"L'aspetto
delle cose varia secondo le emozioni;
e
così noi vediamo magia e bellezza in loro,
ma,
in realtà, magia e bellezza sono in noi"
Kahlil
Gibran
Ci
sono cose, nella vita, che non stancano mai.
Cibi.
Visi. Percorsi. Gesti quotidiani. Li hai fatti migliaia di volte, e
già sai che per milioni di volte li rifarai, provando ogni volta
quel sottile piacere, quel senso di appagamento così conosciuto,
eppure ogni volta così nuovo e fresco.
La
sigaretta dopo il caffè. Il profumo del caffè. La nutella sul pane.
Il
mare, d'inverno. Le lenzuola, d'estate. Le montagne, sempre. Alcune
di queste sono universali; poi, ciascuno conosce molto bene le
proprie (quella della nutella sul pane, ad esempio). Per me, crema di
nocciole a parte, tutto ciò ha da anni un nome e un cognome:
Marcello Scuffi, pittore.
Di
Marcello, di lui come persona, di parlare di lui, di scrivere di lui,
dei suoi dipinti, di toccarli, sfiorarli, ammirarli, io non mi
stancherò mai. L'ho già fatto e so già che continuerò a farlo, a
volte ripetendo alcuni concetti, altre volte trovandone di nuovi, ma
sempre e comunque felice e appagata.
Come
collezionista sono un vero disastro, non ragiono, non rifletto,
agisco sempre e solo d'istinto: quell'istinto che, quando mi trovo in
mezzo ai quadri di Marcello, fa sì che me ne torni a casa con un
nuovo chiodo da occupare. Ogni volta, alla faccia della
diversificazione. O alla faccia della regola basilare non scritta:
"Meglio un quadro da diecimila che dieci da mille". Però
la colpa è sua, mica mia. Migliora negli anni, come il vino buono,
toscanaccio. Ogni volta che ritengo abbia definitivamente raggiunto
il suo culmine, lui sorprende e lo supera.
Sorprende
per quella sorta di pervicace coraggio con cui da oltre quarant'anni
si dedica esclusivamente alla pittura, e pittura di
figurazione per di più. Non si lascia inquadrare, non si lascia
travolgere, non ha mai imboccato nè mai imboccherà l'autostrada a
cento corsie, tutte a pedaggio, degli innumerevoli "ismi"
degli anni Settanta, Ottanta, Novanta e oltre. Niente pop, niente op,
niente body, o land. Ma nemmeno concettuale, o gestuale, o informale:
pervicace e fedele a un modello, a una tradizione. Mentre c'è chi
accende neon o mortifica animali di ogni specie, lui ritrae case
solitarie, ama immobili orizzonti, vive di mare.
Sorprende
e supera tecnicamente, con quelle tele grezze, testimonianze di
viaggi lontani, di sudore, di sole e lavoro, che ricopre di una nuova
vita, fatta di colle e di gessi, una vita così bianca e così liscia
da non crederci. Una vita da toccare, con i polpastrelli,
delicatamente; io l'ho fatto, ho toccato ad occhi chiusi le sue tele
ancora vuote, ferme in piedi, in gruppo, negli angoli più reconditi
del suo studio, allineate in attesa della materia.
Va
fatto, con certi pittori, con quelli bravi quanto meno, per i quali
non vi è distinzione tra l'importanza del cosa dipingono e
quella del come dipingono, perchè il supporto è parte
fondamentale del soggetto. Quante gradazioni può avere il liscio?
Quanto calore può sprigionare il puro bianco? Una sinestesia di
emozioni, che culmina allorquando il colore, abbondante, pieno, viene
poi spalmato via, strisciato, graffiato, quasi trascinato, un
tutt'uno con la superficie sottostante, e prende forma, una forma
ferma: barche immote, piani orizzontali a rincorrersi uno sull'altro
fino al mare, oppure costruzioni geometriche, rigorosamente
squadrate, cupe, con improvvise e profonde aperture scure. Teli
pesanti, che celano mondi misteriosi, o reti impalpabili e
trasparenti, leggere come ragnatele madide di rugiada. Vecchi vagoni,
abbandonati nei depositi, con le ruote crocifisse ad un binario
zoppo: le estremità bloccate per l'eternità, e il cuore libero di
far volare con la fantasia chi, ancora, di nascosto li accarezza e
sussurrando sogna. Pali ritti al cielo come lance aguzze, come una
mano aperta, a incrociare una scia luminosa, una pennellata sola,
decisa. Ed è tutto così fermo nel tempo, così immobile da
trattenere il fiato, per non increspare la linea perfetta dell'acqua:
che sia essa darsena chiusa o mare infinito, riflette
ininterrottamente come specchio, purissima nella sua solidità.
Ovunque,
si scoprono minuscoli anfratti come capocchie di spillo, crettature
volute, piccolissimi graffi alla ricerca di un sapore antico. Una
realtà parallela, una consistenza solo sua, di pittore che vuole
sentirsi appellare come realista e mai come metafisico, lo ribadisce
spesso, corrucciato: "Dipingo solo ciò che vedo".
Si
nasconde, Scuffi, dalla pittura metafisica, che pure lo insegue,
lentamente agli esordi, e poi via via prepotentemente, per farlo
andare oltre, per trasportare - lui e chi lo guarda - in
un'altra dimensione, e ci riesce solamente a metà. Lui le resiste.
Non metafisico, allora: niente enigmi mitologici, niente statue e
manichini, una prospettiva regolare e vera. Ma nemmeno realismo,
nemmeno! C'è troppa magia per definirlo tale, troppo incanto, troppa
eternità in quei soggetti reali ed evocativi di un mondo umile.
Fabbriche vuote e barche addormentate: eterno realismo scuffiano.
Sorprende
noi, e supera se stesso: c'è sempre più anima negli oli di Marcello
Scuffi, un'anima che risale in superficie come una bolla carsica da
tempi lontani, che richiama nomi importanti: Masaccio, Piero della
Francesca, Carrà, Sironi, de Chirico. Richiama e risale, certamente,
perchè c'è un'innegabile origine comune, un'unica visione di certi
luoghi, di tempi, di forme, luci ed ombre; tuttavia Marcello Scuffi
ha saputo farla propria, quella bolla d'anima, ed arricchirla.
Il
matrimonio si è consumato da tempo, direi: Scuffi ormai non si rifà
più ai grandi del passato. Scuffi ormai è. Piero in Scuffi,
Carrà in Scuffi, Sironi in Scuffi: come una coppia rodata, che ha
trascorso insieme più di quanto poteva immaginare e sperare nel
lontano momento in cui è stato pronunciato il "sì".
"Così
che non sono più due, ma una carne sola" (Mt. 19,6): una cosa
sola, un'anima sola, quaranta estati e quaranta inverni, con il
tramonto dal terrazzo, con la Gorgona che appare e scompare alla
vista, con la sabbia e il vento, ed è bellissimo così. Il
matrimonio tra Lia e Marcello è molto affollato, davvero! Forse dire
"Lia Mantellassi in Scuffi" è più naturale che dire
"Piero della Francesca in Scuffi"? Sono scelte per la vita,
fatte e rispettate! Lia ha lo sguardo paziente di chi sa, e capisce;
comprende che, sposando Marcello, ha accettato questa inusuale
convivenza d'anime ispiratrici.
Come
ogni artista dotato d'anima vera, anche Marcello Scuffi ha i suoi
detrattori. E' giusto, guai ai tiepidi! Meglio amore e odio, sempre
in coppia: entrambi nutrono, generano, stimolano al miglioramento. La
critica più ricorrente che gli viene mossa è la monotonia dei
soggetti, dimenticando tuttavia che il Novecento ci ha fatto toccare
con mano l'immensità in un soggetto ricorrente, contemplando il
rigore del vetro nelle nature morte di Giorgio Morandi.
Io
guardo i dipinti di Marcello Scuffi, e non ci vedo monotonia, mai: ho
visto quello stesso mare, quella sabbia, quel cemento, quei monti,
mutare, negli ultimi dieci anni, come mai avrei potuto immaginare. Ho
visto edifici sabbiosi lambiti da darsene blu, intense come pensieri
tristi, a sorreggere barche che non riuscivano a penetrare quelle
dense, drammatiche acque. Li ho rivisti, sempre loro, dissolversi in
un vortice di grafite grigia, diventare lastre di ardesia, intere
tele sfumate tutte su strati di un unico colore-non-colore, dove gli
oggetti non hanno più forme: tutto è acqua, tutto è molo, tutto è
barca, tutto è vela. Tutto, dolce malinconia.
Li
ho visti, ancora e ancora, infuocarsi di rosso, di mattone e di
ruggini, ardere pur rimanendo di ghiaccio, immersi in un'acqua che
finalmente si liquefa, e subito sprofonda, luminosa. E, infine,
proprio ieri li ho visti riapparire in mille sfumature di azzurri,
lungo un bagnasciuga friabile; ho visto barche levitare su sabbie
violacee, ho visto cieli indaco e ho sentito il calore emanare dalla
tavolozza dei freddi. Ho voluto essere lì dentro, ho desiderato
essere, anch'io, barca sotto la luna. Magari fosse per sempre, se il
suo nome è monotonia!
"Meglio
un quadro da diecimila che dieci da mille" è una delle tante,
giuste regole dell'investimento per il futuro. Delle scelte oculate,
da lasciare ai figli, ai nipoti. Quelle che ti permettono di essere
ricordato, in famiglia, come uno che aveva saputo prevedere e capire,
e magari ti fanno guadagnare un sommesso ringraziamento, dopo i fiori
freschi di Novembre. Ma esiste anche un'altra regola, una regola
folle, senza fiori, senza nipoti; una regola che è investimento per
il presente, che è solo intuito, perchè il presente è solo tuo:
"Anch'io, barca sotto la luna", adesso.
Quale meravigliosa poesia e palese magia hai sviscerato nell'unicità del tuo sentimento! Io lo vedo ancora coperto di vernice caseosa , descritto in ogni suo dettaglio eppure sembra sempre così nuovo...ancora in fasce. Non potevo tornare senza venire ad ascoltare giusto tre cose.... a leggere le cascate di parole tutte fondamentali che riversi nei tuoi post.Sono subito approdata in questo mare, Vedo anche, però ,che la vita trattiene il flusso del tuo sentire lontano da qui. A presto.... aggiungo solo che ho guardato minuziosamente i quadri di cui parli pur non avendoli mai visti .
RispondiEliminaCarissima Gizeta, grazie delle tue parole. Mi trovo dopo una strana estate a moderare commenti lasciati molti mesi fa, e il tuo mi entra sotto la pelle, lieve come rugiada del mattino. Credo ancora in questa comunione: poter vedere con occhi altrui, quando la passione trabocca... Se la vita vorrà, avremo altri momenti.
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