E' probabile che io rischi di ripetermi.
Anzi, direi proprio che mi ripeterò. E vuol dire che va bene così.
Trecose galoppa a briglia sciolta da quasi tre anni, ormai, e per quanto io sia cambiata DENTRO, per un insieme di motivi, non sono mai andata a correggere, ritoccare o spostare i miei post passati (ma tu guarda l'accostamento: "post passati", così ossimorico...) perchè da un lato raccontano com'ero e, in fondo - sulle cose importanti - come sono tuttora, e dall'altro perchè sono testimoni di un'evoluzione, di una maturazione, che mi ha portato fino a qui - con le scelte che ho fatto e con quelle che farò - e modificarli mi sembrerebbe come se smontassi i pioli di una scala: bloccherei tutto, senza possibilità di salire nè di scendere. Tuttavia io ricordo ogni parola dei miei post, perchè ogni parola è stata (soprattutto il primo anno) singola goccia di emozione, di vita, di gioia, di rabbia, travasata e condivisa qui dentro; mi capita, scrivendo, di dire a me stessa "ah, no, questo l'hai già scritto nel post Tale, cancella altrimenti ti ripeti", dando per scontato che anche chi mi legge si ricordi esattamente virgola per virgola le mie frasi (prendetelo come un gesto di carineria nei confronti dei lettori, giusto per non annoiarli, anche se sicuramente pecco di immodestia presumendo che chiunque passi di qui si tatui col sangue ogni lettera che esce dalla mia tastiera...).
Oggi non lo farò! Ripeterò cose già dette, perchè ho provato emozioni già provate, e tutto sommato non importa: non c'è scritto in alcun Vangelo che bisogna per forza essere costantemente nuovi ed originali; un pochino di crogiolamento in qualche cosa che ci faccia stare bene, ogni tanto, ce lo meritiamo.
Ho partecipato ad un corso di formazione professionale dei nostri a Bologna, interessantissimo, e a tal proposito saluto Patty che mi ha promesso che verrà a leggermi - de vez en cuando - scusandomi se finora ho sempre parlato di assicurazioni utilizzando la parola "spendere" (del resto, il corso l'ho fatto solo adesso), mi applicherò affinchè la cosa non si ripeta. Ho scoperto quanto intrigante sia la psicologia economica, mi affascina, davvero. Ho appreso dell'esistenza di quel geniaccio birbante di Daniel Kahneman. Ho definitivamente capito che il mio domani sarà fuori dal Veneto, mi piacciono troppo i toscani (mica avevo optato per Bologna a caso, come sede del corso, è che lì sapevo ci sarebbe stato un crogiolo di "abitanti del Centro" con cui confrontarmi), sanno prendere il lavoro, le discussioni, le scelte, la VITA insomma sempre in un modo che mi fa impazzire: seriamente, adagio molto, allegro con brio. Ti ci siedi davanti e ti fa tanto Beethoven (adesso devo solo capire come e quando).
Però, ritornata a casa con il mio nuovo bagaglio di conoscenza e curiosità, ho trovato mio marito con il musetto lungo, perchè non è che ci piaccia tanto stare separati, anche se è per annusare l'aria e pianificare un futuro sinfonico. Ci siamo presi un pomeriggio da passare insieme, non casualmente a Padova perchè sapevamo che a Palazzo Zabarella aveva aperto i battenti la Mostra di Vittorio Corcos.
Ed ecco dove mi ripeto: parola per parola, il mio post "Parentesi" di sedici mesi fa (con preghiera di rilettura: http://trecose.blogspot.it/2013/05/parentesi.html).
Avevamo già visto a Palazzo Zabarella, in quel percorso espositivo eccezionale, circolare, illuminato al punto giusto, Boldini prima e De Nittis poi. Anche su questa cosa del come esporre opere d'arte avevo già scritto in occasione del mio post su Giorgio Celiberti (altra preghierina: http://trecose.blogspot.it/2013/07/ai-piedi-di-giorgio-celiberti.html), ma già che oggi sono in fase di ripetizione in effetti mi sento di ribadire che le Mostre della Fondazione Bano hanno una marcia in più, e sì che ne ho viste in giro per l'Italia (a Palazzo Reale a Milano, soprattutto, e ci tornerò ben presto che Chagall mi aspetta). E non parlo della scelta delle opere in sè, parlo di come le posizionano, di come ci mettono attorno i faretti, del percorso non "squadrato" (il classico stanza-dopo-stanza-dopo-stanza) che fa sì che tu ti possa trovare davanti, improvvisamente, uno spazio ampio inaspettato, oppure un semi-corridoio, o un piccolo budoir. E ogni luogo racchiude l'opera giusta, per dimensioni, sguardi, sensazioni.
Avevamo già visto a Palazzo Zabarella, in quel percorso espositivo eccezionale, circolare, illuminato al punto giusto, Boldini prima e De Nittis poi. Anche su questa cosa del come esporre opere d'arte avevo già scritto in occasione del mio post su Giorgio Celiberti (altra preghierina: http://trecose.blogspot.it/2013/07/ai-piedi-di-giorgio-celiberti.html), ma già che oggi sono in fase di ripetizione in effetti mi sento di ribadire che le Mostre della Fondazione Bano hanno una marcia in più, e sì che ne ho viste in giro per l'Italia (a Palazzo Reale a Milano, soprattutto, e ci tornerò ben presto che Chagall mi aspetta). E non parlo della scelta delle opere in sè, parlo di come le posizionano, di come ci mettono attorno i faretti, del percorso non "squadrato" (il classico stanza-dopo-stanza-dopo-stanza) che fa sì che tu ti possa trovare davanti, improvvisamente, uno spazio ampio inaspettato, oppure un semi-corridoio, o un piccolo budoir. E ogni luogo racchiude l'opera giusta, per dimensioni, sguardi, sensazioni.
Comunque dopo Boldini e De Nittis non potevamo lasciare incompiuto il percorso dei grandi ritrattisti (ah, il famoso Museo del Ritratto! Era una chimera nel post precedente, e ora già possiamo cominciare a dargli forma...), e ci siamo gustati il Grande Livornese dal primo all'ultimo sorso.
Non voglio parlare e non parlerò di Corcos in sè, dei suoi ritratti, dei suoi sguardi, della luce che esce dai particolari delle sue tele, delle sue minuzie esagerate e dei suoi sfumati contorni. Del fatto di quanto lui fosse "oltre", visto che già il suo contemporaneo Ojetti, nell'anno in cui Corcos muore, di lui scrive che "dipinge donne e uomini come desiderano d'essere, non come sono" (eppure i ritratti sono fedeli, la fotografia già esisteva all'epoca, e i personaggi famosi - le cui fotografie sono giunte ai giorni nostri - sono davvero con quei volti, con quelle pose); ma bastava, ritengo, un po' di sfrontatezza in più nel sopracciglio, oppure un po' di rossore su una guancia, la bocca lievemente più socchiusa del normale, per trasmettere qualcosa di DIVERSO, che oltrepassasse la rigidità dello schema sociale, che facesse immaginare cosa la gentildonna o il nobiluomo avrebbero voluto fare mentre si guardavano, e non quanto poi, nella realtà, fosse loro permesso. Non voglio parlare di quanto strano ho trovato che nelle cartoline, negli opuscoli, nei poster, nei puzzle del Bookshop abbondassero le riproduzioni delle sue dame meravigliose, le pelli bianco latte e i capelli raccolti, quando in realtà i ritratti più straordinari erano - a mio giudizio - quelli dei personaggi maschili: barbe, baffi, panciotti, monocoli, mani con unghie traslucide e perfette, visi che trasudavano prestigio, potere, carisma (ma si sa, le donne sono più gradevoli se riprodotte su puzzle). Non parlerò (non troppo, almeno) di quanto mi abbia impressionato leggere come lui incominciasse - nei dipinti - sempre dagli occhi, giacchè se gli venivano bene quelli, era praticamente a metà dell'opera: gli occhi come cardine di un dipinto, quand'anche riproducesse, finito, una figura intera. Gli occhi come fulcro dell'intero quadro, come punto magnetico da cui è impossibile staccarsi, come canale di comunicazione privilegiato, anche nel silenzio, tra chi parla e chi ascolta, tra chi guarda e chi è guardato; esattamente, quindi, come la vedo io, che agli occhi do un'importanza al limite del maniacale, ci passa una vita intera, ci metto - nei miei - tutta la mia essenza.
Insomma, già non sono titolata per niente quando mi azzardo a parlare di contemporanei viventi, figuriamoci se ardisco farlo su pittori della nostra tradizione, sui quali fior di critici, curatori di musei, esperti di ogni tipo si sono - nel tempo - espressi.
Vorrei parlare d'altro. Vorrei parlare (ancora!) del nodo alla gola, piccolo, sottovoce, che mi prende quando entro nell'Ottocento, sul finale. In una pittura senza esperimenti, che aveva uno e un solo linguaggio. Che parlava di lunghi viali ombreggiati, di mani guantate, di libri poggiati sulle panchine. Sono nata nel secolo sbagliato, lo so e me lo dico ogni volta che mi immergo in quei quadri, è sbagliata la mia seconda cifra, al limite vanno bene le ultime due. Ammetto che mi dispiacerebbe perdere le conquiste scientifiche degli ultimi cinquanta, sessant'anni (in medicina, principalmente, ma anche dal punto di vista tecnico, ora abbiamo indubbiamente delle gran belle comodità), ma probabilmente accetterei comunque lo scambio. Ovvio, e va detto senza ipocrisie, presupponendo di essere benestante, molto benestante, istintivamente ci immaginiamo sempre parte della fetta di popolazione che sta bene (uno scambio temporale per finire a fare la lavandaia, ecco, magari lo eviterei).
Parigi, la Belle Epoque... quando tutto cominciava e tutto doveva ancora cominciare, quando c'erano ancora valori importanti, sogni da inseguire, regole da rispettare. Quando il tempo correva veloce, ma non scappava via. Con stile, con eleganza, con intelligenza. Le donne volevano essere ammirate ed apprezzate, ma senza bruciare il reggiseno (o il corsetto che fosse), perchè non era certo quello che le poteva emancipare di più o di meno, e nel segreto delle case le decisioni importanti si prendevano comunque sempre in due (almeno, a casa dei miei bisnonni si vocifera fosse così). E anche se c'era già la fotografia, era ancora un gesto vitale regalare un ritratto fatto da un pittore che ti cogliesse l'anima passando per gli occhi. Un gesto d'amore, che mi piacerebbe ancora adesso, in questo iper-contemporaneo che non fa più nemmeno le foto, di normali, elabora e modifica pure quelle; un quadro fatto a pennello e olio, dal vivo o a memoria, o copiando una fotografia, ma che sappia di tempo passato a guardare, a pensare. Un dono che presuppone l'attesa (perchè, poi, io sempre lì torno), il gusto e la poesia profonda dell'attesa, e che non venga bruciato in un nanosecondo una volta ricevuto per passare ad altro, per rincorrere il DOPO. E che, tra cent'anni, testimoni ancora cosa cela il lampo di uno sguardo con la stessa potenza, la stessa malizia, la stessa trasparenza di oggi.