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domenica 23 marzo 2014

Luciano Pasquini

Ebbene sì, lo ammetto, in via definitiva. Sono "una da Cascella", potete anche crocifiggermi. 
E' l'Insulto Supremo di mio marito quando chiacchieriamo d'arte e lui scopre la mia rigidità mentale nei confronti dei cosiddetti "nuovi linguaggi" (ne ho già parlato nel post "Una piacevole sorpresa" del Settembre 2012): non c'è niente da fare, io non potrò mai considerare opera d'arte, ad esempio, i profili di alluminio colorati di Liam Gillick, sono ignorante e resto ignorante. Bestie morte. Sangue. Terra. Stoffa strappata. Mi sforzo, ma non mi muovo di un centimetro. Pittura a oltranza.
Mi piace Cesare Berlingeri, tantissimo, ma perchè ci vedo comunque un messaggio e un percorso, e poi sono pur sempre tele dipinte, anche se piegate o appallottolate. Ho a casa un feltro bordeaux di Peter Webber lungo e stretto, ma l'ho preso perchè a mio marito piaceva... io ci vedevo in realtà qualcosa che stava molto bene appeso sotto alla nostra tela di Vincenzo Balsamo, lei e le sue infinite geometrie, sfumature gocciolate di rosso (motivazione all'acquisto che farebbe inorridire qualunque artista e più di un gallerista). L'ho preso per la mia dolce metà, che era stuzzicata dall'idea di rendere più "internazionale" la nostra piccolissima collezione; io sotto sotto sorrido quando lo guardo perchè da bambina ero appassionata di origami, l'arte giapponese di creare con la carta piegata (rigorosamente quadrata e colorata da un solo lato), senza colla nè forbici, qualunque figura in tre dimensioni. Era stata la mia mamma: me ne aveva comprato un paio di libri che mi tenessero impegnata durante una fastidiosa degenza ospedaliera, finì per ritrovarsi la casa piena di piccole volpi, astronauti, elefanti, scatolette, mantidi religiose, tutti ricavati da un unico foglio ripiegato su se stesso. Una piccola Webber allergica al Plasil. E mi ricordo ancora come si fa l'uccellino che muove le ali quando gli tiri la coda, per lo stupore di grandi e piccini.
Comincio ad essere fiera di questo mio essere "una da Cascella", tralasciando ovviamente tutti gli strani multipli saltati fuori ancora freschi svariati anni dopo la morte del Maestro; lo intendo, se mi considero amante ed appassionata di pittura, emozionata di colore, sostenitrice del bello. 
Siamo comunque in molti, a quanto pare, a preferire che gli occhi si chiudano sui gialli e sugli ocra di una linea indistinta di colline, a cercare che l'anima si perda all'orizzonte di un mare di colature azzurre, tra cespugli di vento, di viola e di grigi, ad emozionarsi nella ricerca degli arancioni e dei rossi dentro il petalo di un fiore o la tegola di un tetto, piuttosto che ad interrogarsi sul significato profondo di un estintore capovolto. 
Siamo stati in molti anche alla serata di Ristori su Luciano Pasquini, che io temevo perchè sapevo quanto piaceva a mio marito (l'effetto-portafogli di ciò che lo appassiona è pericoloso), e che invece ha completamente sommerso me. 
Pittura e basta. Solo pittura. Tele e cartoncini indifferentemente, tanto la differenza nemmeno si vede. Fiumi di colore, se mai ce ne fosse stato bisogno: io sono veneta, non ho sangue rosso, o men che meno blu. Il mio sangue nasce variopinto per tradizione. Abbiamo nuotato nel bello per tutta la sera, ed era un bello fine a se stesso, un bello/buono, da assaporare come pane croccante, senza il pensiero fisso all'Euro (sensazione peraltro già provata durante la serata di Tirinnanzi, quella della mia ammenda). 
Io auguro ogni bene al Pasquini, che era lì presente con la sua signora, e che è un personaggio alla mano senza stranezze da artista, buffo quando racconta che la figlia fa la commercialista - come se fosse la cosa più naturale del mondo crescere in mezzo ai pennelli e poi vivere di numeri e Partite IVA, ma non credo che i suoi quadri varranno mai milioni e milioni. Per fortuna, così uno si toglie subito il pensiero. Non sta a pensare quale scegliere col rischio che, invece di un appartamento in centro, il quadro sbagliato un domani gli frutti solo un garage in periferia. Non compra una serie di tele per abbandonarle infilate in piedi, nude ed infreddolite, dentro uno sgabuzzino in attesa che l'asta faccia il botto (e magari chiamandogliela al Pasquini, poverino lui). 
Pasquini si compra perchè dipinge bene. 
Perchè le sue campagne toscane profumano. Perchè il suo mare sa di sale e di sabbia. Perchè ha ancora il profondo coraggio di dipingere solo fiori. Perchè le sue nevicate avvolgono soffici i borghi nel silenzio più lontano, ma lasciano piccoli segni rosacei, o scuri, nel terreno, così chi guarda ci si può incamminare. 
Perchè ho visto tele tutte di colori caldi, e tele tutte di colori freddi, con un equilibrio unico, lavorate da cima a fondo, con piccole incisioni, graffi, tratti in cui il pennello corre e altri in cui indugia come in una passeggiata, senza spreco, da far invidia a tanti con altisonanti nomi da moschettieri. 
Perchè il valore vero di un'opera è la sua capacità di entrarti dentro.
In altri tempi qualcuno avrebbe potuto definire Luciano Pasquini, in maniera forse volutamente riduttiva, un "onesto pittore". E' vero, probabilmente è così: un pittore onesto. Ma di questi tempi, in cui l'onestà è diventata merce rara, a tutti i livelli, è definizione (per il pittore e per l'uomo) che prende decisamente tutto un altro sapore.
Io ho cercato i suoi tetti, li ho cercati affinchè diventassero miei, affinchè diventassero parte di me. 
Dagli impressionisti a Guttuso, mi affascinano questi voli sopra e oltre, questo osservare le cose dall'alto ma non troppo, questa sospensione tra cielo e terra da aliante, non da aereo. Un volo che ti solleva ma ti permette di continuare a guardare. Un volo dove ciò che normalmente è sopra, ciò che non si vede, ciò che ci sovrasta, diventa strada, interminabile gradazione di mattone, di cotto, un acciottolato di tegole dove planare tra fili tesi. 
Ho scovato i MIEI tetti in una dimensione piccola, non sfacciata, ma tutta piena, senza spazio per null'altro che non sia colore, e mi ci sono sciolta. Non c'è mare intorno, non c'è campagna, eppure si avverte una lontana fragranza; non c'è aria, non c'è bordo, eppure si respira. Tetti uno sull'altro come caselle incastrate, colore su colore, caldo ma con chiazze grige e cupe, materia su materia. Forme evidenti, certo, di finestre e calce bianca  abbarbicate ad un pendio sotto un sole d'estate che si può ben immaginare, ma se le guardi da vicino con le mani a cerchio sugli occhi, come un bambino che gioca con un binocolo di fantasia, se racchiudi un poco lo sguardo su una porzione più piccola, su un segmento, la forma si dissolve. Resta il gesto, resta il rapido passaggio della mano, resta il colore puro come macchia che rende Pasquini, da principe della figurazione più poetica, da ritrattista di petali e pistilli, della natura allo stato primigenio senz'ombra di figure umane, a profondo rappresentante dell'informale, del sogno, della materia che da molle diventa eterna. 
I tetti di Pasquini entrano nel mio binocolo invisibile, quello del mio recente post "Clic", quello dei primissimi piani, quello in cui volevo fondermi con le venature del legno per scoprire l'infinitamente piccolo, e diventano richiami di Alfonso Borghi. 
Non è una semplice tela, è una poesia che rima a colori. Che sfuma e si rincorre. 
E che è trattenuta, sui bordi, da una cornice spettacolare, bianchissima (non poteva essere altrimenti, la fusione completa e luminosa del colore), una via lattea, un fiume di panna montata, morbida come una sciarpa di seta, elegante e senza tempo.
Non è un investimento per il mio futuro: è un investimento per il mio PRESENTE. 
Fa sempre parte di quella ricerca del benessere interiore che ognuno di noi compie, verso le più svariate direzioni. C'è chi fa yoga, chi va a pescare, chi cura le piante. Io condivido la pittura. Con occhi, visi, sguardi di emeriti sconosciuti che quella sera sono entrati in Via Gianni 10 a Firenze e si sono emozionati. Con quella frase che mio marito ha buttato lì come niente fosse "queste pareti mettono addosso allegria", che poteva essere una frase da nulla, un commento come tanti, ma ci sono persone per cui l'allegria è difficile, è rara, è sfuggente, è - a volte - stranamente dolorosa. E trovarla appesa lì, per lui, alle pareti, mi è sembrata quasi una benedizione.



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