Domenica mattina, sono a casa da sola; sono un po' triste, un po' arrabbiata, un po' demoralizzata, un po' fusa, forse. E direi in parti uguali. Ho la febbre, ho la tosse e la voce mi ha salutato da almeno un paio di giorni, nonostante mi sia scolata un intero vasetto di miele che mi ha fatto sentire tanto Mamma Orsa.
Niente sta andando come pensavo andasse, a parte la settimana lavorativa, ovviamente, quella sì, eccome. Siamo stati bloccati per tre giorni, bloccati da questa fastidiosa migrazione di dati che si è comportata esattamente come sapevo avrebbe fatto: scartando nomi, numeri di telefono, anagrafiche, un bel minestrone (o spezzatino, per chi gradisce il proteico) di ciò che erano i nostri spettacolari archivi informatici. Lunedì ho aperto il computer e poi ho chiuso gli occhi, tanto già immaginavamo. Con i pacchettini delle Condizioni contrattuali delle nuove Polizze che devo/posso vendere ora (così, da un giorno all'altro, azzerato d'un colpo tutto lo scibile precedente) ancora chiusi nei loro scatoloni, tanto è inutile studiarli finchè non sai come far funzionare questi programmi del cavolo. Ci sarà tanto, tantissimo, da fare e da lavorare, ed è frustrante per chi fa il mio lavoro rispondere a chi ti chiede un preventivo "si accomodi, ma mi raccomando tenga conto che dovrà farci compagnia per i prossimi quaranta minuti" (variante pietosa, solo ed esclusivamente per la R.C. Auto) oppure "mi dispiace, non sarò in grado di darle una risposta per i prossimi sette-otto giorni" (variante onesta, per qualunque altra tipologia di Polizza). Figuriamoci, in questi tempi da tutto-e-subito. Uno ringrazia, esce, e si dirige subito dall'assicuratore della porta a fianco sbellicandosi dalle risate, alla faccia nostra, del nostro cazzutissimo Direttore Generale, e del suo mantra "vi abbiamo comprato noi e quindi fate quello che vogliamo noi". Insomma, ho cominciato a vedere una flebile luce in fondo al tunnel (un tunnel che si preannuncia molto, molto lungo, diciamo almeno quattro mesi per rientrare a regime completamente in quanto a professionalità, serietà e conoscenza della materia) più o meno verso giovedì pomeriggio, ma a quel punto la febbre aveva già ampiamente sforato i 38: capita, quando sei sotto pressione dodici ore filate con in pancia solo un panino, ogni giorno, per un'intera settimana. E non ti puoi lasciar andare neanche per mezzo minuto, perchè altrimenti le impiegate si demoralizzano più di te. Grosso rischio per l'impresa, l'impiegato demoralizzato.
Morale: aspettavo questo weekend da un pezzo, e sono bloccata qua a casa con un nervoso addosso da far paura. Da sola, per giunta, perchè non potevo pretendere che il mio ormai famoso "inseparabile scudiero" rimanesse a fissarmi nel mio mutismo.
Nell'ordine: ieri, niente serata Orler, questo imponente omaggio a "The Responsive Eye" che rappresentava, per me (che non sono propriamente un'amante dell'arte programmata, nonostante la mia cospicua serie di vestitini e camicette optical), al di là dell'esposizione, l'occasione di rivedere e salutare tanti amici da tutta Italia, e magari conoscere qualche nuovo volto, di quelli di cui conosci solo il nome o la penna, sparsi per i Forum o i Blog su e giù per lo Stivale.
Questa mattina, niente ArtePadova, la "mia" Fiera, quella in cui gioco in casa perchè ci vado con tutta la comitiva di aficionados, che mi hanno riferito essere anche quest'anno giocosa, effervescente, nel suo piccolo sempre calamita per buongustai locali. Di certo il mega-collezionista che timbra il cartellino a Basilea ride di tenerezza davanti alle mie esternazioni, ma io faccio parte di un mondo diverso, preferisco ancora scambiare due occhiate d'intesa con chi si emoziona davanti alle fiabe innevate di Tino Stefanoni. E a giudicare dal numero di fiabe esposte, mi sa che qui siamo in molti, noi provincialotti emotivi.
Se per domani non guarisco mi va per traverso lo sciroppo, giuro; spero che tutte queste rinunce servano a qualcosa. Anche non aver visto dal vivo lo Stand di Arte San Lorenzo, dove speravo di beccare Annamaria Brizzi, per poterla finalmente conoscere di persona, e invece niente.
Last but not least, niente stretta di mano a Dario Olivi, visto che una capatina pre-ArtePadova era irrinunciabile, e già avevo l'acquolina in bocca al solo pensiero di un'intera parete da nove metri con una sorta di antologica (per forme, colori e significati) di quel meraviglioso artista qual è Cesare Berlingeri.
Questa a dire il vero è stata solo una mezza rinuncia, perchè mi sono guardata tutto lo Speciale dal divano, anche se non è propriamente la stessa cosa. E poi, tutto sommato, son qua che scrivo, quando non più di due settimane fa avevo sbandierato che mi sarei dovuta prendere una pausa, prima cioè che l'influenza mi regalasse tutto questo bel tempo gratis, un intero weekend di dolce-far-niente inaspettato. Sta a vedere che se aspetto un altro pochino finisce che la devo pure ringraziare.
Visto che in effetti la testa mi gira più del previsto, cercherò di essere breve e di fissarmi un concetto, uno solo, di tutto ciò che mi è passato per la mente durante le tre ore di Dario.
E sì che ho pensato parecchio, a bocca chiusa.
Pensato a Cesare Berlingeri, che avevo incontrato personalmente tre anni e mezzo fa, e a quanto mi aveva colpito come persona per la sua cultura e la sua profonda sensibilità - tipiche, queste, di molti artisti che nel tempo ho conosciuto - unite però ad una incredibile umiltà, cosa, invece, non molto comune tra coloro che vivono d'arte. Artisti e addetti ai lavori. La maggior parte degli artisti con cui, negli anni, sono venuta a contatto tende a sentirsi uno o più gradini sopra gli altri, siano questi "altri" i loro colleghi (tutti, indifferentemente! E' raro sentire un pittore dire di un suo contemporaneo vivente: "Quello si merita tutto il successo che ha, perchè è davvero un genio"), piuttosto che la gente comune. Si sentono diversi, si sentono "speciali", e per molti aspetti è vero e sacrosanto (il talento eleva dalla massa, è indubbio), ma se sei un talentuoso pittore con l'intelligenza di un tubero, e non vedi al di là del tuo naso, non puoi venire a fare il gradasso con me, che sono e resto più sveglia di te nonostante sia una frana con i colori e le tele. Anzi, manco ci provo, conosco i miei limiti, come tu dovresti conoscere i tuoi.
Ho colloquiato con Cesare Berlingeri in tre diverse occasioni da allora, e tutte e tre le volte mi ha fatto la stessa impressione: un uomo piccino nell'aspetto, con dentro l'immensità. E poi ama raccontarsi, ama condividere, ama metterti a parte del suo percorso, che per un collezionista è una delle emozioni più belle, visto che quando ti appendi in casa un'opera non appendi solo un pezzo di pittura, ma anche un pezzo di pittore. La sua vita, le sue parole, i suoi gesti. Tanta gestualità nei lavori di Berlingeri, gestualità forte, difficile, una pittura che si fa quasi scultura in quel lavorare a tutto tondo, in tre dimensioni, quando la tela dipinta è solo un primo passo verso l'opera finita, perchè poi deve accartocciarsi, ripiegarsi su se stessa ancora e ancora, per celare al suo interno (e per far ciò a volte è necessario schiacciarla, montarle sopra, con fatica) un messaggio arcano, antico quanto il mondo, il segreto stesso dell'anima del pittore.
Per chi - mosso a pietà dal mio stato influenzale - volesse fare una piccola pausa rileggendo uno dei miei vecchi post su Cesare Berlingeri metto qui il link, perchè anche se sono passati un paio d'anni i miei ricordi sono talmente vividi che potrei riscrivere tutto parola per parola:
Ma torniamo ad oggi, e alla parete di nove metri di Dario. O meglio, di Giuseppe Orler, perchè ho appreso in diretta averla voluta lui, fortemente. Il colpo d'occhio non era come mi aspettavo, perchè era TROPPA ROBA. Quando siamo ad un livello concettuale così alto, in cui ogni sfumatura di colore ha il suo significato, ogni minima forma (dalla piega al cartoccio) ha uno specifico perchè, riempire un enorme muro con quaranta lavori tutti uno diverso dall'altro può far l'effetto contrario: è come un'indigestione. Bum, un colpo allo stomaco. Stramazzi, sei stordito, annaspi. Vorresti soffermarti su tutto, e conseguentemente non ti godi bene niente. Sei come il bambino nella pasticceria, o la signora alle svendite delle griffe: hai solo due occhi e due mani, e non bastano.
Allora (sarà stata la febbre) ho fatto due passi indietro, cercando ancora una volta l'aiuto in quel concetto di "condivisione", in quell'idea di "emozione comune" che per me sta alla base di tutto, e l'ho trovato; come sempre, l'arte non mi tradisce, mai.
E' stato un lampo improvviso, guardando quel muro bianco con appesa la vita di Berlingeri, come un rotolo sacro srotolato da sinistra (la piegatura gialla e luminosa dell'alba) a destra (la blu, della notte più cupa e vellutata), vedendo il mini-catalogo nelle mani di Dario stampato in occasione di questa grande, unica installazione. Ascoltando i filmati, con le parole di un Cesare quanto mai semplice e diretto che racconta la sua ispirazione tratta direttamente dalla natura (quale filo conduttore quanto mai impensabile, da un'ape al un blu oltremare!), e ringrazia chi dà ancora queste possibilità agli artisti, perchè quando spariranno le "committenze" (mecenati, mercanti, menti illuminate) sparirà negli artisti la voglia di sperimentare e andare "oltre". Quaranta opere, racchiuse sotto il baffo di Giuseppe Orler, magari un giorno glielo domando, se ci aveva pensato davvero fino in fondo o se è stato un caso, se sono io che mi immagino tutto.
Un muro intero, troppo per una persona sola; e allora smontiamolo, questo muro, pezzo per pezzo! Ecco la meravigliosa condivisione che ritorna, e un pochino mi turba, perchè anch'io ho tre meravigliosi lavori di Berlingeri a casa, ma me li sono scelti a suo tempo in Galleria, per mio conto, piluccando nei magazzini, senza che facessero parte di un unico progetto... e ora per qualche giorno li vedrò più tristi. Comprendetemi, non è la febbre! Ci sono trenta-quaranta persone (sarà per forza un numero esatto, alla fine, quando il muro sarà stato tutto smantellato) che possiederanno QUALCOSA che ha fatto parte di un TUTTO. Avranno inconsciamente condiviso un'idea comune, una storia, un pensiero. Potrebbero anche decidere di incontrarsi, tra qualche anno, come nelle foto delle famiglie numerose ai matrimoni. Come agli incontri di classe. Potrebbero posare tutti insieme con il mini-catalogo come guida, ognuno con la propria opera, e raccontarsi perchè a me ha colpito quella gialla e tonda come l'interno di una pesca matura, mentre tu hai fortemente voluto quella busta chiusa (e richiusa, e richiusa, e richiusa) in bianco e nero, piena di graffi scuri. Due antipodi, ma sempre e comunque parte di un'idea.
Una persona che fa parte del MIO, di "tutto", e che ho disturbato per l'occasione mentre lavorava giusto per raccontargli di questa cosa del muro di Cesare che mi stava emozionando parecchio, ha commentato con dolcezza che ho un cuore grande, a pensarla così. E che invece è molto più probabile che chi stava staccando via via i pezzi di vita di Berlingeri dal muro pensasse solamente ad un bell'investimento, o a quanto bene poteva accostare il tal pezzo ad altri tesori in casa propria, piuttosto che a formare uno sgangherato album dei ricordi. Può essere, ma finchè sarò sotto Aspirina preferisco pensarla a modo mio, questa installazione sotto i baffi Orler: tanti piccoli pezzetti di anima di Cesare Berlingeri, nelle case di altrettanti sconosciuti solo sulla carta, a formare un'unica alba ed un unico tramonto senza fine.
Essere collezionisti d'arte, in fondo, è avere sempre la febbre addosso.