti guardiani in agguato (per il mio piede sulla sabbia, e per il reportage fotografico che i miei avventurosi compagni d'arte tanto critici nei confronti del mio gesto azzardato si sono portati a casa, che non è meno proibito del profanare un tempio con un'impronta!). Niente vigili guardiani quando torno - per un momento eterno, negli occhi e nel cuore - bambina sulla riva di un mare infinito.



          

giovedì 11 luglio 2013

Signora, si rassegni

Come cadono anche gli ultimi baluardi! Ora possiedo uno Smartphone.
Non volontariamente, sia ben chiaro: mai e poi mai sarei entrata in un negozio perché sentivo il desiderio impellente di averne uno. Ma il mio attuale cellulare mi ha piantato in asso per la seconda volta in sei mesi, e allora ho ceduto clamorosamente. Che poi, a dire il vero, il mio “attuale cellulare” era già troppo tecnologico per i miei gusti, visto che si trattava di uno di quei misti Touch & Type, tra l’altro praticamente nuovo, non aveva neanche due anni di vita. 
Rigorosamente Nokia, perché io sono basica e tradizionalista, e dopo aver imparato bene come far funzionare un cellulare Nokia, in tempi che oramai si perdono nei ricordi del Paleozoico, non ho mai voluto neanche concepire l’idea di sorbirmi tutto un nuovo Manuale d’Uso di un’altra marca (il mio primo cellulare era stato un Nokia, all’epoca non ancora GSM, con la batteria che pesava un chilo e quattro etti e durava tre ore, e la prima bolletta del numero con prefisso 0337 per Partita IVA mi era costata la bellezza di un milione e trecentomila lire, che erano soldi veri, eh, mica l’equivalente di seicentosettantun Euro e fischia). 
Il mio terzo, o quarto, Nokia era spirato dopo anni ed anni ed anni di onorato mestiere di cellulare (che per me significa apparecchio per: fare-e-ricevere-telefonate e per: inviare-e-ricevere-sms, e morta là), e il gentile addetto del negozio aveva speso una parolina in più per un cellulare solo-un-pochino-Touch, “giusto per abituarsi” aveva detto, aggiungendo “perché il futuro sarà quello, sa, Signora”. Ricordo bene la lieve irritazione che mi aveva pervaso lo stomaco, ma non so se maggiormente per la parola “futuro” o per la “Signora”: quando i commessi dei negozi cominciano a darti tutti del Lei, anche quelli più grandini intendo, non solo i ventenni brufolosi, allora vuol dire che sta sopraggiungendo La Fine, anche se hai ancora una terza che guarda il cielo senza aiutini. 
E mio marito, furbo lui, aveva anche insistito perché lo prendessi, perché tanto “se poi non ti abitui o non ti trovi bene lo dai a me” (ma questo lo dice di solito DOPO che ho strisciato la carta, che si tratti indifferentemente di un telefono, o di un forno a microonde, o di un’automobile). 
Questo grazioso Touch & Type si è rotto praticamente subito, irridendo alla fatica che avevo fatto per abituarmi alla parte “Touch” (che al principio non è così facile come sembra, ma quando uno ci arriva ha ormai una tal sensibilità nei polpastrelli da poter scassinare una cassaforte). E il gentile addetto – sempre lui! – nel mandarlo a riparare aveva precisato che in effetti questi cellulari misti si rompono spesso, perché la parte sotto lo schermo è fatta male. Accidenti a lui, alla parte sotto lo schermo, e anche allo schermo; fa parte delle cose che dovrebbero essere dette prima che l’oggetto venga comprato, non dopo.
Le seconda rottura della parte-sotto-lo-schermo non mi è andata giù, per quanto in garanzia, e sono andata a comprarmene uno nuovo; in realtà lo volevo vecchio, cioè un telefono con i tasti che faccia il telefono e mandi all’occorrenza i messaggini. All’occorrenza, perché a me ne bastano una decina a settimana quando va bene, e quando vedo le offerte dei cinquecento-dico-cinquecento messaggi gratis al mese un pochino mi spavento (ma davvero non facciamo prima a parlarci a voce con tutta questa gente?). Ho anche cambiato negozio, stavolta. E ho trovato un commesso giovanissimo, carinissimo, vagamente etnico, praticamente non capivo una parola di quello che diceva. In italiano parlava poco e tutto a sigle. Mi ha letteralmente “scaricato” ad una ragazzina altrettanto giovane e carina che mi ha fatto capire (a gesti, ma per colpa mia, non sua) che i cellulari che voglio io non li fabbricano più; con gli stessi quattro soldi ti prendi uno Smartphone di medio livello (non Nokia però, perchè tutto cambia, e pare che i loro Smartphone di fascia medio-bassa non siano propriamente al livello dei prodotti storici), tanto vale che cominci ad accostarmi all’idea. Adesso funziona tutto con le App, è una meraviglia, hai il mondo in una mano (e devo dire che ha ragione, la bimba, anche la mia Mandante sta ventilando l’idea di far aprire i sinistri direttamente ai Clienti tramite App, così quelli dotati di Smartphone vengono liquidati, e gli altri, quelli del Paleozoico, che si arrangino). 
E Smartphone sia.
Arrivati a casa, l’ho caricato, ho inserito la mia sim (che è ancora di quelle con la scritta Omnitel in verde, probabilmente quando l’ho presa il commesso etnico-giovanissimo-carinissimo e pure con un filo di trucco doveva ancora nascere), ed alla prima domanda – perché da bravo Smartphone, cioè “telefono intelligente”, questo qua farebbe anche le domande – ho risposto di no. Vale a dire, io NON accetto il localizzatore, NON voglio che Google o dio-sa-chi sappia cosa faccio e/o dove mi trovo, cosa mi interessa, cosa mi piace. Il computer lo uso - in ufficio o a casa - da una postazione fissa, dove posso fare quello che voglio senza che l'Universo sappia le mie curiosità, alla faccia dei cookies. Non voglio essere connessa illimitatamente col resto del mondo: mi piace la corsa in solitario, o al limite con tre-quattro selezionatissimi compagni di strada. Col risultato che adesso ho un cellulare che, per mia gioia e soddisfazione, telefona e manda messaggi e basta (niente mail, niente Internet, niente App), solo che ingombra il doppio rispetto a quello di prima, è infinitamente più fragile e incredibilmente meno maneggevole.   
E non lo sento neanche suonare! Perché gli Smartphone hanno questa caratteristica: o ci metti come suoneria una polifonica da urlo, così quando ti chiamano in ufficio a Mestre lo sanno anche nei bar della periferia di Vicenza, o se sei un tipo da discreto drin-drin non c’è niente da fare: il sussurro del cellulare non lo senti, rivestito com’è da questi scafandri voluminosi per evitare che si rompa. Però adesso per lo meno do una scusante alle ragazzine moderne, che camminano per la strada, fanno shopping, si lavano i denti, sbattono su per i pali (vista io una, del resto o guardi in basso o guardi avanti), dormono, si spogliano e si vestono sempre con il cellulare incollato alla mano stile Bostik, invece di lasciarlo sul fondo del marsupio o della borsetta: la connessione eterna ha i suoi pregi e i suoi difetti.
Mio marito, sornione lui, ha detto che non mi devo agitare. Datti un po’ di tempo – mi ha detto – che ne so, una settimana o due per pensarci su. Magari cambi idea e cominci ad usare anche il resto delle sue funzioni – mi ha detto – che poi sono tutte le cose per cui è stato concepito. In fondo, c’è sempre l’alternativa “se poi non ti abitui”.

Aggiornamento del 27/07/2013, sabato.
Come immaginavo, adesso è Paperino che usa il mio Smartphone. Del resto, mi sono sempre considerata una ragazza sveglia, ci metto poco a capire se a qualcosa "mi abituo" oppure no. Accidenti, mi dispiace per la custodia, che era davvero molto chic, voglio vedere come farà lui ad infilarsela nella tasca posteriore dei pantaloni. Ma per il resto sento di detestarlo cordialmente, soprattutto dopo che mi ha piantato in asso per ben due mattine di seguito (presumo non abbia trovato un buon feeling con la mia vecchissima sim), la prima volta avvertendomi gentilmente, e la seconda nemmeno quello, così ho perso un paio di chiamate davvero importanti. Mi ha piantato lì di mattina presto, 'sto bastardo, come nel più classico comportamento maschile, neanche a farlo apposta, in quelle ore così dolci in cui rispondo a determinate telefonate (che ho perso!), e innescando una sorta di reazione a catena. Sono andata a riprendermi il Nokia con la parte-sotto-lo-schermo riparata ancora in garanzia, e a garanzia scaduta, quando - inevitabilmente - si romperà di nuovo, vedremo.