.

.

sabato 27 settembre 2014

Belle Epoque

E' probabile che io rischi di ripetermi.
Anzi, direi proprio che mi ripeterò. E vuol dire che va bene così.
Trecose galoppa a briglia sciolta da quasi tre anni, ormai, e per quanto io sia cambiata DENTRO, per un insieme di motivi, non sono mai andata a correggere, ritoccare o spostare i miei post passati (ma tu guarda l'accostamento: "post passati", così ossimorico...) perchè da un lato raccontano com'ero e, in fondo - sulle cose importanti - come sono tuttora, e dall'altro perchè sono testimoni di un'evoluzione, di una maturazione, che mi ha portato fino a qui - con le scelte che ho fatto e con quelle che farò - e modificarli mi sembrerebbe come se smontassi i pioli di una scala: bloccherei tutto, senza possibilità di salire nè di scendere. Tuttavia io ricordo ogni parola dei miei post, perchè ogni parola è stata (soprattutto il primo anno) singola goccia di emozione, di vita, di gioia, di rabbia, travasata e condivisa qui dentro; mi capita, scrivendo, di dire a me stessa "ah, no, questo l'hai già scritto nel post Tale, cancella altrimenti ti ripeti", dando per scontato che anche chi mi legge si ricordi esattamente virgola per virgola le mie frasi (prendetelo come un gesto di carineria nei confronti dei lettori, giusto per non annoiarli, anche se sicuramente pecco di immodestia presumendo che chiunque passi di qui si tatui col sangue ogni lettera che esce dalla mia tastiera...).
Oggi non lo farò! Ripeterò cose già dette, perchè ho provato emozioni già provate, e tutto sommato non importa: non c'è scritto in alcun Vangelo che bisogna per forza essere costantemente nuovi ed originali; un pochino di crogiolamento in qualche cosa che ci faccia stare bene, ogni tanto, ce lo meritiamo.
Ho partecipato ad un corso di formazione professionale dei nostri a Bologna, interessantissimo, e a tal proposito saluto Patty che mi ha promesso che verrà a leggermi -   de vez en cuando - scusandomi se finora ho sempre parlato di assicurazioni utilizzando la parola "spendere" (del resto, il corso l'ho fatto solo adesso), mi applicherò affinchè la cosa non si ripeta. Ho scoperto quanto intrigante sia la psicologia economica, mi affascina, davvero. Ho appreso dell'esistenza di quel geniaccio birbante di Daniel Kahneman. Ho definitivamente capito che il mio domani sarà fuori dal Veneto, mi piacciono troppo i toscani (mica avevo optato per Bologna a caso, come sede del corso, è che lì sapevo ci sarebbe stato un crogiolo di "abitanti del Centro" con cui confrontarmi), sanno prendere il lavoro, le discussioni, le scelte, la VITA insomma sempre in un modo che mi fa impazzire: seriamente, adagio molto, allegro con brio. Ti ci siedi davanti e ti fa tanto Beethoven (adesso devo solo capire come e quando).
Però, ritornata a casa con il mio nuovo bagaglio di conoscenza e curiosità, ho trovato mio marito con il musetto lungo, perchè non è che ci piaccia tanto stare separati, anche se è per annusare l'aria e pianificare un futuro sinfonico. Ci siamo presi un pomeriggio da passare insieme, non casualmente a Padova perchè sapevamo che a Palazzo Zabarella aveva aperto i battenti la Mostra di Vittorio Corcos. 
Ed ecco dove mi ripeto: parola per parola, il mio post "Parentesi" di sedici mesi fa (con preghiera di rilettura: http://trecose.blogspot.it/2013/05/parentesi.html).
Avevamo già visto a Palazzo Zabarella, in quel percorso espositivo eccezionale, circolare, illuminato al punto giusto, Boldini prima e De Nittis poi. Anche su questa cosa del come esporre opere d'arte avevo già scritto in occasione del mio post su Giorgio Celiberti  (altra preghierina: http://trecose.blogspot.it/2013/07/ai-piedi-di-giorgio-celiberti.html), ma già che oggi sono in fase di ripetizione in effetti mi sento di ribadire che le Mostre della Fondazione Bano hanno una marcia in più, e sì che ne ho viste in giro per l'Italia (a Palazzo Reale a Milano, soprattutto, e ci tornerò ben presto che Chagall mi aspetta). E non parlo della scelta delle opere in sè, parlo di come le posizionano, di come ci mettono attorno i faretti, del percorso non "squadrato" (il classico stanza-dopo-stanza-dopo-stanza) che fa sì che tu ti possa trovare davanti, improvvisamente, uno spazio ampio inaspettato, oppure un semi-corridoio, o un piccolo budoir. E ogni luogo racchiude l'opera giusta, per dimensioni, sguardi, sensazioni. 
Comunque dopo Boldini e De Nittis non potevamo lasciare incompiuto il percorso dei grandi ritrattisti (ah, il famoso Museo del Ritratto! Era una chimera nel post precedente, e ora già possiamo cominciare a dargli forma...), e ci siamo gustati il Grande Livornese dal primo all'ultimo sorso. 
Non voglio parlare e non parlerò di Corcos in sè, dei suoi ritratti, dei suoi sguardi, della luce che esce dai particolari delle sue tele, delle sue minuzie esagerate e dei suoi sfumati contorni. Del fatto di quanto lui fosse "oltre", visto che già il suo contemporaneo Ojetti, nell'anno in cui Corcos muore, di lui scrive che "dipinge donne e uomini come desiderano d'essere, non come sono" (eppure i ritratti sono fedeli, la fotografia già esisteva all'epoca, e i personaggi famosi - le cui fotografie sono giunte ai giorni nostri - sono davvero con quei volti, con quelle pose); ma bastava, ritengo, un po' di sfrontatezza in più nel sopracciglio, oppure un po' di rossore su una guancia, la bocca lievemente più socchiusa del normale, per trasmettere qualcosa di DIVERSO, che oltrepassasse la rigidità dello schema sociale, che facesse immaginare cosa la gentildonna o il nobiluomo avrebbero voluto fare mentre si guardavano, e non quanto poi, nella realtà, fosse loro permesso. Non voglio parlare di quanto strano ho trovato che nelle cartoline, negli opuscoli, nei poster, nei puzzle del Bookshop abbondassero le riproduzioni delle sue dame meravigliose, le pelli bianco latte e i capelli raccolti, quando in realtà i ritratti più straordinari erano - a mio giudizio - quelli dei personaggi maschili: barbe, baffi, panciotti, monocoli, mani con unghie traslucide e perfette, visi che trasudavano prestigio, potere, carisma (ma si sa, le donne sono più gradevoli se riprodotte su puzzle). Non parlerò (non troppo, almeno) di quanto mi abbia impressionato leggere come lui incominciasse - nei dipinti - sempre dagli occhi, giacchè se gli venivano bene quelli, era praticamente a metà dell'opera: gli occhi come cardine di un dipinto, quand'anche riproducesse, finito, una figura intera. Gli occhi come fulcro dell'intero quadro, come punto magnetico da cui è impossibile staccarsi, come canale di comunicazione privilegiato, anche nel silenzio, tra chi parla e chi ascolta, tra chi guarda e chi è guardato; esattamente, quindi, come la vedo io, che agli occhi do un'importanza al limite del maniacale, ci passa una vita intera, ci metto - nei miei - tutta la mia essenza. 
Insomma, già non sono titolata per niente quando mi azzardo a parlare di contemporanei viventi, figuriamoci se ardisco farlo su pittori della nostra tradizione, sui quali fior di critici, curatori di musei, esperti di ogni tipo si sono - nel tempo - espressi.
Vorrei parlare d'altro. Vorrei parlare (ancora!) del nodo alla gola, piccolo, sottovoce, che mi prende quando entro nell'Ottocento, sul finale. In una pittura senza esperimenti, che aveva uno e un solo linguaggio. Che parlava di lunghi viali ombreggiati, di mani guantate, di libri poggiati sulle panchine. Sono nata nel secolo sbagliato, lo so e me lo dico ogni volta che mi immergo in quei quadri, è sbagliata la mia seconda cifra, al limite vanno bene le ultime due. Ammetto che mi dispiacerebbe perdere le conquiste scientifiche degli ultimi cinquanta, sessant'anni (in medicina, principalmente, ma anche dal punto di vista tecnico, ora abbiamo indubbiamente delle gran belle comodità), ma probabilmente accetterei comunque lo scambio. Ovvio, e va detto senza ipocrisie, presupponendo di essere benestante, molto benestante, istintivamente ci immaginiamo sempre parte della fetta di popolazione che sta bene (uno scambio temporale per finire a fare la lavandaia, ecco, magari lo eviterei). 
Parigi, la Belle Epoque... quando tutto cominciava e tutto doveva ancora cominciare, quando c'erano ancora valori importanti, sogni da inseguire, regole da rispettare. Quando il tempo correva veloce, ma non scappava via. Con stile, con eleganza, con intelligenza. Le donne volevano essere ammirate ed apprezzate, ma senza bruciare il reggiseno (o il corsetto che fosse), perchè non era certo quello che le poteva emancipare di più o di meno, e nel segreto delle case le decisioni importanti si prendevano comunque sempre in due (almeno, a casa dei miei bisnonni si vocifera fosse così). E anche se c'era già la fotografia, era ancora un gesto vitale regalare un ritratto fatto da un pittore che ti cogliesse l'anima passando per gli occhi. Un gesto d'amore, che mi piacerebbe ancora adesso, in questo iper-contemporaneo che non fa più nemmeno le foto, di normali, elabora e modifica pure quelle; un quadro fatto a pennello e olio, dal vivo o a memoria, o copiando una fotografia, ma che sappia di tempo passato a guardare, a pensare. Un dono che presuppone l'attesa (perchè, poi, io sempre lì torno), il gusto e la poesia profonda dell'attesa, e che non venga bruciato in un nanosecondo una volta ricevuto per passare ad altro, per rincorrere il DOPO. E che, tra cent'anni, testimoni ancora cosa cela il lampo di uno sguardo con la stessa potenza, la stessa malizia, la stessa trasparenza di oggi.

domenica 14 settembre 2014

Cinzia Pellin

Come, ritengo, chiunque gestisca un proprio Blog o frequenti assiduamente un Forum, mi capita spesso di curiosare in Blog e Forum altrui, soprattutto se li ho conosciuti in occasione di confronti, qui, su Trecose, così mi diventano ancora più simpatici. Ultimamente mi sono imbattuta in un ragionamento interessante tra i ragazzi di Finanza OnLine - parlo ovviamente solo del "sottoforum" (oggi vado anche di neologismi internettiani) relativo al Collezionismo/Investimento in arte, perchè F.O.L. è un sito immenso, e decisamente io mi spavento davanti a parole come Trading, Small Cap, Forex e tutti i loro cugini di secondo grado. 
Nemmeno mi ricordo se era una discussione recente o no, ma so che l'avevo trovata estremamente curiosa ed interessante: il loro moderatore si poneva una sorta di Questione Morale, chiedendosi se fosse corretto o meno che gli iscritti potessero "parlar male" molto spudoratamente degli autori che a loro non piacciono. Pur anche anteponendo alle varie opinioni il più classico dei "secondo me". Questo perchè, notava, nemmeno gli appassionati d'arte di F.O.L. sono più i quattro gatti che erano quando sono partiti (famosissimi e citati più di una volta, ad esempio, al "lancio" delle televendite Cagnola, quando sono andati molto vicini a procurare un infarto a Roberto Porcelli), e una cosa è chiacchierare animosamente tra amici al bar, altra cosa è rendere pubblici online pesanti giudizi. Si chiedeva se il rimarcare quanto trovano orribile e sopravvalutato il Tal artista piuttosto che il Tal altro potesse - in un certo qual modo - influenzare il mercato, cosa che a loro non spetta, partendo dal rovinare i rapporti tra il Tal artista e i suoi estimatori. L'alternativa resta il parlar bene solamente degli artisti che si amano, lasciando cadere uno sdegnato e pesante silenzio su tutti gli altri (traducendo: se non ne parlo significa che non mi piace). 
Ovviamente la discussione continuava con gli interventi più disparati, ma a me era bastato il primo per rifletterci un po' su, anche se il discorso mantiene sempre e comunque una base più teorica che pratica (come già il loro moderatore premetteva, del resto, visto che se questo fosse un problema reale varrebbe anche il suo contrario, cioè gli autori di cui qui si parla solo e sempre bene dovrebbero valere già milioni...). Anch'io, in effetti, preferisco in linea di massima affrontare l'argomento Arte solo parlando BENE, dando per scontato che il MALE sia "il resto" (cosa che non succede invece con l'argomento Assicurazioni, o peggio ancora con gli Uomini!); potrei ipotizzare che sia un mio atteggiamento inconscio, per preservare tutta la magia che gira attorno a questo mondo così lordato eppure ancora così fiabesco. Oppure, dal momento in cui io d'arte parlo solo col cuore, preferisco egoisticamente non espormi agli strali degli esperti che arriverebbero se mi permettessi di dire "il Tal artista mi fa proprio schifo" (una volta ad un Evento Orler un gallerista non-Orler mi ha quasi sbranato, perchè ho osato dire che "non capivo" Calzolari... e tuttora penso che sia un gran furbacchione). 
L'arte (nel gusto...) è cosa così personale, così privata, così soggettiva! 
Se devo fare la precisina e sottolineare in rosso e in blu posso farlo senza incertezze con le Assicurazioni, dove tutto è molto più inquadrabile in Vero/Falso, Buono/Cattivo, e, soprattutto, se dico la mia è fonte di assoluta verità, da oltre vent'anni, insomma, Calzolari doveva ancora presenziare a documenta IX. C'è anche da dire che nella sola Italia i cosiddetti "artisti" pare siano oltre trentamila (l'ho letto una volta su una delle varie riviste specializzate, non so se avessero preso a riferimento la Camera di Commercio piuttosto che le Pagine Gialle, ma era un dato preciso), ed è fisicamente impossibile che ad un'unica persona siano tutti noti (e non parlo dell'assicuratrice veneta, parlo anche dei critici più tosti), quindi chi dovesse sentirsi ignorato può tranquillamente pensare di essere un Emerito Sconosciuto, dispiace ma è sempre meglio di Imbrattatele Incapace.
Poi, l'altra sera, mi è venuto in testa una specie di flash. Mi sono resa conto che non ho mai scritto un post su Cinzia Pellin, e dal momento che non è a me sconosciuta (cosa deducibile dai miei trascorsi con la Galleria Vecchiato, infatti l'ho anche nominata - ma solo come fugace apparizione - nel post "Serata di Stelle" del Dicembre 2012) non voglio assolutamente che si pensi che non intenda parlarne bene. Il flash, per la cronaca, mi è balenato all'interno dell'Oratorio della Beata Vergine del Rosario di Limena, una chiesetta sconsacrata annessa ad una delle nostre belle ville venete in cui - nell'ambito della manifestazione "Il Risveglio dell'Arte" - Cinzia aveva una serata tutta per sè. Parlo di venerdì scorso, e direi che dopo un paio di giorni di balenamento è il caso che mi metta alla tastiera per porvi rimedio.
Non so perchè non l'ho mai fatto prima, ormai in fondo sono passati tre anni da quella straordinaria serata di Firenze (Rabarama e "AntiConforme") durante la quale io e mio marito l'avevamo conosciuta, e trovata simpatica, alla mano, carina ed estremamente sensibile. Probabilmente perchè non abbiamo un quadro suo, sotto sotto l'empatia è più elevata con gli artisti di cui ho qualcosa in casa, è come avere qui anche loro, parlarci a quattrocchi, dialogare con lo sguardo (anche con chi non c'è più, io con Xavier Bueno mi faccio sempre un sacco di discorsi). E di questo la colpa è tutta mia, perchè mio marito ha spesso fatto gli occhioni imploranti come il gatto di Shrek davanti a più di un quadro di Cinzia. A parte il fatto che tendenzialmente sono enormi, e noi siamo collezionisti microscopici con un appartamento di conseguenza (già molto pieno, tra l'altro). A parte il fatto/bis che per ammirarli in tutta la loro forza bisogna starci abbastanza distante, e questo presuppone una certa vastità di spazio non solo sulla parete, ma anche sul pavimento. Io non lo so cos'è esattamente: forse mi turbano un pochino. Mi mettono una lieve inquietudine. Mi scrutano dentro. Non c'entra niente il fatto che siano donne (famose o sconosciute, sensuali o acerbe, aggressive o dolci), come hanno sostenuto venerdì provando a psicanalizzarmi, anzi, forse se fossero uomini la sensazione sarebbe anche più violenta. 
E questo esattamente perchè Cinzia Pellin è brava, mostruosamente brava (mostruosamente in senso buono, ovvio). 
Lei non dipinge volti, dipinge STATI D'ANIMO. Uno stesso viso, infatti (e questo si nota sui ritratti più famosi) può cambiare completamente espressione solo per una pennellata più carica di bianco. Perchè lei dipinge, intendiamoci, sopra a TUTTO il disegno, anche se a prima vista non sembra perchè i suoi soggetti suggestionano e catalizzano immediatamente lo sguardo su quei particolari intensi e così minuziosamente cesellati, che lei fa esplodere fuori dalle tele: le bocche - quasi sempre - gonfie, carnali, tanto reali da sembrare irreali (ed era un contrasto forte, incredibilmente ipnotico, quello di queste bocche come cuori sanguigni, con le pareti e le volte di una chiesa disadorna, quasi che non aspettasse altro che essere rivestita ed arricchita in questo modo tanto inconsueto). Ma anche gli occhi, i capelli, oppure particolari delle vesti: una sciarpa di lana, sulla quale si potrebbero contare i singoli punti, oppure lucidi guanti, o una stola di pelliccia che ancora sembra essere lambita dal vento. 
Il bello delle opere di Cinzia Pellin, la sua maestria, è scoprire ciò che sta OLTRE a questi particolari, il resto del ritratto. Le sfumature lattee, gli infiniti riporti di ghiaccio, il chiaroscuro giocato solo sui grigi, la capacità di trasmettere un'emozione solo con strati di puro bianco. Non è una fumettista alla Milo Manara, per intenderci, gran disegno e sensualità all'ennesima potenza, ma se togli la seduzione casca il palco. Cinzia oltrepassa il concetto di "donna", è un unico soggetto: dalla bambina all'adolescente all'attrice immortale, che non ti vogliono sedurre, ti vogliono solo attraversare con i loro sguardi. Non giocano con te, non ti provocano. Si limitano ad osservare, immobili, magnetiche, eterne in una dimensione fuori del tempo, chi passa loro davanti, silenziose testimoni di un profondo talento.
Di recente ho iniziato ad intrattenere una corrispondenza epistolare via mail con un pittore/letterato/pensatore - non mi piace dare definizioni e mai come nel suo caso sono in difficoltà a farlo - incontrato su Trecose. Sto leggendo alcuni libri scritti da lui, e in molte, moltissime cose non potremmo essere più diversi (io, che pensavo di essere troppo chiusa alla modernità e alla tecnologia, troppo legata ai canoni del passato ed alla tradizione, in confronto a lui sono un'astronauta), ma, come spesso succede, è proprio nella diversità che si scoprono le idee migliori. Una sua frase buttata lì per caso insieme ad altre mi ha acceso una lampadina, ed ora non riesco più a guardare ad un artista senza pensarci. Lui sostiene che ogni artista contemporaneo dovrebbe misurarsi con i grandi del passato prima di aprir bocca, e va oltre, affermando che creare appositi Musei per la sola Arte Contemporanea sia un errore. In questo, sono assolutamente d'accordo con lui, perchè finisce che spesso si riempiono di provocazioni inutili, tutta robaccia che con l'Arte con la maiuscola non ha nè avrà mai niente a che fare. 
La creazione di una sorta di Musei Tematici ove mettere in confronto le opere dei secoli passati con quelle dei sedicenti artisti di oggi permetterebbe di ridurre drasticamente quel famoso numero trentamila (e consacrare definitivamente talenti del nostro tempo: alcuni dei Bianchi più intensi e graffiati del "mio" Antonio Pedretti, ad esempio, forse non reggono perfettamente la "sfrontata vicinanza", per usare le parole del mio Lettore, se accostati a Turner o a Constable in un ipotetico Museo del Paesaggio?). 
Poi, come in ogni cosa, c'è sempre di mezzo il gusto del singolo; tanto per dire, su Gianfranco Meggiato, che era l'argomento del mio ultimo post, non ci siamo trovati d'accordo, visto che a me piace da matti e a lui no. Mi ha invitato a confrontarlo con Boccioni, ad esempio, ma proprio accanto a Boccioni ed alla sua esasperata ricerca di modernità, di movimento, di nuove materie io lo vedo magnificamente! Boccioni - se trasportato ai nostri giorni - l'avrebbe, credo, letteralmente adorato. Una Sfera di Meggiato di grandi dimensioni non sfigurerebbe per nulla a Milano, giusto a fianco di quella "Forme uniche nella continuità dello spazio" che imprigiona anche il respiro di chi le passa accanto, non solo lo sguardo ed il tatto, in un unico filo conduttore. 
Ebbene, mi ha talmente catturato questa idea dei Musei a Tema che adesso metto in "sfrontata vicinanza" chiunque vedo, e vorrei vedere Cinzia Pellin nel Museo del Ritratto. Anche solo dal Rinascimento in qua, tralasciando gli enigmatici sguardi egizi, le statuette elleniche o romane, e al limite anche quel poco che il nostro Medioevo impregnato di religione e paure ci ha lasciato. Vorrei farmi tutto il percorso, lungo, lunghissimo, dai volti di Piero della Francesca e di Antonello da Messina in poi, e trovarla alla fine, con i suoi particolari da primissimo piano, veri, forti, per niente Pop (a gusto mio, molto del "Pop" busserebbe invano, al Museo del Ritratto...). Differenti, certo, completamente, dagli sguardi dei secoli precedenti, ma comunque in grado di trafiggere l'anima dalla loro penombra. Me li andrei a guardare lì, senza neanche bisogno di svuotare tre pareti, e un poco alla volta supererei l'incertezza.