Villa Manin è già uno spettacolo di suo. A porte chiuse, intendo.
Si erge linda, lineare, armonica e avvolgente nel nulla più assoluto della campagna friulana; bella d'inverno, quando ti spunta all'improvviso dalla nebbia come una chiesa, levitando leggermente sulla bruma, illuminata di luce propria. Ancor più bella, e diversa, d'estate, mentre ti chiama dalla calura al delicato refrigerio dei suoi lunghi porticati, in un abbraccio salvifico di verdi e di grigi. Magari il turista straniero, abituato com'è a girare su e giù per l'Europa con il treno, gradirebbe che ci fosse un collegamento pubblico su ruote, anche uno solo al giorno, da una qualunque Stazione al citato Nulla, e rimane deluso al cercarla avanti e indietro per il centro di Codroipo prima di decidersi a fare l'autostop. Ma ne vale comunque la pena, e poi è un problema che noi veneti non abbiamo, visto che in un'oretta l'automobile ti ci porta proprio davanti, e se riesci ad astrarti dagli enormi palchi per concerti che spesso si ergono, nel periodo estivo, tra l'Esedra di Levante e quella di Ponente, hai un colpo d'occhio da portarti dentro per qualche settimana.
Sede di Mostre imprevedibili, Villa Manin. Mi è capitato di andarci, tempo fa, per qualcosa che riguardava Monet e altri impressionisti: giusto il tempo di contare a spanne le trecento persone che componevano la coda, sospirare, fare retromarcia e tornare a casa. E sì che cerco sempre di fare le classiche partenze intelligenti, per le Mostre, tipo anonimi giorni feriali alle tre di pomeriggio. Oppure, al contrario, rischiare improbabili sabati estivi col fiato sospeso, e godersi a sorpresa un intero percorso in solitario tête-à-tête con la più importante antologica istituzionale di Giorgio Celiberti realizzata, a mia memoria, negli ultimi anni.
Incredibile Celiberti. Ci trovi qualcosa degli anni precedenti all'illuminazione di Terezin: pittura del suo tempo, colore, maestria; bravo di certo, ma niente a che vedere con quello che successe poi. Quando lo strappo al cuore, il dilaniarsi dell'anima, mani su mani nella sofferenza, occhi sulla storia e sul dolore, aprirono una stagione unica che continua, ininterrotta, da quasi cinquant'anni.
So già che, prima o poi, qualcosa di Celiberti entrerà a casa mia. Ne sono sicura, e non ho neanche la fretta o la smania di cercare, perchè sarà una scelta reciproca quando le nostre strade si incroceranno; del resto, con le opere d'arte succede, a volte, come con le persone: trovi quella speciale e lo senti.
Quello che non so, ma non ha importanza perchè - in fondo - rende l'attesa ancora più sognante e gustosa, è cosa sarà esattamente, perchè di Celiberti mi piace quasi tutto. Lui è artista nel senso più profondo che io, personalmente, do alla parola: sperimenta in continuazione, cambia supporto, tecnica, materia. Me lo immagino davanti a polveri, colori, pennelli, tele, cementi, metalli, come un bulimico davanti ad un frigo aperto e ricolmo. Mi piace cosa fa e mi piace il suo percorso (verso la qualità estrema, visto che le opere degli ultimi anni sono incredibilmente belle). E poi ama i gatti, proprio come me.
Conoscevo già i suoi affreschi, e come è normale ho le mie preferenze, le mie affinità elettive: mai troppo sgargianti, perchè un po' mi spaventano quelle grida di blu e di rosso insieme. Li adoro soffusi, quasi monocolori (grigio su grigio, bianco su bianco, nero su nero, al limite con un velo di tramonto arancio-rosa), graffiati a fondo nelle zone più dense di materia, come quando, sotto un cielo d'inverno terso da far male agli occhi, ti trovi davanti una superficie di neve appena caduta e ancora intonsa. Vaporosa, perfetta nel suo essere fatta di nulla e di ghiaccio, spumosa alla vista e croccante al tatto: è un invito a toglierti i guanti - separandoti solo per un attimo dal loro ancestrale calore, come di ventre materno - ed affondare le mani aperte, la pelle nuda in quel mare di densa sofficità. Le ritiri subito, mentre già pungono, e lasci al sole un'impronta stellata, nitida ma non troppo, tridimensionale nel vuoto, azzurrina nel bianco che la circonda. I suoi affreschi sono strati su strati di lacrime e polvere, con simboli e scritture ora affioranti ora nascosti, ampi gesti o minuscoli scavi, e in ogni caso mi affascinano sempre.
Ho rivisto i suoi muri, ricordi di viaggi lontani e di culture diverse, ciottolo su ciottolo, segno su segno, e le sue terracotte scure, appena spruzzate di bianco e d'argento.
Ma c'era una stanza, una sola, che aspettava il mio profondo stupore. Il respiro che si ferma, per una manciata di secondi. La voglia di stabilire un contatto fisico, il bisogno di sentire il tocco dell'epidermide, che si scontra con il timore reverenziale di avvicinarsi, di rompere la perfezione dell'ambiente, di sporcarlo con un'ombra. Una parte di te è attirata, una parte si blocca tra il tic-tac di due secondi e resta come sospesa. Una sala come tempio isolato, con un'oasi di cemento grigio, dal quale si ergono come monoliti senza tempo le Stele di alluminio.
Tante, immote e immobili, eterne. Lisce, graffiate, ricoperte di scritte e geroglifici, alcune comprensibili a tutti, altre solo a pochi eletti che sanno usare il linguaggio dei simboli. Uniche. Universali. Alcune alte e possenti. Altre piccole e nascoste, ma mai fragili. Forse fredde, ma mai gelide.
Una piccola digressione: mi piace, quando vado per Mostre, osservare non solo le opere direttamente oggetto dell'esposizione, ma anche l'ambientazione, l'illuminazione, tutto ciò che porta a rendere la Museologia una disciplina vera e propria, da studiare ed imparare. Il mio ricordo più forte è legato ad una visita, molti anni fa, al Museo Egizio di Torino, che se non ricordo male è, per numero e qualità dei reperti, secondo solo a quello del Cairo. Un appassionato di egittologia potrebbe passarci dentro degli anni; la sola sala del Libro dei Morti merita il viaggio: lo vedi srotolato lungo le pareti, e "senti" millenni di storia che ti ricadono addosso, addosso a te, piccolo grumo di ossa, muscoli e organicità di passaggio, per un soffio, sulla Terra. Ricordo che ero rimasta male per lo stridore del confronto tra l'immensità del COSA (i reperti, la loro unicità e perfezione, la loro vastità) e la pochezza del COME (il modo con cui venivano esposti: troppi, troppo accumulati, troppo polverosi, illuminati in modo asettico, una sensazione da ospedale). Ma c'era una sala, una unica sala, che era stata appena allestita dal "nostro" scenografo hollywoodiano Dante Ferretti. Sei/sette pezzi e non di più, ma con la penombra giusta, la giusta distanza tra loro - giusta per i loro bisbigli eterni, giusta per i nostri passeggeri silenzi - e uno studio voluto dei materiali e dei colori sia dei reperti (legno scuro, oro, tanta pietra) che della sala stessa. Una sala, un Museo.
La stanza delle Stele di Celiberti, regno quadrato di torri metalliche in penombra, mi ha richiamato la stessa passata emozione. Ho fatto anche una cosa che non andrebbe fatta. Abbassando gli occhi sul mare di grigio cemento da cui sorgevano, ho scoperto piccole increspature, impronte di mani, di dita. Piccole mani e piccole dita, perchè la Mostra è pensata - finalmente qualcuno ci pensa! - anche per i bambini, per i loro occhi, per il loro modo di capire. Del resto, non sono state le piccole mani e le piccole dita di Terezin la sorgente di tutto questo? Non è allora come un cerchio che si chiude?
Per farla breve, ho scoperto che quel mare di cemento era in realtà qualcosa che ricordava la sabbia. Sabbia grigia, granulosa e pungente. Come nei mini-giardini zen, con il mini-rastrello che traccia segni misteriosi per placarti la mente. Avevo ai piedi delle sottilissime infradito, e sfilarne una per lasciare la MIA impronta tra le Stele è stato un attimo. Mi sono anche beccata una vigorosa tirata d'orecchi dalla mia inscindibile metà ("hai rovinato un'opera d'arte!"), che io ho subito rintuzzato spiegando che, a mio parere, era esattamente il contrario: un invito all'interattività, al muto e continuo dialogo con l'artista, da un lato le sue Stele immobili ed immutabili, dall'altro le tracce del nostro passaggio, che possono essere cancellate, sovrapposte da quelle di chi ci seguirà. Lui uno, noi molti, ma con lo stesso messaggio. Ci ho anche aggiunto un inciso sui diversi piani ottici: la verticalità delle Stele dell'artista, che spuntano da un punto preciso e si innalzano verso l'infinito, e l'orizzontalità della sabbia di noi tutti che assistiamo a questa crescita, sabbia senza un inizio, ma limitata dallo spazio quadrato dell'oasi. Insomma, ero lanciatissima, Dario Olivi sarebbe stato fiero di me. Meglio, comunque, che non ci fossero solerti guardiani in agguato (per il mio piede sulla sabbia, e per il reportage fotografico che i miei avventurosi compagni d'arte tanto critici nei confronti del mio gesto azzardato si sono portati a casa, che non è meno proibito del profanare un tempio con un'impronta!). Niente vigili guardiani quando torno - per un momento eterno, negli occhi e nel cuore - bambina sulla riva di un mare infinito.
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