Sono nata in una città dormitorio, alla fine degli anni Sessanta.
Una città grigia, con grappoli di condomini dalle forme sgraziate, cresciuti di fretta - ai miei occhi di bambina spuntavano magicamente in una sola notte - in maniera disarticolata, senza l'accenno di un piano regolatore. Una città senza alberi, senza prati, spesso pervasa dall'odore cattivo della chimica. Una città in cui crescere con giochi di cemento e asfalto. Una città sconosciuta, un nome-crocevia, buono solo da annunciare nella stazione dei treni come penultima fermata, una manciata di minuti prima dell'altra, sua bellissima sorella, città unica al mondo che le ha dato in prestito il nome, città immensa - questa sì - di ori e di bianchi abbaglianti, con una storia regale, meta vera dei viaggiatori, dove l'azzurro del cielo diventa liquido.
Una città, la mia, che ha cominciato a concepire i primi abbozzi di aree verdi quando io frequentavo ormai le scuole medie, invitando tutte le classi di bambini a disegnare spazi gioco ideali, futuri labirinti, altalene, parchi. Ho terminato l'Università mantenendo la segreta speranza che, da qualche parte, prima o poi il labirinto della Seconda C sarebbe stato realizzato. E ancora ricordavo bene il percorso esatto per arrivare alla torretta centrale e poi uscire (destra, destra, sinistra, destra...).
Una città che ancor oggi, seppur in gran parte ripulita ed abbellita, soffre zone di profondo degrado. Ma è la mia città, ed il cordone ombelicale è impossibile da recidere anche se te ne allontani. Per questo la mia anima è particolarmente legata a quella dei pittori che scelgono la città come soggetto delle proprie opere.
Perchè la città è difficile.
Perchè la città è cruda.
Perchè la città è monocromatica.
E comunque la guardi - con gli occhi bassi, posati sull'asfalto bollente nella calura estiva, o a volo d'uccello, sopra tetti irregolari nei cieli pungenti e infiniti di Gennaio - LEI vive. Negli ultimi anni il suo fascino continua ad attirare un numero sempre più cospicuo di artisti, come una donna sensuale da scoprire e conquistare poco a poco: uno sguardo sfuggente dietro i vetri dei palazzi, e braccia, e gambe, e dita lunghe come strade, segnate sulle nocche dalle cicatrici delle strisce pedonali, i capelli avvolti dalle nuvole, una bocca - rossa - nel lampo lucido di qualche vettura solitaria di passaggio.
Fugace.
Forte.
Graffiante.
Purtroppo, non tutti sono in grado di coglierla e di mostrarla come è realmente. Non basta sedersi a dipingere: è necessario sentirla dentro. E' necessario averla vissuta, come un'impronta indelebile sulla pelle, sia essa metropoli dagli immensi viali, costeggiati da bianchi edifici lineari, sia essa groviglio di architetture industriali macchiate dalla ruggine, moderne foreste di alberi spezzati ed anneriti. E' una regola non scritta che scorre nelle vene, è lo stesso motivo per cui l'odore del mare sprigiona meglio dalla tela se le mani di chi lo dipinge sono cresciute giocando con la sabbia.
Non è mai simpatico stilare classifiche di bravura o competenza, ma dal momento che io scrivo d'arte solo per passione, da collezionista invaghita e mai sazia, posso permettermi - a volte - qualcosa che è negato ai critici di professione, o agli addetti ai lavori, siano essi curatori o galleristi. Posso, secondo il mio gusto e la mia sensibilità, dividere i bravi dai meno bravi. Posso scegliere di non interessarmi al lavoro di chi, a mio giudizio, si intestardisce tristemente con pennelli e colori, quando magari sarebbe stato un eccellente panettiere. O pilota d'aereo. O ortopedico. Posso dire, senza paura di essere smentita da chi, per certo, ne sa più di me, che Claudio Cionini è - al contrario - decisamente da podio. Già ora, in giovane età, mentre lo sguardo sulle "sue" città è in continuo cambiamento, è mutevole, e quindi lanciato verso nuovi traguardi e nuove forme, come metallo fuso che si forgia, rinnovandosi.
Opere scelte, le sue, mai seriali, mai scontate, non facili da reperire, raffinate golosità per palati esigenti.
Claudio Cionini sa trasmettere. Con pochi colori: ocra, azzurro, grigio. Rosa, a volte. E qualche squarcio scuro. Ma danzanti tra loro, fusi nel vento che accarezza gli edifici, che trasporta l'umore salmastro delle acque, le polveri delle fabbriche inerti. Pochi colori che diventano velatura, trasparenza, oppure colatura, o densità improvvisa, o polla gorgogliante: gli occhi di chi osserva l'opera di Cionini non conoscono la noia. E' un percorso da seguire: ora è lampo verticale, verso un cielo mai completamente terso, che cela bagliori come ricordi di vicine piogge; ora è volteggio orizzontale, ad inseguire presenze sconosciute. Mai si vede ombra umana nelle opere di Cionini, eppure trasudano in abbondanza di umanità, di fatiche, di sforzi. E di storia.
Grandi città, ancora assonnate, splendenti in livide albe, oppure madide di nebbia: dall'Europa del passato, secoli di pietre e di marmi, alle nuove lontane metropoli di vetro scintillante. E fabbriche, tante queste, abbandonate forse, o forse in notturna attesa di un abbraccio metallico tra corridoi ed impalcature: forgiate dalla mano dell'uomo e lasciate alla pura contemplazione, sospese nel tempo, come cattedrali diroccate, dalle immense navate aperte su un cielo senza più un dio.
Con mano sapiente Claudio Cionini accompagna chi si abbandona volontariamente alla sua città - chi la vuole respirare a fondo, quale unico visitatore privilegiato – riuscendo a svelare prospettive sempre nuove, mentre il viaggiatore incuriosito trattiene il fiato per non spezzare la magia del silenzio aleggiante, ed in punta di piedi attende qualcosa di sorprendente in fondo alla via, dietro l'ultimo angolo.
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