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sabato 31 dicembre 2016

Una finestra aperta e subito richiusa

E' la storia che si ripete, non ci si può fare niente. Capita, con i suoi fatti e i suoi antefatti, e noi ci adattiamo sorridendo. 
Ci voleva ancora una volta Marcello Scuffi, con la sua pittura sognante e la sua spontaneità al limite della gaffe, per farmi aprire e richiudere immediatamente una finestrella su Trecose, giusto in Zona Cesarini di questo 2016 che ha segnato cambiamenti così importanti nella mia vita. E, come già avvenuto oltre quattro anni fa (che nella blogosfera sono un lasso di tempo mostruosamente lungo, pari a intere generazioni), c'è un Antefatto. 
A Febbraio di quest'anno il Tè da Ristori è stato dedicato a Marcello, prima e unica volta senza la presenza di Giovanni Faccenda, che non aveva potuto/voluto intervenire (gli artisti e i critici d'arte, è evidente a crescere verso i più bravi, sono tutti nel profondo un po' primedonne: meno si indaga sulle loro cose e meglio è). Marcello aveva proposto di sostituirlo con una studiosa che stava approntando una sua futura Mostra, in terra veneta tra l'altro, ma le occhiatacce di Franco Ristori non avevano lasciato spazio a dubbi: la presentazione doveva farla la sottoscritta, cascasse il mondo. Poco importava sia che la sottoscritta avesse lo stomaco ingarbugliato a farsi riprendere dai microfoni e dalle telecamere di Toscana TV, sia che Marcello (come già la prima volta nel 2012, il famoso sguardo scettico di fronte all'Emerita Sconosciuta che avrebbe dovuto scrivere di lui) tutto sommato temesse un buco nell'acqua. E a ragione, devo dire: essere bravini e fluidi nello scrivere mica equivale automaticamente ad esserlo nel parlare. Mai e poi mai ai livelli di Giovanni, che pur con tutti i suoi difetti è e resta un vero e proprio principe dell'eloquio critico, non conosce intoppi, fila liscio come un treno anche quando improvvisa, ed è sempre piacevolissimo da ascoltare. Ma come già nelle mie precedenti occasioni verbali (due!) su Claudio Cionini, sembra che sia filato più o meno tutto liscio anche alla sottoscritta, al punto che la sera stessa Marcello mi ha chiesto un contributo per il Catalogo della futura Mostra veneta. Eccome, a fine mese era già pronto.
Poi, si sa, son cose che accadono: la mia incapacità tecnologica in invio, unita ad altrettanta imbranataggine in ricezione da parte di Scuffi, ha fatto sì che glielo consegnassi solo in forma cartacea; nel frattempo la Mostra slittava di qualche mese, e insieme ai più cari auguri di buona fine e buon principio proprio oggi mi veniva in mente di chiedere a Marcello se dopo tutto non fosse meglio averlo anche sotto forma di file, il contributo. Giusto per sentirmi rispondere, con la sua usuale genuinità condita con acca, nell'ordine:
a) che il Catalogo era ormai alle stampe, 
b) che per questioni tipografiche (e per Ubi Maior, aggiungo io con effettiva deferenza, sentendo i nomi degli altri presenti in forma scritta) il mio testo non sarebbe stato pubblicato per intero bensì estrapolato in vari punti, e 
c) che comunque il mio nome sarebbe apparso insieme a quello dei Maior di cui al punto b). 
Marcello, adorabile testone. Hai anche fissato, per sbaglio, la data dell'inaugurazione in contemporanea a quella di una Mostra di Gianfranco Meggiato, costringendo gli appassionati di entrambi ad un'impossibile salomonica scelta. Testone, con quel talento cristallino che ti ritrovi per le mani, quando prendi su i pennelli.  
Ma accidenti.
Che dolore.
Ecco la finestrella che arriva.
Non scrivendo io per professione o a pagamento, il fatto che appaia o meno il mio nome passa in secondo piano. Traducendo: frega poco. In questo lungo, interminabile anno di passaggio dalla prima alla seconda parte della mia vita, ho continuato a scribacchiare cose più o meno riuscite, sempre per il semplice gusto di farlo. 
Un intervento per Paolo Orler, ad esempio, per il Catalogo di una Mostra di soli tappeti antichi, e anche lì da qualche riga di contributo chiesto a vari collezionisti è diventato un mezzo paginone di emozioni dopo aver passeggiato in solitaria e senza scarpe in una Galleria Orler che trasudava storia annodata e meraviglie da ogni angolo. 
Oppure un paio di articoli (tre, per la precisione) apparsi nelle pagine di cultura de La Nazione in occasione di altrettanti Tè da Ristori, anche quelli senza firma (credo in effetti che non sia nemmeno possibile, visto che non sono giornalista), ma chi se ne importa, lo so io e lo sa chi mi vuole bene. Articoli costruiti come interviste, per dare un taglio commerciale all'Evento, dal momento che non è sempre carino che Franco tiri fuori un tot di quattrini per farsi pubblicità e poi si ritrovi a leggere bellissimi sbrodolamenti sul pittore di turno, senza manco un accenno alla Bottega foraggiante, al fatto che chi viene a vedere le opere sarebbe bene che, a volte, le comprasse anche. Con un occhio alle cornici, la parte speciale dell'acquisto.
Ma il ricordo più bello di questo Duemilasedici da scrittrice senza firma è legato indubbiamente al Maestro Antonio Possenti, se ci penso mi viene il nodo in gola, e mi sa tanto che mi ci verrà ogni volta. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche prima di concludere questo viaggio ed iniziarne uno nuovo, ben più importante e più lungo; il Tè di Maggio. Dal momento che Franco Ristori non ha un'automobile ma un'astronave, per il Maestro già molto sofferente e provato risultava estremamente difficoltoso salire e scendere, e quindi avevo messo a disposizione la mia macchina, assai più terrena, per il tragitto Firenze-Lucca-Firenze. Solo perchè la possiedo, ovviamente, non certo perchè io la guidi, anzi, in tre anni non l'ho mai guidata una volta salvo una prova in stile neopatentata in un parcheggio deserto, giusto per ribadire che una roba così bassa e lunga dotata di quell'assurdo arnese denominato "cambio automatico" per me resterà sempre un mistero. Panda a pedali, forever.
Io quindi me ne stavo seduta dietro, buona buona, ad ascoltare gli aneddoti e i ricordi del Maestro, e già solo per questo mi sentivo una privilegiata. Poi lui ha cominciato a raccontare come era nata l'idea della Mostra sull'Orlando Furioso che si sarebbe inaugurata di lì a breve nella Fortezza di Mont'Alfonso, una Mostra tanto desiderata a cui lui avrebbe presenziato fino alla fine dalle sommità dei Cieli, ma quel giorno non lo sapeva ancora. Spiegava che era un progetto nato solo dalla sua passione per il disegno, ne spiegava il titolo, raccontava come l' "altrove" fosse per lui, a volte, un'esigenza impellente (al pari del mio "oltre"), e io - totalmente folle e senza un pelo di umiltà, in quell'occasione - avevo detto che lo capivo, perchè per me scrivere era uguale, quasi una necessità fisica, foss'anche solo per me stessa. Invece di ignorarmi come si fa con un essere palesemente inferiore (perchè tale ero, di fronte a lui, alla sua intelligenza, alla sua cultura, alla sua arguzia, al suo talento, alla sua storia, alla sua infinita passione per ogni cosa), si era interessato e mi aveva chiesto di che scrivessi. E, scoprendo che avevo scritto di lui due anni prima (http://trecose.blogspot.it/2014/04/bambini-e-maestri.html ), aveva voluto ascoltare. Detto/fatto, dallo smartphone. E' proprio vero che scrivo tanto, perchè poi a leggerlo bene, con le pause giuste, ci si mette un sacco di tempo, con la macchina ormai in vista della Bottega che girava e rigirava intorno alle viuzze circostanti pur di farmi finire con calma, e gli occhi del Maestro Possenti che sorridevano guizzanti, la sua testa piegata di lato in lievi cenni di approvazione, e infine la richiesta: "Potrei averne, per favore, una copia?" che mi ha fatto tremare le gambe. Taci che ero seduta. Una stampante, il mio regno per una stampante subito, quella sera!
Ecco. Non sapeva come mi chiamassi, non l'ha più saputo (ora sì, lo sa, ora sa tutto). Però sapeva leggerti dentro come nessuno, e l'abbiamo riportato a Lucca, dopo la serata in suo onore, con tre fogli fitti fitti dentro una tasca, scritti da una Sconosciuta non estrapolata.
Finestrella che si apre e subito si richiude. Solo per me. Non per coloro che amavano Trecose, e che mi mancano tanto, nè per alimentare le penne velenose che non l'amavano, e che alla fine mi hanno fatto gustare il puro piacere di ignorarle e lasciarle nel limbo dei Commenti-non-pubblicati (guizzi di sadismo, verso chi cerca notorietà aggredendo).
Giusto perchè mi piace l'idea di poterlo rileggere per intero se ne ho voglia. 
Giusto perchè, quando scrivo delle mie emozioni, è come se da un taglietto sul cuore uscisse fuori un fiume. Non puoi estrapolare un fiume, al limite posso farlo io che ne conosco ogni singola onda.
Giusto perchè quel titolo, "Alchimie di un'identità ricorrente", ci ho messo un po' a trovarlo, ed è un bel titolo pure per un post, non solo per un saggio da Catalogo. 
Giusto perchè all'inizio c'è una citazione di Kahlil Gibran, e davanti alla poesia di Gibran, cari signori, tanto di cappello.


Aggiornamento in data astrale 13/01/2017. Tutto in onore di PNV, uno dei miei ultimi lettori in ordine temporale (primo per sagacia), che mi ha chiesto di lasciare semichiusa la finestra. Del resto, oggi è un venerdì 13, quindi - se tanto mi dà tanto - un pochino la sua festa.
Non so se il tutto viene da Marcello in persona (improbabile), o dalla curatrice della Mostra (meno improbabile, ma più impossibile, visti gli strafalcioni), o dal grafico. Con tutto il rispetto per la categoria di professionisti, preferirei che si occupassero della forma e non dei contenuti (virgole e corsivi compresi).
Fatto sta che il mio saggio non è solo stato tagliato e sminuzzato come la pasta per il brodino, ma anche modificato, e questo non si fa. Non fa solo male all'anima, è decisamente deplorevole, soprattutto se ci si lascia la firma sotto. Andiamo da errorini di trascrizione anche banali, ma che cambiano senso alle frasi (esempio "edifici sabbiosi lambiti da darsene blu, intensi come pensieri tristi", quando invece erano le darsene ad essere "intense", ovvio, non gli edifici), ad altri piccoli particolari da categoria l'italiano-questo- sconosciuto, a cose più importanti tipo l'omissione di un semplice "non" che stravolge tutto. Perchè io vedo le barche di Marcello, così irreali ed appiattite, quasi fluttuanti sopra un mare di marmo, e quindi dire "barche che riuscivano a penetrare quelle (...) acque" non è esattamente come dire "non riuscivano"...
La dolce anima che mi aveva mandato via Whatsapp gli scatti in anteprima di quelle pagine sentiva i miei ululati a duecento-e-passa chilometri di distanza, e cercava di blandirmi dicendo che - in fondo - nessuno legge davvero gli scritti dei cataloghi. A parte il fatto che, se fosse realmente così, perchè cavolo ce li domandate, e pagandoli a volte fior di quattrini ai critici veri, mi chiedo, allora metteteci direttamente solo le figure; a parte questo, dicevo, li leggono di sicuro le persone a cui tengo, i miei amici collezionisti con i quali mi ritrovo in giro per l'Italia in occasione di Mostre di Scuffi & Co. E leggere il mio nome sotto una tiritera da scuola elementare come questa: "Fabbriche vuote barche treni e grandi tendoni di circhi immaginari eterno realismo scuffiano", così, senza punteggiatura nè altro, quando l'originale era "Fabbriche vuote e barche addormentate: eterno realismo scuffiano", mi fa agitare. Che poi nemmeno lo penso, che i circhi di Marcello siano immaginari: sono reali, realissimi! Al limite è solo la loro apertura - così scura, misteriosa ed evocativamente triangolare - che ti trasporta all'interno, in un mondo immaginario. E mai e poi mai userei un aggettivo così banale e piatto come "grandi", quando la nostra meravigliosa lingua ci permette l'uso di incredibili sinonimi quali  immensi, imponenti e così via.
Insomma, mi sono sentita incompresa. Mio marito mi ha detto di non esagerare, ma se la passione è tanta io mi ci alimento (come sa bene il carissimo Tra Cenere e Terra, che ha commentato un mio post a riguardo invitandomi a non cambiare http://trecose.blogspot.it/2012/10/six-weeks-ago-psicologia-sotto-un.html ).
Quindi farò così: porterò uno dei miei acquerelli di Scuffi (uno di quelli che ho da lui ricevuto in regalo, dal cuore, non quelli che ho pagato a Orler) da un corniciaio. Ma mica da Re Ristori, lo porto dall'ultimo degli scalzacani. E gli dirò di togliere tutta la parte alta, perchè dove lo devo appendere non ci sta. E poi se per cortesia mi ci aggiunge qualche alberello, che leghi bene mi raccomando con le barchette davanti, proprio sopra la firma.
Poi tornerò a casa con lo stomaco capovolto.   

Alchimie di un'identità ricorrente

"L'aspetto delle cose varia secondo le emozioni;
e così noi vediamo magia e bellezza in loro,
ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi"

Kahlil Gibran


Ci sono cose, nella vita, che non stancano mai.
Cibi. Visi. Percorsi. Gesti quotidiani. Li hai fatti migliaia di volte, e già sai che per milioni di volte li rifarai, provando ogni volta quel sottile piacere, quel senso di appagamento così conosciuto, eppure ogni volta così nuovo e fresco.
La sigaretta dopo il caffè. Il profumo del caffè. La nutella sul pane.
Il mare, d'inverno. Le lenzuola, d'estate. Le montagne, sempre. Alcune di queste sono universali; poi, ciascuno conosce molto bene le proprie (quella della nutella sul pane, ad esempio). Per me, crema di nocciole a parte, tutto ciò ha da anni un nome e un cognome: Marcello Scuffi, pittore.

Di Marcello, di lui come persona, di parlare di lui, di scrivere di lui, dei suoi dipinti, di toccarli, sfiorarli, ammirarli, io non mi stancherò mai. L'ho già fatto e so già che continuerò a farlo, a volte ripetendo alcuni concetti, altre volte trovandone di nuovi, ma sempre e comunque felice e appagata.
Come collezionista sono un vero disastro, non ragiono, non rifletto, agisco sempre e solo d'istinto: quell'istinto che, quando mi trovo in mezzo ai quadri di Marcello, fa sì che me ne torni a casa con un nuovo chiodo da occupare. Ogni volta, alla faccia della diversificazione. O alla faccia della regola basilare non scritta: "Meglio un quadro da diecimila che dieci da mille". Però la colpa è sua, mica mia. Migliora negli anni, come il vino buono, toscanaccio. Ogni volta che ritengo abbia definitivamente raggiunto il suo culmine, lui sorprende e lo supera.

Sorprende per quella sorta di pervicace coraggio con cui da oltre quarant'anni si dedica esclusivamente alla pittura, e pittura di figurazione per di più. Non si lascia inquadrare, non si lascia travolgere, non ha mai imboccato nè mai imboccherà l'autostrada a cento corsie, tutte a pedaggio, degli innumerevoli "ismi" degli anni Settanta, Ottanta, Novanta e oltre. Niente pop, niente op, niente body, o land. Ma nemmeno concettuale, o gestuale, o informale: pervicace e fedele a un modello, a una tradizione. Mentre c'è chi accende neon o mortifica animali di ogni specie, lui ritrae case solitarie, ama immobili orizzonti, vive di mare.

Sorprende e supera tecnicamente, con quelle tele grezze, testimonianze di viaggi lontani, di sudore, di sole e lavoro, che ricopre di una nuova vita, fatta di colle e di gessi, una vita così bianca e così liscia da non crederci. Una vita da toccare, con i polpastrelli, delicatamente; io l'ho fatto, ho toccato ad occhi chiusi le sue tele ancora vuote, ferme in piedi, in gruppo, negli angoli più reconditi del suo studio, allineate in attesa della materia.
Va fatto, con certi pittori, con quelli bravi quanto meno, per i quali non vi è distinzione tra l'importanza del cosa dipingono e quella del come dipingono, perchè il supporto è parte fondamentale del soggetto. Quante gradazioni può avere il liscio? Quanto calore può sprigionare il puro bianco? Una sinestesia di emozioni, che culmina allorquando il colore, abbondante, pieno, viene poi spalmato via, strisciato, graffiato, quasi trascinato, un tutt'uno con la superficie sottostante, e prende forma, una forma ferma: barche immote, piani orizzontali a rincorrersi uno sull'altro fino al mare, oppure costruzioni geometriche, rigorosamente squadrate, cupe, con improvvise e profonde aperture scure. Teli pesanti, che celano mondi misteriosi, o reti impalpabili e trasparenti, leggere come ragnatele madide di rugiada. Vecchi vagoni, abbandonati nei depositi, con le ruote crocifisse ad un binario zoppo: le estremità bloccate per l'eternità, e il cuore libero di far volare con la fantasia chi, ancora, di nascosto li accarezza e sussurrando sogna. Pali ritti al cielo come lance aguzze, come una mano aperta, a incrociare una scia luminosa, una pennellata sola, decisa. Ed è tutto così fermo nel tempo, così immobile da trattenere il fiato, per non increspare la linea perfetta dell'acqua: che sia essa darsena chiusa o mare infinito, riflette ininterrottamente come specchio, purissima nella sua solidità.
Ovunque, si scoprono minuscoli anfratti come capocchie di spillo, crettature volute, piccolissimi graffi alla ricerca di un sapore antico. Una realtà parallela, una consistenza solo sua, di pittore che vuole sentirsi appellare come realista e mai come metafisico, lo ribadisce spesso, corrucciato: "Dipingo solo ciò che vedo".
Si nasconde, Scuffi, dalla pittura metafisica, che pure lo insegue, lentamente agli esordi, e poi via via prepotentemente, per farlo andare oltre, per trasportare - lui e chi lo guarda - in un'altra dimensione, e ci riesce solamente a metà. Lui le resiste. Non metafisico, allora: niente enigmi mitologici, niente statue e manichini, una prospettiva regolare e vera. Ma nemmeno realismo, nemmeno! C'è troppa magia per definirlo tale, troppo incanto, troppa eternità in quei soggetti reali ed evocativi di un mondo umile. Fabbriche vuote e barche addormentate: eterno realismo scuffiano.

Sorprende noi, e supera se stesso: c'è sempre più anima negli oli di Marcello Scuffi, un'anima che risale in superficie come una bolla carsica da tempi lontani, che richiama nomi importanti: Masaccio, Piero della Francesca, Carrà, Sironi, de Chirico. Richiama e risale, certamente, perchè c'è un'innegabile origine comune, un'unica visione di certi luoghi, di tempi, di forme, luci ed ombre; tuttavia Marcello Scuffi ha saputo farla propria, quella bolla d'anima, ed arricchirla.
Il matrimonio si è consumato da tempo, direi: Scuffi ormai non si rifà più ai grandi del passato. Scuffi ormai è. Piero in Scuffi, Carrà in Scuffi, Sironi in Scuffi: come una coppia rodata, che ha trascorso insieme più di quanto poteva immaginare e sperare nel lontano momento in cui è stato pronunciato il "sì".
"Così che non sono più due, ma una carne sola" (Mt. 19,6): una cosa sola, un'anima sola, quaranta estati e quaranta inverni, con il tramonto dal terrazzo, con la Gorgona che appare e scompare alla vista, con la sabbia e il vento, ed è bellissimo così. Il matrimonio tra Lia e Marcello è molto affollato, davvero! Forse dire "Lia Mantellassi in Scuffi" è più naturale che dire "Piero della Francesca in Scuffi"? Sono scelte per la vita, fatte e rispettate! Lia ha lo sguardo paziente di chi sa, e capisce; comprende che, sposando Marcello, ha accettato questa inusuale convivenza d'anime ispiratrici.

Come ogni artista dotato d'anima vera, anche Marcello Scuffi ha i suoi detrattori. E' giusto, guai ai tiepidi! Meglio amore e odio, sempre in coppia: entrambi nutrono, generano, stimolano al miglioramento. La critica più ricorrente che gli viene mossa è la monotonia dei soggetti, dimenticando tuttavia che il Novecento ci ha fatto toccare con mano l'immensità in un soggetto ricorrente, contemplando il rigore del vetro nelle nature morte di Giorgio Morandi.
Io guardo i dipinti di Marcello Scuffi, e non ci vedo monotonia, mai: ho visto quello stesso mare, quella sabbia, quel cemento, quei monti, mutare, negli ultimi dieci anni, come mai avrei potuto immaginare. Ho visto edifici sabbiosi lambiti da darsene blu, intense come pensieri tristi, a sorreggere barche che non riuscivano a penetrare quelle dense, drammatiche acque. Li ho rivisti, sempre loro, dissolversi in un vortice di grafite grigia, diventare lastre di ardesia, intere tele sfumate tutte su strati di un unico colore-non-colore, dove gli oggetti non hanno più forme: tutto è acqua, tutto è molo, tutto è barca, tutto è vela. Tutto, dolce malinconia.
Li ho visti, ancora e ancora, infuocarsi di rosso, di mattone e di ruggini, ardere pur rimanendo di ghiaccio, immersi in un'acqua che finalmente si liquefa, e subito sprofonda, luminosa. E, infine, proprio ieri li ho visti riapparire in mille sfumature di azzurri, lungo un bagnasciuga friabile; ho visto barche levitare su sabbie violacee, ho visto cieli indaco e ho sentito il calore emanare dalla tavolozza dei freddi. Ho voluto essere lì dentro, ho desiderato essere, anch'io, barca sotto la luna. Magari fosse per sempre, se il suo nome è monotonia!

"Meglio un quadro da diecimila che dieci da mille" è una delle tante, giuste regole dell'investimento per il futuro. Delle scelte oculate, da lasciare ai figli, ai nipoti. Quelle che ti permettono di essere ricordato, in famiglia, come uno che aveva saputo prevedere e capire, e magari ti fanno guadagnare un sommesso ringraziamento, dopo i fiori freschi di Novembre. Ma esiste anche un'altra regola, una regola folle, senza fiori, senza nipoti; una regola che è investimento per il presente, che è solo intuito, perchè il presente è solo tuo: "Anch'io, barca sotto la luna", adesso.