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domenica 16 novembre 2014

Febbre (dall'alba al tramonto)

Domenica mattina, sono a casa da sola; sono un po' triste, un po' arrabbiata, un po' demoralizzata, un po' fusa, forse. E direi in parti uguali. Ho la febbre, ho la tosse e la voce mi ha salutato da almeno un paio di giorni, nonostante mi sia scolata un intero vasetto di miele che mi ha fatto sentire tanto Mamma Orsa.
Niente sta andando come pensavo andasse, a parte la settimana lavorativa, ovviamente, quella sì, eccome. Siamo stati bloccati per tre giorni, bloccati da questa fastidiosa migrazione di dati che si è comportata esattamente come sapevo avrebbe fatto: scartando nomi, numeri di telefono, anagrafiche, un bel minestrone (o spezzatino, per chi gradisce il proteico) di ciò che erano i nostri spettacolari archivi informatici. Lunedì ho aperto il computer e poi ho chiuso gli occhi, tanto già immaginavamo. Con i pacchettini delle Condizioni contrattuali delle nuove Polizze che devo/posso vendere ora (così, da un giorno all'altro, azzerato d'un colpo tutto lo scibile precedente) ancora chiusi nei loro scatoloni, tanto è inutile studiarli finchè non sai come far funzionare questi programmi del cavolo. Ci sarà tanto, tantissimo, da fare e da lavorare, ed è frustrante per chi fa il mio lavoro rispondere a chi ti chiede un preventivo "si accomodi, ma mi raccomando tenga conto che dovrà farci compagnia per i prossimi quaranta minuti" (variante pietosa, solo ed esclusivamente per la R.C. Auto) oppure "mi dispiace, non sarò in grado di darle una risposta per i prossimi sette-otto giorni" (variante onesta, per qualunque altra tipologia di Polizza). Figuriamoci, in questi tempi da tutto-e-subito. Uno ringrazia, esce, e si dirige subito dall'assicuratore della porta a fianco sbellicandosi dalle risate, alla faccia nostra, del nostro cazzutissimo Direttore Generale, e del suo mantra "vi abbiamo comprato noi e quindi fate quello che vogliamo noi". Insomma, ho cominciato a vedere una flebile luce in fondo al tunnel (un tunnel che si preannuncia molto, molto lungo, diciamo almeno quattro mesi per rientrare a regime completamente in quanto a professionalità, serietà e conoscenza della materia) più o meno verso giovedì pomeriggio, ma a quel punto la febbre aveva già ampiamente sforato i 38: capita, quando sei sotto pressione dodici ore filate con in pancia solo un panino, ogni giorno, per un'intera settimana. E non ti puoi lasciar andare neanche per mezzo minuto, perchè altrimenti le impiegate si demoralizzano più di te. Grosso rischio per l'impresa, l'impiegato demoralizzato.
Morale: aspettavo questo weekend da un pezzo, e sono bloccata qua a casa con un nervoso addosso da far paura. Da sola, per giunta, perchè non potevo pretendere che il mio ormai famoso "inseparabile scudiero" rimanesse a fissarmi nel mio mutismo. 
Nell'ordine: ieri, niente serata Orler, questo imponente omaggio a "The Responsive Eye" che rappresentava, per me (che non sono propriamente un'amante dell'arte programmata, nonostante la mia  cospicua serie di vestitini e camicette optical), al di là dell'esposizione, l'occasione di rivedere e salutare tanti amici da tutta Italia, e magari conoscere qualche nuovo volto, di quelli di cui conosci solo il nome o la penna, sparsi per i Forum o i Blog su e giù per lo Stivale. 
Questa mattina, niente ArtePadova, la "mia" Fiera, quella in cui gioco in casa perchè ci vado con tutta la comitiva di aficionados, che mi hanno riferito essere anche quest'anno giocosa, effervescente, nel suo piccolo sempre calamita per buongustai locali. Di certo il mega-collezionista che timbra il cartellino a Basilea ride di tenerezza davanti alle mie esternazioni, ma io faccio parte di un mondo diverso, preferisco ancora scambiare due occhiate d'intesa con chi si emoziona davanti alle fiabe innevate di Tino Stefanoni. E a giudicare dal numero di fiabe esposte, mi sa che qui siamo in molti, noi provincialotti emotivi. 
Se per domani non guarisco mi va per traverso lo sciroppo, giuro; spero che tutte queste rinunce servano a qualcosa. Anche non aver visto dal vivo lo Stand di Arte San Lorenzo, dove speravo di beccare Annamaria Brizzi, per poterla finalmente conoscere di persona, e invece niente.
Last but not least, niente stretta di mano a Dario Olivi, visto che una capatina pre-ArtePadova era irrinunciabile, e già avevo l'acquolina in bocca al solo pensiero di un'intera parete da nove metri con una sorta di antologica (per forme, colori e significati) di quel meraviglioso artista qual è Cesare Berlingeri.
Questa a dire il vero è stata solo una mezza rinuncia, perchè mi sono guardata tutto lo Speciale dal divano, anche se non è propriamente la stessa cosa. E poi, tutto sommato, son qua che scrivo, quando non più di due settimane fa avevo sbandierato che mi sarei dovuta prendere una pausa, prima cioè che l'influenza mi regalasse tutto questo bel tempo gratis, un intero weekend di dolce-far-niente inaspettato. Sta a vedere che se aspetto un altro pochino finisce che la devo pure ringraziare. 
Visto che in effetti la testa mi gira più del previsto, cercherò di essere breve e di fissarmi un concetto, uno solo, di tutto ciò che mi è passato per la mente durante le tre ore di Dario. 
E sì che ho pensato parecchio, a bocca chiusa. 
Pensato a Cesare Berlingeri, che avevo incontrato personalmente tre anni e mezzo fa, e a quanto mi aveva colpito come persona per la sua cultura e la sua profonda sensibilità - tipiche, queste, di molti artisti che nel tempo ho conosciuto - unite però ad una incredibile umiltà, cosa, invece, non molto comune tra coloro che vivono d'arte. Artisti e addetti ai lavori. La maggior parte degli artisti con cui, negli anni, sono venuta a contatto tende a sentirsi uno o più gradini sopra gli altri, siano questi "altri" i loro colleghi (tutti, indifferentemente! E' raro sentire un pittore dire di un suo contemporaneo vivente: "Quello si merita tutto il successo che ha, perchè è davvero un genio"), piuttosto che la gente comune. Si sentono diversi, si sentono "speciali", e per molti aspetti è vero e sacrosanto (il talento eleva dalla massa, è indubbio), ma se sei un talentuoso pittore con l'intelligenza di un tubero, e non vedi al di là del tuo naso, non puoi venire a fare il gradasso con me, che sono e resto più sveglia di te nonostante sia una frana con i colori e le tele. Anzi, manco ci provo, conosco i miei limiti, come tu dovresti conoscere i tuoi. 
Ho colloquiato con Cesare Berlingeri in tre diverse occasioni da allora, e tutte e tre le volte mi ha fatto la stessa impressione: un uomo piccino nell'aspetto, con dentro l'immensità. E poi ama raccontarsi, ama condividere, ama metterti a parte del suo percorso, che per un collezionista è una delle emozioni più belle, visto che quando ti appendi in casa un'opera non appendi solo un pezzo di pittura, ma anche un pezzo di pittore. La sua vita, le sue parole, i suoi gesti. Tanta gestualità nei lavori di Berlingeri, gestualità forte, difficile, una pittura che si fa quasi scultura in quel lavorare a tutto tondo, in tre dimensioni, quando la tela dipinta è solo un primo passo verso l'opera finita, perchè poi deve accartocciarsi, ripiegarsi su se stessa ancora e ancora, per celare al suo interno (e per far ciò a volte è necessario schiacciarla, montarle sopra, con fatica) un messaggio arcano, antico quanto il mondo, il segreto stesso dell'anima del pittore.
Per chi - mosso a pietà dal mio stato influenzale - volesse fare una piccola pausa rileggendo uno dei miei vecchi post su Cesare Berlingeri metto qui il link, perchè anche se sono passati un paio d'anni i miei ricordi sono talmente vividi che potrei riscrivere tutto parola per parola: 
Ma torniamo ad oggi, e alla parete di nove metri di Dario. O meglio, di Giuseppe Orler, perchè ho appreso in diretta averla voluta lui, fortemente. Il colpo d'occhio non era come mi aspettavo, perchè era TROPPA ROBA. Quando siamo ad un livello concettuale così alto, in cui ogni sfumatura di colore ha il suo significato, ogni minima forma (dalla piega al cartoccio) ha uno specifico perchè, riempire un enorme muro con quaranta lavori tutti uno diverso dall'altro può far l'effetto contrario: è come un'indigestione. Bum, un colpo allo stomaco. Stramazzi, sei stordito, annaspi. Vorresti soffermarti su tutto, e conseguentemente non ti godi bene niente. Sei come il bambino nella pasticceria, o la signora alle svendite delle griffe: hai solo due occhi e due mani, e non bastano. 
Allora (sarà stata la febbre) ho fatto due passi indietro, cercando ancora una volta l'aiuto in quel concetto di "condivisione", in quell'idea di "emozione comune" che per me sta alla base di tutto, e l'ho trovato; come sempre, l'arte non mi tradisce, mai. 
E' stato un lampo improvviso, guardando quel muro bianco con appesa la vita di Berlingeri, come un rotolo sacro srotolato da sinistra (la piegatura gialla e luminosa dell'alba) a destra (la blu, della notte più cupa e vellutata), vedendo il mini-catalogo nelle mani di Dario stampato in occasione di questa grande, unica installazione. Ascoltando i filmati, con le parole di un Cesare quanto mai semplice e diretto che racconta la sua ispirazione tratta direttamente dalla natura (quale filo conduttore quanto mai impensabile, da un'ape al un blu oltremare!), e ringrazia chi dà ancora queste possibilità agli artisti, perchè quando spariranno le "committenze" (mecenati, mercanti, menti illuminate) sparirà negli artisti la voglia di sperimentare e andare "oltre". Quaranta opere, racchiuse sotto il baffo di Giuseppe Orler, magari un giorno glielo domando, se ci aveva pensato davvero fino in fondo o se è stato un caso, se sono io che mi immagino tutto. 
Un muro intero, troppo per una persona sola; e allora smontiamolo, questo muro, pezzo per pezzo! Ecco la meravigliosa condivisione che ritorna, e un pochino mi turba, perchè anch'io ho tre meravigliosi lavori di Berlingeri a casa, ma me li sono scelti a suo tempo in Galleria, per mio conto, piluccando nei magazzini, senza che facessero parte di un unico progetto... e ora per qualche giorno li vedrò più tristi. Comprendetemi, non è la febbre! Ci sono trenta-quaranta persone (sarà per forza un numero esatto, alla fine, quando il muro sarà stato tutto smantellato) che possiederanno QUALCOSA che ha fatto parte di un TUTTO. Avranno inconsciamente condiviso un'idea comune, una storia, un pensiero. Potrebbero anche decidere di incontrarsi, tra qualche anno, come nelle foto delle famiglie numerose ai matrimoni. Come agli incontri di classe. Potrebbero posare tutti insieme con il mini-catalogo come guida, ognuno con la propria opera, e raccontarsi perchè a me ha colpito quella gialla e tonda come l'interno di una pesca matura, mentre tu hai fortemente voluto quella busta chiusa (e richiusa, e richiusa, e richiusa) in bianco e nero, piena di graffi scuri. Due antipodi, ma sempre e comunque parte di un'idea. 
Una persona che fa parte del MIO, di "tutto", e che ho disturbato per l'occasione mentre lavorava giusto per raccontargli di questa cosa del muro di Cesare che mi stava emozionando parecchio, ha commentato con dolcezza che ho un cuore grande, a pensarla così. E che invece è molto più probabile che chi stava staccando via via i pezzi di vita di Berlingeri dal muro pensasse solamente ad un bell'investimento, o a quanto bene poteva accostare il tal pezzo ad altri tesori in casa propria, piuttosto che a formare uno sgangherato album dei ricordi. Può essere, ma finchè sarò sotto Aspirina preferisco pensarla a modo mio, questa installazione sotto i baffi Orler: tanti piccoli pezzetti di anima di Cesare Berlingeri, nelle case di altrettanti sconosciuti solo sulla carta, a formare un'unica alba ed un unico tramonto senza fine. 
Essere collezionisti d'arte, in fondo, è avere sempre la febbre addosso.

domenica 2 novembre 2014

Coma informatico

Mi sa tanto che dovrò assentarmi per un po'. Motivi professionali. Motivi di quelli che tengono parecchio occupata la mente, oltre che monopolizzare la quasi totalità delle giornate, e delle settimane. Un vero peccato, per me di sicuro, visto che sarà alquanto improbabile rimettermi a scrivere in tempi brevi, e Dio solo sa quanto mi rilassi e mi faccia stare bene scrivere.
Vari amici, che lavorano in Banca (Banche diverse, che nel tempo hanno subito fusioni, acquisizioni, accorpamenti, tutte quelle simpatiche manovre che sulla carta sono semplici operazioni finanziarie e nella realtà invece sono capaci di provocare ben altro, dall'esaurimento nervoso al divorzio), mi guardano con aria tra il complice ed il compassionevole, come se pensassero: "Era ora che toccasse anche a voi". A dirla tutta a noi era già toccata, quando la mia gloriosa Mandante fiorentina fu comprata dalla spregiudicata famiglia di affaristi già proprietari di una nota Compagnia di Assicurazione torinese (giusto per finire di spolparla del tutto in un decennio), ma quella fusione era stata una passeggiata, una bazzeccola rispetto a questa. 
Posso dire che tutto sommato ne eravamo usciti indenni, forse il modo di approcciare le cose, il sistema-lavoro, la filosofia di base erano le stesse, chi lo sa. O forse io ero più giovane, e mi spaventavo meno (anche se ne dubito). Più probabile che fosse il mercato ad essere diverso, anzi per certo lo era, dieci anni fa: giravano molti più soldi, e quindi la gente era molto più tranquilla, meno incazzata ed aggressiva. E poi (io mi scuso se torno sempre lì, ma devo pur incolpare i miei demoni personali di questo stato di cose) non c'era ancora niente di "social", la posta elettronica si usava ma con moderazione, se la tecnologia degli uffici si impallava per qualche giorno si proseguiva con calma e tanti sorrisi scrivendo a mano o usando il telefono. Dieci anni, cioè NIENTE, eppure tutto, da questo punto di vista.
Ora provate ad entrare in un'Agenzia d'Italia a caso degli ultimi nati del Gruppo Unipol (non dovrei far nomi, ma chi conosce un pochino il mondo assicurativo l'ha già capito da un bel pezzo per chi lavoro io) e pronunciare le paroline magiche "Migrazione-a-Essig": poi, preparatevi a scrivere un intero trattato, tutto vostro, sulle manifestazioni principali dell'isteria di massa.
Succede che questi sono tecnologicissimi, e ci tengono ai loro sistemi informatici più che alle loro stesse mamme: non saremo un'unica Azienda fin quando non adotteremo lo stesso sistema informatico, disse apponendo la firma il nostro Direttore Generale. Che poi, detto tra noi, è davvero cazzutissimo (uno dei pochi Direttori Generali di Qualcosa in Italia a non avere il titolo accademico davanti al nome, e già questo la dice lunga: la sua è tutta esperienza, esperienza vera), ha un'aura di idee chiare e spicce che si vede lontano un chilometro, cioè la distanza media da cui lo guardo io alla Mega Riunione Annuale, quella in cui mi appiccico alle pareti sperando che nessuno mi noti (la prima volta le pareti e buona parte delle uscite erano occupate da una sfilza di hostess strafighe giovanissime, di quelle che ti sporgono i pasticcini guardandoti dall'alto del loro tacco dodici, noleggiate in stock per l'occasione; forse poi qualcuno ha fatto notare che, tutto sommato, noi Agenti saremmo stati più felici con meno hostess sulle porte e con qualche soldino in più nelle tasche, perchè la seconda volta non c'erano e io ho potuto piazzarmi in posizione strategica). 
E poi ha quel mantra tutto suo, lo ripete continuamente: "Noi vi abbiamo comprato, noi vi abbiamo salvato dal fallimento, quindi adesso fate tutto quello che vogliamo noi", assunto che fa sorridere, considerando che non è propriamente una frase democratica o "di sinistra", estrazione lontana della quale tutti loro sono così fieri. Sostanzialmente però è la pura verità: loro ci hanno comprato, loro ci hanno salvato dal fallimento. Sarebbe carino - e quanto meno logico - che ci imponessero solo le loro cose migliori, e prendessero da noi le migliori nostre, ma sembra sia più semplice e rapido cacciarci tutti di sana pianta all'interno del loro sistema, anche se per certi aspetti ci riporta indietro di decenni. Semplice, rapido, certamente non indolore. Perchè si dà il caso che le Agenzie che devono "fare tutto quello che vogliamo noi" siano un numero impressionante, e non è cosa da nulla rivoltarle TUTTE come calzini dal punto di vista informatico in pochi MESI. 
Dev'essere andata come nei telefilm americani polizieschi, dove c'è sempre il Capitano di turno, o comunque il Capo del distretto (solitamente donna e di colore, che fa tanto politically correct, quella ormai vintage di Law & Order era anche cicciottella giusto per completare il quadro), che dice ai due detective, quelli che son giorni che si sbattono per trovare i cattivi: "Voglio il colpevole, e lo voglio entro questa sera". Della serie: finora non avete fatto una cippa, ma visto che adesso ve lo ordina il Capo vedete di muovervi alla svelta e risolvere il caso. Nei telefilm è sempre perchè il Procuratore minaccia di far saltare qualche testa, o perche il Sindaco di N.Y. è molto agitato e ha la stampa che lo assedia, ma non credo che i vertici della mia nuova Mandante abbiano questo tipo di pressioni. E' solo che hanno fatto dei piccoli errori di valutazione, ma non voglio spingermi oltre nelle mie considerazioni personali perchè poi finirei per dare a tutta questa storia una connotazione politica, uscendo dal seminato. Però, accidenti, certe similitudini sono davvero inquietanti.
Torniamo a noi. Per ora siamo solo all'inizio. La prima fetta d'Italia che parte con questo travaso massivo è il Triveneto (eccheccavolo, tutte le fortune ci toccano), probabilmente perchè lavoriamo tanto, e se dovremo lavorare ancora di più non ci spaventa. Mi piace pensare che sia perchè siamo i più bravini, e quindi ci fanno fare da apripista per tutti gli altri (oppure è perchè siamo i più bischeri, e non ci lamentiamo). Per installare il sistema che vogliono loro e lavorare con i computer che vogliono loro (che - va ammesso - quanto meno ti passano in comodato gratuito) devi stravolgere quasi totalmente l'impianto di cablaggio dell'Agenzia, a spese tue. Il mio taci che l'avevo pagato nuovo e pronto, visto che ho traslocato qua l'anno scorso (giusto un anno! Certo che Novembre è proprio un mese movimentato, ultimamente). 
Arrivano gli scatoloni con i macchinari nuovi, e non sai quando verrà il Tecnico a montarli, oppure lo sai, ma te lo dicono oggi per domani (alla faccia della paralisi totale del lavoro quotidiano che ne consegue). A me è toccato un Tecnico sveglio: giovane, preparato, e pure un filo carino. Il mio solito c/lo, visto che a tanti Colleghi sono toccate coppie di emeriti rimbambiti assunti per l'occasione dal subappaltatore del subappaltatore del subappaltatore, che non sapevano nemmeno come si accendeva un computer, e in alcuni casi hanno tagliato anche i fili del telefono per sbaglio, lasciando il Collega, oltre che paralizzato, anche isolato dal mondo esterno. Questo bel ragazzotto friulano varca la porta del mio ufficio e come prima cosa mi fa: "Quel portatile lì non fa girare il programma, vai a comprartene uno nuovo subito". Certi addii destabilizzano, soprattutto se il "portatile lì" mi accompagna ormai da anni e al suo interno custodisce gelosamente centinaia di files (testi Word di ogni cosa, dalle clausole delle Polizze Rischi Industriali ai Pdf autorizzati Isvap delle campagne di vendita, alle bozze dei miei post che non hanno ancora visto la luce - e forse alcuni mai la vedranno, dalle scansioni delle autentiche della mia collezione, dei disegni di prigionia del mio nonno Tano, alle tante foto del mio mondo degli ultimi anni) che opportunamente travasati nel nuovo fiammante portatile nemmeno si aprono, perchè di preinstallato non c'è niente, manco uno straccio di Office di prova. Del resto sono cose che capitano, se ti fiondi nel primo Store disponibile (e per fortuna che il nuovo ufficio è in pieno Parco Commerciale), agguanti un commesso a caso e chiedi - indicando altrettanto a caso una catasta di oggetti a forma di PC portatile - qualcosa che sia nuovo, semplice, adatto per una persona che odia la tecnologia e non sa niente di informatica, nemmeno esattamente quali programmi dovrà usare, e possibilmente con dentro Windows 7, perchè l'otto me l'hanno sconsigliato solo guardandomi, pare sia una questione di avversione. 
Il Giovane Commesso Agguantato A Caso dice con sorrisetto di compatimento nei confronti della Povera Vecchia che i computer con dentro Windows 7 non li fanno più da due anni, ti cucchi l'otto e corri in ufficio, visto che nel frattempo il baldo Tecnico ha scoperto che - di tutti gli scatoloni presenti - nessuno contiene il SERVER, il cuore del nuovo sistema, e quindi bisogna correre a prenderne uno in un'altra Agenzia dove ne erano arrivati due, guarda caso (doppio c/lo, in quell'Agenzia c'era stato il medesimo Tecnico, e quindi lo sapeva). Torni indietro di corsa sudando come un animale, così impari a mettere in ferie tutte le impiegate (a cosa serve tenere lì le impiegate, se l'ufficio non è operativo?) quando il pubblico entra comunque. O telefona. O aspetta fuori con faccia torva e minacciosa, dicendoti che non è un bel servizio trovare la porta chiusa con il biglietto "Torno subito. Firmato: Il Tecnico". Cose che dieci anni fa non sarebbero successe neanche in un film comico. Ci avremmo riso su con un buon caffè, visto che la macchinetta funziona ancora, riso del server finito per errore a Palermo, e della mia carta di credito alleggerita del costo di un portatile-al-volo in più, che magari con un po' di preavviso e studiando meglio le macchine presenti nemmeno serviva. 
Ma non potevo prendermela con il Tecnico, in primis perchè lui non c'entra niente, e in secundis perchè si trova anche lui in una spiacevole situazione: è appena stato licenziato, in diretta via telefono. Sono, questi, ragazzi che lavorano dodici ore al giorno da mesi, spesso senza pausa pranzo, lui avanza settecento ore di straordinario, gli dicono alle otto e mezza di sera dove dovrà essere alle otto e mezza di mattina del giorno dopo (sotto casa o a 200 chilometri indifferentemente), il tutto per 900 Euro al mese. Ha osato lamentarsi e al telefono gli hanno dato i dieci giorni, tanto fuori della porta c'è la coda. A parte il fatto che, secondo il mio modesto parere, anche se la storia della coda è vera un imprenditore lungimirante quelli bravi dovrebbe coccolarseli un pochino, la mia mente è andata a chi in questi giorni si indigna e fa casino perchè si vuole negare ai dipendenti pubblici il diritto di sciopero, mentre dell'esistenza di queste giovani bestie da macello nessuno parla. Chiusa parentesi. 
Comprendo che la gentile e preparata bestia da macello a quel punto avesse solo voglia di tornarsene a casa, perchè ha finito il montaggio in fretta e furia senza soffermarsi troppo sulle istruzioni da lasciare a me, per far funzionare i nuovi apparecchi. Soprattutto il portatile nuovo, che non va: ho chiamato la Telecom ma dicono che la loro linea ADSL è a posto, ho chiamato i nostri esperti informatici e dicono che la loro roba funziona perfettamente, e che non possono soffermarsi troppo su questi problemi di secondo piano visto che ci sono già le prime Agenzie totalmente paralizzate (io maligno che non gliel'aveva ordinato il cardiologo, al Direttore Generale, di travasarci tutti entro sei mesi, a blocchi di cinquanta, perchè così facendo il Servizio Assistenza si trasforma in un enorme imbuto di chiamate disperate, e vorrò proprio vedere che succederà a Dicembre, quando arriveranno i numeri grossi). Tuttavia ribadisco che con lo speed test risulta che il fiammante portatore di Windows 8 lavora a 156K, praticamente ho comprato un piccolo bradipo da compagnia. Qualche anno fa andavano di moda i furetti. Carino da morire, ergonomico e leggero, che non mi serve assolutamente a niente. E che, non potendo scaricare Office a 156K perchè ci vuole un mese e mezzo, custodisce i miei sacri file senza permettermi di aprirli, vuoi mai che debba fare una modifica ad una Polizza con clausolario e mi serva un testo specifico: mi tocca mandar via il Cliente.
Io, personalmente, già da un paio di settimane a chi mi chiede un preventivo per una Polizza Casa, o Infortuni, o Condominio, o per un negozio o un'attività, o chi più ne ha più ne metta al di fuori della R.C. Auto più stupida, sono costretta a dire: "Guardi, se ha intenzione di farla subito, e con subito intendo OGGI o domani al massimo, ok ne parliamo; ma se in realtà deve pensarci un po' su oppure ha una scadenza da disdire altrove tra qualche mese, non posso farci niente". Avrò altri prodotti, avrò altri listini. Di cui peraltro ora come ora non so quasi nulla. Alcuni (pochi, pochissimi) li ho già visti, e non grido al miracolo. Dell'enorme mole di tutti gli altri, il nulla. Nessun libretto disponibile, nessun tariffario. 
Sono più che convinta che viviamo in un periodo in cui il mercato (inteso come gli Assicurati e i papabili Assicurati) chiede solo due cose, solo due ma irrinunciabili: prodotti comprensibili, e rapidità di risposte. Solo dopo viene il prezzo basso, e in realtà è richiesta che riguarda più che altro la R.C. obbligatoria. Per il resto (una Polizza Infortuni, ad esempio), quando uno vuole un preventivo, il più delle volte senza neanche avere le idee chiare, si aspetta di sentire tre-quattro garanzie, le relative franchigie, i capitali, e il premio. Basta. E in fretta, in tempo reale, come se fosse lui, davanti al computer, non tu. Imbevuti di tecnologia, si lavora a compartimenti stagni, a schemini e foglietti da comparare. Uno schifo, per me che vorrei far due chiacchiere più che volentieri e illustrare qualcosa di più personale possibile, ma tant'è. Figuriamoci se, oltre a tutto, per rilasciare un preventivo ci metto due ore, con prodotti incomprensibili. O comprensibili, ma che non conosco, e ho diciamo una settimana per studiare di tutto punto (e non sono esattamente due o tre). Finisci per pensare prima ai tuoi problemi, ai tuoi casini, alle tue esigenze, che a quelle del Cliente, ed è un errore tanto madornale quando imperdonabile. 
Mi soffermo su questi pensieri in una domenica sera tipica delle nostre, da Veneto apripista, imbevuta com'è di umidità e di buio, mentre la mia Agenzia è in una sorta di limbo (nuovo hardware, vecchio software), in attesa della Grande Migrazione. La prossima settimana, tre giorni di corso che mi renderanno espertissima, e poi arriverà lui, il Nuovo Sistema Operativo con un nome talmente assurdo (chissà se lo sanno, che vuol dire Aceto in tedesco) che - già sappiamo - nelle Agenzie che hanno fatto da test nazionale ha scartato casualmente Polizze senza preavviso, eliminato tutti i Contatti dalla posta elettronica, mischiato svariate anagrafiche della Banca Dati Clienti, impallato i programmi di contabilità ed altre amenità simili. Credo sarà la mia rivincita, visto il mio livello di informatizzazione pari a sotto zero; i miei brogliacci fatti a mano saranno indispensabili. I rapporti umani prevarranno, lo spero, su macchine inutilizzabili se non inutili. Il sorriso abbatterà la paralisi. Ma ciò comporterà l'ennesima full immersion... 
L'anno scorso sono uscita dal "trauma del trasloco" a Firenze, grazie ad una Mostra a Palazzo Strozzi: dopo mesi in apnea ancora una volta l'arte era stata aria, era stata vento, era stata sole. Non so assolutamente quando e come, ma già pregusto quale sarà la scintilla, quale Mostra porterà in superficie questa nuova bolla che sta solo aspettando di formarsi. Non lo so, ma uscirne sarà di sicuro bellissimo.

sabato 18 ottobre 2014

Matthias Brandes














Sabato scorso io e mio marito abbiamo mangiato un boccone-al-volo con Paolo Orler. 
Il che è sempre un'esperienza interessante, perchè Paolino è - oltre che una carissima persona - un ragazzo estremamente curioso ed attento, di quelli che vanno via veloci, e mangiando con lui ti ritrovi sotto un fuoco di domande di fila, tutte che possono avviare discorsi di ore, mentre invece il tempo è sempre quel che è, e quindi bisogna concentrare gli argomenti. 
Argomenti, peraltro, che spaziano da quante volte sono stata a Medjugorje e come l'ho sentita e vissuta, ogni singola volta, al fatto che mi ricordo ancora bene a memoria la promessa di matrimonio (con la sua importante e difficile verità, che va ben oltre la basica fedeltà, principalmente quando parla di "onore"); da quanto buona è la carne da Olindo soprattutto quando segue le tagliatelle con il tartufo, a quali Polizze assicurative coprono i danni fatti dai muletti sulle macchine nel parcheggio aziendale. Praticamente alla fine sei felice e soddisfatto, hai sudato come una bestia e ti senti come quando passavi gli esami fondamentali all'Università. 
Perchè questo particolare cappello: perchè, tra le tante domande a bruciapelo di Paolo, una mi ha colpito dritta in fondo al cuore, ed è stata argomento di discussione a casa per vari giorni a venire, oltre che in quel momento a tavola. Dal prosciutto arrosto di Olindo (eravamo all'antipasto) Paolo ci ha chiesto: " Avete già avuto la crisi di rigetto per l'arte?". Così, come se fosse la cosa più naturale dell'Universo. Intendo, non ci ha chiesto se l'avevamo mai avuta, ma se l'avevamo GIA' avuta, facendo supporre che - prima o poi - in ogni collezionista il rigetto arrivi. Dà da pensare, soprattutto se detto da uno che in mezzo all'arte ci è nato, che gattonava in magazzini stracolmi di opere di ogni genere, che ha conosciuto personalmente artisti tra i più importanti (e probabilmente a molti di quelli locali è stato in braccio, agli inizi degli anni Settanta). 
In effetti noi ci siamo guardati ed abbiamo risposto di no, sul momento: niente crisi, niente rigetto, anzi. Ne avessimo di soldi per continuare a comprare un sacco di roba, oltre che per visitare Mostre e Musei! Lui ci incalzava, non convinto: "Ma davvero non c'è neanche un'opera che avete comprato e che adesso vi dà sui nervi?" Non c'è niente, tra le cose di cui ci siamo circondati, di cui ci siamo - sotto sotto ma anche sopra sopra - pentiti? A pelle direi di no, ma urge un distinguo: è evidente che, come chiunque approcci il mondo dell'arte inteso come acquisti di opere partendo da zero da parte di comuni mortali, all'inizio abbiamo fatto degli errori. Nel senso che in piena fase bulimica non ti rendi conto che i soldi non sono eterni, e quindi spendi senza razionalità. Vedi/compri. Vedi/compri. Quando arrivi a maturare un minimo di coscienza, e quindi saresti in grado di riconoscere un'opera per la quale varrebbe la pena di tirare fuori quell'Euro in più (per il nome, per il soggetto, per come è realizzata, per la storia...) rispetto a quella che è e sempre resterà pura e semplice decorazione, hai finito la riserva aurea. Quando cominci a pensare con la tua testa (in base a quello che hai letto, hai visto, hai affinato durante un percorso) e smetti di bere come acqua santa le parole di chi sta in televisione, hai già fatto ricorso al credito al consumo come minimo un paio di volte. Noi però abbiamo fatto scelte, credo, intelligenti sotto un aspetto specifico: abbiamo sempre comprato cose che ci piacciono. Anche Gastone Biggi - pace all'anima sua! - che poi alla fine ho venduto, dopo tutto il teatrino di Cagnola; nella produzione di Biggi, era comunque un'opera che trovavo interessante, con un suo perchè. Anche Salvatore Emblema, che indubbiamente ho pagato una follia e mezza rispetto al suo reale mercato, ma che tuttora mi affascina per la sua ricerca, per la sua essenzialità, per i suoi colori-non-colori; e poi da quando Franco Ristori me l'ha incorniciato tutto in ruggine con un'intelaiatura su misura che sembra un vecchio cancello con tanto di rivetti, non c'è persona che passi per il mio ufficio e non ne sia incantata. Magari perchè non sanno chi è, ma tutti sbavano. Fanno domande, toccano i catrami, le terre, si stupiscono (e a dire il vero quando spiego che la cornice è un'opera d'arte a parte, e che non c'entra con l'artista, un po' ci restano male).
Per concludere il secondo cappello: è indubbio che se potessi tornare indietro utilizzerei molti dei miei soldini onestamente guadagnati per acquistare altre cose che adesso conosco, rispetto a ciò che ho preso "a scatola chiusa", ma non detesterò mai nulla di ciò che ho appeso alle pareti, perchè sono comunque tutti pezzi che mi colpiscono, che mi hanno in qualche modo trasmesso qualcosa. Non ho mai scucito mezzo Euro per alcunchè che fosse solo puro investimento: l'investimento A BREVE in arte non esiste, e io non ho di certo davanti tutto il tempo che serve per far rivalutare gli artisti davvero vincenti di domani.
Detto ciò, l'argomento "rigetto" è stato molto gettonato nelle nostre chiacchierate familiari successive, non foss'altro perchè il giorno dopo, cioè la domenica, c'era Art Verona da visitare, biglietti già presi e appuntamenti fuori del cancello già fissati con più di un amico. Qui Paolo potrebbe averci preso: se non mi stancherò mai di vedere Chiese e Musei (anzi!), se le Mostre che progetto di visitare e mi perdo - siano esse grandi e istituzionali, oppure di qualche artista minore da riscoprire silenziosamente - sono ogni volta una sofferenza (compensata da quelle poche che mi ritaglio, pur di nutrirmi dentro, alla faccia dello stress-da-lavoro-correlato), se la Ricerca del Bello è per me l'undicesimo comandamento, ammetto che ultimamente le Fiere mi vedono meno entusiasta. Sono sempre piacevoli occasioni di svago in cui ci incontriamo e ci confrontiamo con amici provenienti dalle regioni vicine, ma le trovo un po'... stagnanti. Rappresentative di un mercato asfittico, infastidito e fastidioso, in cui i giochi - spesso - sono già fatti, alla faccia nostra. Con quel ripetersi sempre uguale dei soliti nomi, sembra l'appello in una classe di secchioni: Accardi, Adami, Aubertin, Biasi & (Kinetic) Company, Pistoletto, Scanavino, Simeti... (secchioni, si badi bene, di certo ottime presenze di livello, ma al limite dell'effetto-fotocopia tra uno Stand e l'altro, anche nei prezzi). E con tutto ciò che dovrebbe rappresentare il NUOVO, le proposte, i giovani/giovanissimi - tanti, tantissimi per fortuna - a cifre fuori dal mondo, a idee fuori dal mondo: sperimentazioni senza fine, qualche fotografia, pittura poca. Roba da sospirare di tristezza, e correre subito da Paolo Orler a comprare un paio di bei tappeti dei suoi per tirarsi su il morale.
Invece, girovagando per una Art Verona piacevolmente frizzantina rispetto a quella dello scorso anno (nella speranza che sia un bel segnale), una scoperta. Un amore a prima vista. Questa crisi di rigetto che non arriva, e che anzi mi scalda il cuore sempre di più. Lui si chiama Matthias Brandes, tedesco del 1950 (grande annata per i vini ed i corniciai) dotato di chioma bianca con folte sopracciglia. Assolutamente a me sconosciuto, altrettanto assolutamente per me delizioso. 
Atmosfere sospese come in un sogno, tra pennellate cariche di caldo e di vento: case colorate di terra, realistiche e semplici come in un disegno di bambino (il classico quadrato con la porta sotto, le due finestrelle sopra ed il tetto a spiovere), ma trasportate in una dimensione fuori del tempo, che le vede volare in aria come aquiloni senza peso, rincorrendosi in un cielo di perla, o appoggiarsi di lato, l'una all'altra, in un movimento un po' stanco che fa il verso al terremoto, ma senza danno. 
Alberi - cipressi, all'origine, probabilmente - divenuti più cicciottelli, densi densi, a bisbigliare qualcosa di misterioso alle finestre, a spirare un soffio di vita dietro ai mattoncini. Ombre nette, squadrate, ritagliate a scalpello, inquiete nel loro lambire la geometria circostante. Un paese intero che sorge da una tovaglia bianca, ancora con le pieghe addosso della stiratura, gettata sul tavolino della metafisica, in un unico, avvolgente, immenso silenzio. 
E che lavorazione! Sabbie, graffiature, ruvidità, superfici di pietre vive, di graniti, di calce che si solleva, di bianco nei rosa, di grigio nei verdi cupi. Non erano quadri, erano richiami di sirene per chi - come me - sente prepotentemente il fascino di CERTA pittura: era come se Armodio, De Chirico, Magritte, Campigli, Xavier Bueno, Scuffi, Carrà, Lazzaro mi stessero facendo il girotondo intorno (li ho messi tutti insieme, e avrei potuto metterci anche Giotto e Piero della Francesca, volutamente mescolati, senza alcun ordine storico, senza alcun ordine logico, senza alcun riferimento di bravura o di mercato, solo perchè ne sentivo insieme i sussurri in ogni pennellata). Un piccolo richiamo di ciascuno di loro, i grandi e i meno grandi, in un raro risultato di suggestioni, di colori, di ricordi. 
Anche i miei scatti col cellulare alle Fiere sono rari, rarissimi; l'ho già detto, preferisco Mostre e Musei, eppure su Brandes avrei scaricato un rullino, se ancora esistessero, i rullini. Uno intero da trentasei, tanto mi ha coinvolto, sotto gli occhi della bella signora svedese che stava allo Stand, e che già si era stupita tanto perchè la gente continuava a chiederle i prezzi dei quadri che pure erano scritti nei cartellini (ma non siamo abituati, noi, qui, a tanta trasparenza, in questo mercato dell'arte, in questa continua fiera con la f minuscola, fiera del fasullo che trascura i talenti e del denaro fa girandole senza una logica). Hanno dovuto trascinarmi via per finire il giro, perchè per me lui già valeva il biglietto: mi sarei fermata lì per ore, a sognare ad occhi semichiusi, annusando la fragranza della campagna toscana che veniva fuori dal silenzio di quelle tele e mi andava dritta dritta all'anima. 
Per poi scoprire, tornata a casa e fiondata in rete come un pesce per capire chi era e cos'aveva fatto questo Brandes finora, e come avevo potuto farmelo scappare così, che le sue ispirazioni principali - in un eterno gioco di onirici paesaggi - sono le terre toscane e la laguna veneta (ho trovato il MIO pittore, allora!), tant'è che vive da anni esattamente a venti chilometri da me, e spesso le sue casette in-animate spuntano da misteriose acque alte verdazzurre che hanno il sapore della laguna, o si affiancano ad enormi navi pietrose senza occhi, ricordi di un mare antico, del quale puoi solo indovinare se ti attende per una partenza, oppure se si allontana dopo l'agognato ritorno. 
Non varrà mai milioni di Euro, Matthias Brandes, ne sono certa come sono certa di quanto mi piace come dipinge. Del resto, non ha inventato niente di nuovo, e oggigiorno i grandi risultati premiano chi si è spinto oltre certi paletti, chi ha provato a parlare in linguaggi diversi. Probabilmente continuerà a rimanere uno sconosciuto ai più, anche se io, personalmente, mi sono già messa in moto per fargli spazio a casa mia. Presumibilmente farà pure sorridere - con tenerezza, o una certa commiserazione - i grandi esperti, coloro che tengono le fila dell'attuale mercatus. Ma una cosa è assolutamente indiscutibile: finchè dipingerà così, a me, che secondo l'insulto ricorrente sono "una-da-Cascella" (e comincio ad andarne fiera, a questo punto, alla faccia dei teschi e delle bestie morte!), che amo davvero ogni cosa sia appesa alle mie pareti, che mi macino chilometri in auto o in treno o in aereo solo per il profumo di un quadro, che non nascondo il nodo in gola quando, poi, mi ci emoziono davanti, il rigetto non verrà mai.


                                                         


sabato 27 settembre 2014

Belle Epoque

E' probabile che io rischi di ripetermi.
Anzi, direi proprio che mi ripeterò. E vuol dire che va bene così.
Trecose galoppa a briglia sciolta da quasi tre anni, ormai, e per quanto io sia cambiata DENTRO, per un insieme di motivi, non sono mai andata a correggere, ritoccare o spostare i miei post passati (ma tu guarda l'accostamento: "post passati", così ossimorico...) perchè da un lato raccontano com'ero e, in fondo - sulle cose importanti - come sono tuttora, e dall'altro perchè sono testimoni di un'evoluzione, di una maturazione, che mi ha portato fino a qui - con le scelte che ho fatto e con quelle che farò - e modificarli mi sembrerebbe come se smontassi i pioli di una scala: bloccherei tutto, senza possibilità di salire nè di scendere. Tuttavia io ricordo ogni parola dei miei post, perchè ogni parola è stata (soprattutto il primo anno) singola goccia di emozione, di vita, di gioia, di rabbia, travasata e condivisa qui dentro; mi capita, scrivendo, di dire a me stessa "ah, no, questo l'hai già scritto nel post Tale, cancella altrimenti ti ripeti", dando per scontato che anche chi mi legge si ricordi esattamente virgola per virgola le mie frasi (prendetelo come un gesto di carineria nei confronti dei lettori, giusto per non annoiarli, anche se sicuramente pecco di immodestia presumendo che chiunque passi di qui si tatui col sangue ogni lettera che esce dalla mia tastiera...).
Oggi non lo farò! Ripeterò cose già dette, perchè ho provato emozioni già provate, e tutto sommato non importa: non c'è scritto in alcun Vangelo che bisogna per forza essere costantemente nuovi ed originali; un pochino di crogiolamento in qualche cosa che ci faccia stare bene, ogni tanto, ce lo meritiamo.
Ho partecipato ad un corso di formazione professionale dei nostri a Bologna, interessantissimo, e a tal proposito saluto Patty che mi ha promesso che verrà a leggermi -   de vez en cuando - scusandomi se finora ho sempre parlato di assicurazioni utilizzando la parola "spendere" (del resto, il corso l'ho fatto solo adesso), mi applicherò affinchè la cosa non si ripeta. Ho scoperto quanto intrigante sia la psicologia economica, mi affascina, davvero. Ho appreso dell'esistenza di quel geniaccio birbante di Daniel Kahneman. Ho definitivamente capito che il mio domani sarà fuori dal Veneto, mi piacciono troppo i toscani (mica avevo optato per Bologna a caso, come sede del corso, è che lì sapevo ci sarebbe stato un crogiolo di "abitanti del Centro" con cui confrontarmi), sanno prendere il lavoro, le discussioni, le scelte, la VITA insomma sempre in un modo che mi fa impazzire: seriamente, adagio molto, allegro con brio. Ti ci siedi davanti e ti fa tanto Beethoven (adesso devo solo capire come e quando).
Però, ritornata a casa con il mio nuovo bagaglio di conoscenza e curiosità, ho trovato mio marito con il musetto lungo, perchè non è che ci piaccia tanto stare separati, anche se è per annusare l'aria e pianificare un futuro sinfonico. Ci siamo presi un pomeriggio da passare insieme, non casualmente a Padova perchè sapevamo che a Palazzo Zabarella aveva aperto i battenti la Mostra di Vittorio Corcos. 
Ed ecco dove mi ripeto: parola per parola, il mio post "Parentesi" di sedici mesi fa (con preghiera di rilettura: http://trecose.blogspot.it/2013/05/parentesi.html).
Avevamo già visto a Palazzo Zabarella, in quel percorso espositivo eccezionale, circolare, illuminato al punto giusto, Boldini prima e De Nittis poi. Anche su questa cosa del come esporre opere d'arte avevo già scritto in occasione del mio post su Giorgio Celiberti  (altra preghierina: http://trecose.blogspot.it/2013/07/ai-piedi-di-giorgio-celiberti.html), ma già che oggi sono in fase di ripetizione in effetti mi sento di ribadire che le Mostre della Fondazione Bano hanno una marcia in più, e sì che ne ho viste in giro per l'Italia (a Palazzo Reale a Milano, soprattutto, e ci tornerò ben presto che Chagall mi aspetta). E non parlo della scelta delle opere in sè, parlo di come le posizionano, di come ci mettono attorno i faretti, del percorso non "squadrato" (il classico stanza-dopo-stanza-dopo-stanza) che fa sì che tu ti possa trovare davanti, improvvisamente, uno spazio ampio inaspettato, oppure un semi-corridoio, o un piccolo budoir. E ogni luogo racchiude l'opera giusta, per dimensioni, sguardi, sensazioni. 
Comunque dopo Boldini e De Nittis non potevamo lasciare incompiuto il percorso dei grandi ritrattisti (ah, il famoso Museo del Ritratto! Era una chimera nel post precedente, e ora già possiamo cominciare a dargli forma...), e ci siamo gustati il Grande Livornese dal primo all'ultimo sorso. 
Non voglio parlare e non parlerò di Corcos in sè, dei suoi ritratti, dei suoi sguardi, della luce che esce dai particolari delle sue tele, delle sue minuzie esagerate e dei suoi sfumati contorni. Del fatto di quanto lui fosse "oltre", visto che già il suo contemporaneo Ojetti, nell'anno in cui Corcos muore, di lui scrive che "dipinge donne e uomini come desiderano d'essere, non come sono" (eppure i ritratti sono fedeli, la fotografia già esisteva all'epoca, e i personaggi famosi - le cui fotografie sono giunte ai giorni nostri - sono davvero con quei volti, con quelle pose); ma bastava, ritengo, un po' di sfrontatezza in più nel sopracciglio, oppure un po' di rossore su una guancia, la bocca lievemente più socchiusa del normale, per trasmettere qualcosa di DIVERSO, che oltrepassasse la rigidità dello schema sociale, che facesse immaginare cosa la gentildonna o il nobiluomo avrebbero voluto fare mentre si guardavano, e non quanto poi, nella realtà, fosse loro permesso. Non voglio parlare di quanto strano ho trovato che nelle cartoline, negli opuscoli, nei poster, nei puzzle del Bookshop abbondassero le riproduzioni delle sue dame meravigliose, le pelli bianco latte e i capelli raccolti, quando in realtà i ritratti più straordinari erano - a mio giudizio - quelli dei personaggi maschili: barbe, baffi, panciotti, monocoli, mani con unghie traslucide e perfette, visi che trasudavano prestigio, potere, carisma (ma si sa, le donne sono più gradevoli se riprodotte su puzzle). Non parlerò (non troppo, almeno) di quanto mi abbia impressionato leggere come lui incominciasse - nei dipinti - sempre dagli occhi, giacchè se gli venivano bene quelli, era praticamente a metà dell'opera: gli occhi come cardine di un dipinto, quand'anche riproducesse, finito, una figura intera. Gli occhi come fulcro dell'intero quadro, come punto magnetico da cui è impossibile staccarsi, come canale di comunicazione privilegiato, anche nel silenzio, tra chi parla e chi ascolta, tra chi guarda e chi è guardato; esattamente, quindi, come la vedo io, che agli occhi do un'importanza al limite del maniacale, ci passa una vita intera, ci metto - nei miei - tutta la mia essenza. 
Insomma, già non sono titolata per niente quando mi azzardo a parlare di contemporanei viventi, figuriamoci se ardisco farlo su pittori della nostra tradizione, sui quali fior di critici, curatori di musei, esperti di ogni tipo si sono - nel tempo - espressi.
Vorrei parlare d'altro. Vorrei parlare (ancora!) del nodo alla gola, piccolo, sottovoce, che mi prende quando entro nell'Ottocento, sul finale. In una pittura senza esperimenti, che aveva uno e un solo linguaggio. Che parlava di lunghi viali ombreggiati, di mani guantate, di libri poggiati sulle panchine. Sono nata nel secolo sbagliato, lo so e me lo dico ogni volta che mi immergo in quei quadri, è sbagliata la mia seconda cifra, al limite vanno bene le ultime due. Ammetto che mi dispiacerebbe perdere le conquiste scientifiche degli ultimi cinquanta, sessant'anni (in medicina, principalmente, ma anche dal punto di vista tecnico, ora abbiamo indubbiamente delle gran belle comodità), ma probabilmente accetterei comunque lo scambio. Ovvio, e va detto senza ipocrisie, presupponendo di essere benestante, molto benestante, istintivamente ci immaginiamo sempre parte della fetta di popolazione che sta bene (uno scambio temporale per finire a fare la lavandaia, ecco, magari lo eviterei). 
Parigi, la Belle Epoque... quando tutto cominciava e tutto doveva ancora cominciare, quando c'erano ancora valori importanti, sogni da inseguire, regole da rispettare. Quando il tempo correva veloce, ma non scappava via. Con stile, con eleganza, con intelligenza. Le donne volevano essere ammirate ed apprezzate, ma senza bruciare il reggiseno (o il corsetto che fosse), perchè non era certo quello che le poteva emancipare di più o di meno, e nel segreto delle case le decisioni importanti si prendevano comunque sempre in due (almeno, a casa dei miei bisnonni si vocifera fosse così). E anche se c'era già la fotografia, era ancora un gesto vitale regalare un ritratto fatto da un pittore che ti cogliesse l'anima passando per gli occhi. Un gesto d'amore, che mi piacerebbe ancora adesso, in questo iper-contemporaneo che non fa più nemmeno le foto, di normali, elabora e modifica pure quelle; un quadro fatto a pennello e olio, dal vivo o a memoria, o copiando una fotografia, ma che sappia di tempo passato a guardare, a pensare. Un dono che presuppone l'attesa (perchè, poi, io sempre lì torno), il gusto e la poesia profonda dell'attesa, e che non venga bruciato in un nanosecondo una volta ricevuto per passare ad altro, per rincorrere il DOPO. E che, tra cent'anni, testimoni ancora cosa cela il lampo di uno sguardo con la stessa potenza, la stessa malizia, la stessa trasparenza di oggi.

domenica 14 settembre 2014

Cinzia Pellin

Come, ritengo, chiunque gestisca un proprio Blog o frequenti assiduamente un Forum, mi capita spesso di curiosare in Blog e Forum altrui, soprattutto se li ho conosciuti in occasione di confronti, qui, su Trecose, così mi diventano ancora più simpatici. Ultimamente mi sono imbattuta in un ragionamento interessante tra i ragazzi di Finanza OnLine - parlo ovviamente solo del "sottoforum" (oggi vado anche di neologismi internettiani) relativo al Collezionismo/Investimento in arte, perchè F.O.L. è un sito immenso, e decisamente io mi spavento davanti a parole come Trading, Small Cap, Forex e tutti i loro cugini di secondo grado. 
Nemmeno mi ricordo se era una discussione recente o no, ma so che l'avevo trovata estremamente curiosa ed interessante: il loro moderatore si poneva una sorta di Questione Morale, chiedendosi se fosse corretto o meno che gli iscritti potessero "parlar male" molto spudoratamente degli autori che a loro non piacciono. Pur anche anteponendo alle varie opinioni il più classico dei "secondo me". Questo perchè, notava, nemmeno gli appassionati d'arte di F.O.L. sono più i quattro gatti che erano quando sono partiti (famosissimi e citati più di una volta, ad esempio, al "lancio" delle televendite Cagnola, quando sono andati molto vicini a procurare un infarto a Roberto Porcelli), e una cosa è chiacchierare animosamente tra amici al bar, altra cosa è rendere pubblici online pesanti giudizi. Si chiedeva se il rimarcare quanto trovano orribile e sopravvalutato il Tal artista piuttosto che il Tal altro potesse - in un certo qual modo - influenzare il mercato, cosa che a loro non spetta, partendo dal rovinare i rapporti tra il Tal artista e i suoi estimatori. L'alternativa resta il parlar bene solamente degli artisti che si amano, lasciando cadere uno sdegnato e pesante silenzio su tutti gli altri (traducendo: se non ne parlo significa che non mi piace). 
Ovviamente la discussione continuava con gli interventi più disparati, ma a me era bastato il primo per rifletterci un po' su, anche se il discorso mantiene sempre e comunque una base più teorica che pratica (come già il loro moderatore premetteva, del resto, visto che se questo fosse un problema reale varrebbe anche il suo contrario, cioè gli autori di cui qui si parla solo e sempre bene dovrebbero valere già milioni...). Anch'io, in effetti, preferisco in linea di massima affrontare l'argomento Arte solo parlando BENE, dando per scontato che il MALE sia "il resto" (cosa che non succede invece con l'argomento Assicurazioni, o peggio ancora con gli Uomini!); potrei ipotizzare che sia un mio atteggiamento inconscio, per preservare tutta la magia che gira attorno a questo mondo così lordato eppure ancora così fiabesco. Oppure, dal momento in cui io d'arte parlo solo col cuore, preferisco egoisticamente non espormi agli strali degli esperti che arriverebbero se mi permettessi di dire "il Tal artista mi fa proprio schifo" (una volta ad un Evento Orler un gallerista non-Orler mi ha quasi sbranato, perchè ho osato dire che "non capivo" Calzolari... e tuttora penso che sia un gran furbacchione). 
L'arte (nel gusto...) è cosa così personale, così privata, così soggettiva! 
Se devo fare la precisina e sottolineare in rosso e in blu posso farlo senza incertezze con le Assicurazioni, dove tutto è molto più inquadrabile in Vero/Falso, Buono/Cattivo, e, soprattutto, se dico la mia è fonte di assoluta verità, da oltre vent'anni, insomma, Calzolari doveva ancora presenziare a documenta IX. C'è anche da dire che nella sola Italia i cosiddetti "artisti" pare siano oltre trentamila (l'ho letto una volta su una delle varie riviste specializzate, non so se avessero preso a riferimento la Camera di Commercio piuttosto che le Pagine Gialle, ma era un dato preciso), ed è fisicamente impossibile che ad un'unica persona siano tutti noti (e non parlo dell'assicuratrice veneta, parlo anche dei critici più tosti), quindi chi dovesse sentirsi ignorato può tranquillamente pensare di essere un Emerito Sconosciuto, dispiace ma è sempre meglio di Imbrattatele Incapace.
Poi, l'altra sera, mi è venuto in testa una specie di flash. Mi sono resa conto che non ho mai scritto un post su Cinzia Pellin, e dal momento che non è a me sconosciuta (cosa deducibile dai miei trascorsi con la Galleria Vecchiato, infatti l'ho anche nominata - ma solo come fugace apparizione - nel post "Serata di Stelle" del Dicembre 2012) non voglio assolutamente che si pensi che non intenda parlarne bene. Il flash, per la cronaca, mi è balenato all'interno dell'Oratorio della Beata Vergine del Rosario di Limena, una chiesetta sconsacrata annessa ad una delle nostre belle ville venete in cui - nell'ambito della manifestazione "Il Risveglio dell'Arte" - Cinzia aveva una serata tutta per sè. Parlo di venerdì scorso, e direi che dopo un paio di giorni di balenamento è il caso che mi metta alla tastiera per porvi rimedio.
Non so perchè non l'ho mai fatto prima, ormai in fondo sono passati tre anni da quella straordinaria serata di Firenze (Rabarama e "AntiConforme") durante la quale io e mio marito l'avevamo conosciuta, e trovata simpatica, alla mano, carina ed estremamente sensibile. Probabilmente perchè non abbiamo un quadro suo, sotto sotto l'empatia è più elevata con gli artisti di cui ho qualcosa in casa, è come avere qui anche loro, parlarci a quattrocchi, dialogare con lo sguardo (anche con chi non c'è più, io con Xavier Bueno mi faccio sempre un sacco di discorsi). E di questo la colpa è tutta mia, perchè mio marito ha spesso fatto gli occhioni imploranti come il gatto di Shrek davanti a più di un quadro di Cinzia. A parte il fatto che tendenzialmente sono enormi, e noi siamo collezionisti microscopici con un appartamento di conseguenza (già molto pieno, tra l'altro). A parte il fatto/bis che per ammirarli in tutta la loro forza bisogna starci abbastanza distante, e questo presuppone una certa vastità di spazio non solo sulla parete, ma anche sul pavimento. Io non lo so cos'è esattamente: forse mi turbano un pochino. Mi mettono una lieve inquietudine. Mi scrutano dentro. Non c'entra niente il fatto che siano donne (famose o sconosciute, sensuali o acerbe, aggressive o dolci), come hanno sostenuto venerdì provando a psicanalizzarmi, anzi, forse se fossero uomini la sensazione sarebbe anche più violenta. 
E questo esattamente perchè Cinzia Pellin è brava, mostruosamente brava (mostruosamente in senso buono, ovvio). 
Lei non dipinge volti, dipinge STATI D'ANIMO. Uno stesso viso, infatti (e questo si nota sui ritratti più famosi) può cambiare completamente espressione solo per una pennellata più carica di bianco. Perchè lei dipinge, intendiamoci, sopra a TUTTO il disegno, anche se a prima vista non sembra perchè i suoi soggetti suggestionano e catalizzano immediatamente lo sguardo su quei particolari intensi e così minuziosamente cesellati, che lei fa esplodere fuori dalle tele: le bocche - quasi sempre - gonfie, carnali, tanto reali da sembrare irreali (ed era un contrasto forte, incredibilmente ipnotico, quello di queste bocche come cuori sanguigni, con le pareti e le volte di una chiesa disadorna, quasi che non aspettasse altro che essere rivestita ed arricchita in questo modo tanto inconsueto). Ma anche gli occhi, i capelli, oppure particolari delle vesti: una sciarpa di lana, sulla quale si potrebbero contare i singoli punti, oppure lucidi guanti, o una stola di pelliccia che ancora sembra essere lambita dal vento. 
Il bello delle opere di Cinzia Pellin, la sua maestria, è scoprire ciò che sta OLTRE a questi particolari, il resto del ritratto. Le sfumature lattee, gli infiniti riporti di ghiaccio, il chiaroscuro giocato solo sui grigi, la capacità di trasmettere un'emozione solo con strati di puro bianco. Non è una fumettista alla Milo Manara, per intenderci, gran disegno e sensualità all'ennesima potenza, ma se togli la seduzione casca il palco. Cinzia oltrepassa il concetto di "donna", è un unico soggetto: dalla bambina all'adolescente all'attrice immortale, che non ti vogliono sedurre, ti vogliono solo attraversare con i loro sguardi. Non giocano con te, non ti provocano. Si limitano ad osservare, immobili, magnetiche, eterne in una dimensione fuori del tempo, chi passa loro davanti, silenziose testimoni di un profondo talento.
Di recente ho iniziato ad intrattenere una corrispondenza epistolare via mail con un pittore/letterato/pensatore - non mi piace dare definizioni e mai come nel suo caso sono in difficoltà a farlo - incontrato su Trecose. Sto leggendo alcuni libri scritti da lui, e in molte, moltissime cose non potremmo essere più diversi (io, che pensavo di essere troppo chiusa alla modernità e alla tecnologia, troppo legata ai canoni del passato ed alla tradizione, in confronto a lui sono un'astronauta), ma, come spesso succede, è proprio nella diversità che si scoprono le idee migliori. Una sua frase buttata lì per caso insieme ad altre mi ha acceso una lampadina, ed ora non riesco più a guardare ad un artista senza pensarci. Lui sostiene che ogni artista contemporaneo dovrebbe misurarsi con i grandi del passato prima di aprir bocca, e va oltre, affermando che creare appositi Musei per la sola Arte Contemporanea sia un errore. In questo, sono assolutamente d'accordo con lui, perchè finisce che spesso si riempiono di provocazioni inutili, tutta robaccia che con l'Arte con la maiuscola non ha nè avrà mai niente a che fare. 
La creazione di una sorta di Musei Tematici ove mettere in confronto le opere dei secoli passati con quelle dei sedicenti artisti di oggi permetterebbe di ridurre drasticamente quel famoso numero trentamila (e consacrare definitivamente talenti del nostro tempo: alcuni dei Bianchi più intensi e graffiati del "mio" Antonio Pedretti, ad esempio, forse non reggono perfettamente la "sfrontata vicinanza", per usare le parole del mio Lettore, se accostati a Turner o a Constable in un ipotetico Museo del Paesaggio?). 
Poi, come in ogni cosa, c'è sempre di mezzo il gusto del singolo; tanto per dire, su Gianfranco Meggiato, che era l'argomento del mio ultimo post, non ci siamo trovati d'accordo, visto che a me piace da matti e a lui no. Mi ha invitato a confrontarlo con Boccioni, ad esempio, ma proprio accanto a Boccioni ed alla sua esasperata ricerca di modernità, di movimento, di nuove materie io lo vedo magnificamente! Boccioni - se trasportato ai nostri giorni - l'avrebbe, credo, letteralmente adorato. Una Sfera di Meggiato di grandi dimensioni non sfigurerebbe per nulla a Milano, giusto a fianco di quella "Forme uniche nella continuità dello spazio" che imprigiona anche il respiro di chi le passa accanto, non solo lo sguardo ed il tatto, in un unico filo conduttore. 
Ebbene, mi ha talmente catturato questa idea dei Musei a Tema che adesso metto in "sfrontata vicinanza" chiunque vedo, e vorrei vedere Cinzia Pellin nel Museo del Ritratto. Anche solo dal Rinascimento in qua, tralasciando gli enigmatici sguardi egizi, le statuette elleniche o romane, e al limite anche quel poco che il nostro Medioevo impregnato di religione e paure ci ha lasciato. Vorrei farmi tutto il percorso, lungo, lunghissimo, dai volti di Piero della Francesca e di Antonello da Messina in poi, e trovarla alla fine, con i suoi particolari da primissimo piano, veri, forti, per niente Pop (a gusto mio, molto del "Pop" busserebbe invano, al Museo del Ritratto...). Differenti, certo, completamente, dagli sguardi dei secoli precedenti, ma comunque in grado di trafiggere l'anima dalla loro penombra. Me li andrei a guardare lì, senza neanche bisogno di svuotare tre pareti, e un poco alla volta supererei l'incertezza.

domenica 31 agosto 2014

Meggiato (istinto e ragione)

E' arrivata. E' arrivata, infine. Proprio LEI.
E io... sono così felice!
A dirla tutta, ho dovuto riscattare un paio di Polizze Vita che avevo da qualche anno, e non è cosa che dovrei spifferare ai quattro venti, visto che il mio mestiere è continuare a venderne, non invogliare la gente a levarle via. Le Polizze Vita sono un investimento tranquillo e sicuro: sono impignorabili ed insequestrabili (aspetto sempre molto allettante per chi non vuole che altri possano mettere le mani sui suoi soldi), hanno nella quasi totalità dei casi una resa minima annua garantita in partenza, che salvaguarda l'investimento da fluttuazioni del mercato e/o altre sgradevoli sorprese, possono dare - a scelta - tutta una serie di interessanti garanzie accessorie a protezione della mia e della vostra serenità. Quindi, se potete (e con questo intendo se vi avanza qualche soldo all'anno - che non volete lasciare in Conto Corrente - dopo aver pagato il cibo, i detersivi, la bolletta del riscaldamento e tutte le altre spese minime per la sopravvivenza), un pensierino è sempre bene farlo. Magari come alternativa alla classica obbligazione, o al CCT, visto che ora come ora i Titoli di Stato non rendono un tubo.
Io l'ho fatto, più volte, a suo tempo. In fondo, io avrei anche qualche ragione in più rispetto a voi, perchè ogni anno ho degli obiettivi di vendita da raggiungere, e quindi stipulare ogni tanto Polizze Vita a me stessa è anche un modo per raggiungerli (con tutte le piacevoli conseguenze), oltre che un modo semplice e pulito per accantonare denaro in sicurezza.
Però l'ho già detto come in questo periodo io mi senta fuori dal mondo. Voglia di cambiare aria. Voglia di cambiare faccia, e facce intorno a me. Voglia di PRESENTE, oggi.
Dopo tutto, queste Polizze sono così... noiose. Sono solo dei pezzi di carta con una scadenza molto lunga. 
Non bisognerebbe mai chiuderle anticipatamente, lo so bene io per prima, soprattutto se stipulate in una formula che, alla fine del percorso, ti dà un bel po' di rendimento extra (ma veramente un bel po', in doppia cifra), ma devi arrivarci dritto come un treno e senza interruzioni, alla fine del percorso, perchè se cambi idea per strada ci smeni parecchio. Ed è giusto così, del resto: se vuoi la doppia cifra garantita devi garantire tu per primo di fare il bravo. Altrimenti, ciccia. 
Diciamo che sono formule per chi non cambia idea spesso. Sono formule per chi non è malato d'arte. Sono formule per chi non va a Madonna di Campiglio per festeggiare le dirette estive con gli Orler. Sono formule per chi non si trova davanti al naso la Sfera di Gianfranco Meggiato dei suoi sogni, proprio lei, proprio quella che ti è passata davanti agli occhi per anni e anni mentre tu potevi solo sospirare (e firmare Polizze). Eh, già. Quelli malati d'arte, che vanno a Campiglio per il weekend, che si trovano davanti al naso Meggiato e non solo Meggiato, va a finire che passano la notte immersi in complicati calcoli, e il lunedì successivo riscattano le Polizze perfettamente consci della percentuale di abbattimento del loro investimento finanziario.
Chissenefrega, però. Vi posso assicurare che, mentre dicono addio al cospicuo bonus finale della Polizza Vita, aprono la porta dello spirito ad una delizia che nessun pezzo di carta  potrà mai dare. Aprono un portone anche ad un tipo di investimento differente ma ugualmente interessante, se vogliamo essere precisi, perchè Gianfranco Meggiato è un nome ormai consolidato e molto desiderato, e sono certa che le sue opere sono sempre soldi ben spesi, a qualsiasi latitudine. Ma visto che ormai mi conoscete bene, sapete che questo aspetto della questione è per me decisamente secondario. 
Nemmeno mi ci metto, a discutere con chi non lo ritiene un Grande, oppure con chi non lo ritiene neanche un artista ma solamente un bravo designer, e mi fa la faccetta di compatimento come se avessi buttato il mio capitale - garantito e impignorabile - dalla finestra. Anzi, un bacio in fronte a chi non lo conosce per niente, non conosce i suoi lavori, e resta con la bocca aperta. Mi piace sentirmi dire: "Caspita, che bel Meggiato", dà il la ad un profondo dialogo tra appassionati. Mi piace anche: "Bel pezzo, chi è l'artista?"; è più raro, perchè Meggiato è abbastanza conosciuto da chi frequenta casa mia e colleziona arte, ma può capitare. In questo caso la discussione è più dotta e divulgativa. Tuttavia resta impareggiabile il silenzio, lo sguardo stupefatto, lo sbalordimento di chi non sa assolutamente nulla di arte contemporanea (e ce ne sono davvero molti, anche se a chi popola il mio mondo può sembrare strano) e se ne esce con un: "Bellissima, ma... che cos'è?". Io, questi qui, li adoro. Perchè adoro poche cose come poter parlare degli artisti che mi piacciono, e sono le domande così che me ne danno la possibilità. Non "chi è", tra l'altro, quanto "che cos'è". Il profano che si avvicina e, pur non capendo come e perchè, SENTE, AVVERTE qualcosa. Puoi raccontargli tutto. Puoi spalancargli una finestra con dietro un intero universo. Puoi dirgli "Sei tu, solo un poco nascosto", e vedere che faccia fa quando capisce che è esattamente così. Quella sfera centrale, così intima, così lucida, così perfetta, racchiude tutti i tuoi pensieri più nascosti, le tue paure, le tue gioie. La puoi intravedere appena attraverso questo reticolato scuro, che sei sempre tu, quando lasci che la vita ricopra il tuo soffio vitale, il tuo zelo, il tuo fuoco. Tocca. Mettici pure le mani sopra, dentro. Senti il vuoto, con le dita, dopo aver visto il pieno con gli occhi. 
Erano anni che ci pensavamo, a questa Sfera. Proprio a lei, perchè una cosa che non sempre capisce chi commercia arte per mestiere è che le opere non sono tutte uguali (certo, a meno che uno non compri per puro investimento, allora tramite il suo consulente va a caccia di un paio di Boetti due metri per due, li mette in una bella cassaforte senza neanche sapere come sono fatti, e la cosa finisce lì: io parlo per chi compra per il puro gusto, per la bellezza, per emozionarsi, principalmente). O meglio, è probabile che lo capiscano perfettamente (nessuno meglio di loro vede la differenza tra un quadro ben riuscito e una robaccia immonda, anche se della stessa mano e della stessa dimensione), ma quando si tratta di venderle ai collezionisti fanno finta che il concetto passi in secondo piano. Mi fa un certo che quando, in certe televendite, a chi vuole un quadro che invece è appena stato confermato da qualcun altro dicono: "Te ne tiriamo fuori un altro". Come se fosse la stessa roba! Come se fosse un chilo di pane! Mi dia due pacchi di fusilli! Non è possibile, non è solo il NOME. Non è solo il SOGGETTO. Non è solo la DIMENSIONE. E dirò di più, non è nemmeno solo il fatto che l'opera sia bella o brutta o così così. Anche all'interno di opere universalmente definibili "belle", c'è una musica che si sprigiona solo da quel pezzo, lui e lui solo, per me, e magari a qualcun altro non dice niente (per fortuna, così dev'essere). E' una vibrazione che ti attira. Mi sa che anche con l'arte vale il proverbio "Dio li fa e poi li accoppia", come con i fidanzati, o i cani. Compri cose che senti simili a te, ti circondi di opere che siano in sintonia con il tuo ritmo interiore, e se ci si avvicinano solamente non ti senti completo, è come sentire una stecca durante un concerto. E infatti spesso ci si perde il cuore, su certi pezzi, perchè non si può comprare sempre, perchè non è il momento, perchè c'è chi te li soffia sotto al naso, o semplicemente perchè non hai Polizze Vita oculatamente sottoscritte anni prima da riscattare.
C'è gente per cui le Sfere di Gianfranco Meggiato sono solo delle grosse palle di metallo, gradevoli ed ornamentali. Una vale l'altra. Tra l'altro, pur nei brividi sinistri che mi dà questa frase, ammetto che è una bella cosa che i suoi lavori PIACCIANO - in effetti - praticamente a tutti (anche a chi non le considera arte). Perchè trasmettono comunque qualcosa, anche a chi non considera il loro messaggio intrinseco (l'io nascosto, la ricerca del sè, l'alternanza di vuoti e di pieni come specchio della vita...). Magari perchè riescono a vederci l'enorme lavoro tecnico, la perizia certosina, o semplicemente l'opulenza. Ma nel mio caso, che oltre alla bellezza ornamentale, alla bravura, alle cesellature, conosco e fremo per ciò che rappresenta, figuriamoci se non ne cercavo una che mi rispecchiasse davvero interamente: non troppo grande, innanzitutto, perchè volevamo poterla tenere in camera. Esattamente di fronte al letto, così è la prima cosa che vedi quando ti alzi, l'ultima prima di addormentarti, e troppo grande soverchia (nemmeno microscopica però, perchè non siamo scemi, e se si colleziona bisogna comunque avere dei pezzi decenti e non solo le "voglie di"). 
Assolutamente con la sfera interna, perchè vuota mi inquieta, quella sfera interna è una certezza e un solido riferimento: c'è lei, ci sono io. Attorno alla sfera, tutto attorno, altra materia: io non sono una sfera divisa a metà, non mi sento incompleta. Ma non troppa, giusto qualche voluta elegante che sale, scende e si ripiega su se stessa come un gioco di nastri, perchè chiusa mi soffoca. Visto che ho già vissuto, salvo sorprese scientifiche, ben oltre la metà degli anni che si presume un essere umano normale possa vivere, mi sono meritata un po' di respiro attorno all'anima. Guardo fuori, insomma. E voglio poter riempire io i vuoti che trovo. E' incredibile come Meggiato riesca a creare oggetti PIENI (nel senso che occupano uno spazio fisico, tridimensionale per giunta) contemporaneamente ricchi di VUOTI, di una vaporosità, di una incredibile levità che sembra priva di peso, sembra azzerare la gravità stessa. 
Infine, le spennellature di quella sostanza nera, grumosa e opaca come catrame, che rabbuiano e falciano come notti improvvise il lucido bagliore del bronzo. L'ho già detto e ridetto come per me l'approccio all'arte sia una questione di fisicità (come con le persone, come con tutto ciò che mi prende da dentro, dalla base dello stomaco, da quel plesso solare che sobbalza e si strozza e ti fa mancare il fiato ai primi amori... ai primi GRANDI amori, a qualunque età). Mi piace TOCCARE anche i quadri - le perfette pareti in calce di Marcello Scuffi, i sentieri spatolati di materia di Sergio Scatizzi - figuriamoci ciò che è in tre dimensioni, e oserei dire che con Meggiato c'è anche la quarta dimensione, quella del tempo, perchè quando le sue Sfere si muovono non sono mai uguali a loro stesse, un attimo prima. La buonanotte alla nostra Sfera va data con le mani, con le dita, che scivolano giù per la liscia superficie bronzea ed arrivano alla pancia del vulcano, dove quel sostare di lava scura e rappresa ti attende, per imbrigliare i tuoi pensieri.
Su a Campiglio ce n'era una parete intera: dalle Sfere più piccole, seminascoste, alle grandi, a quelle Piramidi che trasformano il concetto delle Sfere in ricerca d'ascesi. A quell'enorme Disco in marmo bianco che io, tanto per cambiare, ho fotografato appiccicandoci il naso dentro, per non vedere i suoi bordi, ma per sentirlo fremere come un unico organismo vivente, una parete di coralli, una spugna marina fatta di luci e di ombre. Non l'avevo ancora vista, lei. E siccome niente succede mai per caso, ho visto che c'era proprio mentre salutavamo un amico che era appena rientrato dalle ferie e ci stava raccontando di questa sua ultima esperienza in una terra inusuale e primitiva. Un profondo conoscitore del concetto di "viaggio", che ama uscire fuori dagli schemi, ed evita come la peste le destinazioni caciarose e commerciali. Saper viaggiare, imparare ad accostarsi ad altre culture, ad altri Luoghi (intesi come luoghi fisici o luoghi dell'anima), è cosa che richiede tempo, è un percorso che presuppone una certa finezza interiore, un po' come arrivare a comprendere certe espressioni artistiche (quelle che, se prese da zero, suscitano ilarità, o fastidio, o ripugnanza). Quest'anno è stato in un posto della Madre Terra dove è forte e prepotente il concetto di "Madre": primigenio, basico, naturale nel senso più arcaico del termine. Un posto dove la Madre ti aggredisce, se non sei pronto. Ribolle e poi gela. Un posto che ti spacca in due l'anima, all'inizio ti spaventa e poi ti lega a sè, con una violenza ancestrale che azzera millenni di storie e culture, da Est ad Ovest. Io lo ascoltavo, e lo sguardo cadeva lì in mezzo, in mezzo a quella parete che rappresentava perfettamente tutto ciò. E poi ho visto LEI, e ho capito che era come l'Islanda: mi aveva aspettato, ed era arrivato nuovamente il momento di nutrire la parte più importante di me.


domenica 17 agosto 2014

Oggi parla.../19

... Antoine de Saint-Exupéry:

"Se verrai a trovarmi domani, io da oggi comincerò ad essere felice"



Futuro (bis)

Oggi (cioè, non oggi-oggi, questi sono post scritti qualche settimana fa, forse un po' cupi e malinconici, ma oggi-oggi l'aria pizzica e mi ha invogliato a postarli), oggi ho deciso di fermarmi per qualche ora a riflettere su cosa, esattamente, mi dia tanto fastidio - una epidermica repulsione - di questo mondo, di questa società, di questa umanità sempre più incazzata, sempre più aggressiva, sempre più isolata e iper-tecnologica. E credo di averlo capito: è la pretesa di costante immediatezza, il famoso "tutto-e-subito". 
Ecco, probabilmente è questo che non sopporto. 
Una frenesia che ci ha preso tutti, come il morso di un ragno, ed ha azzerato il concetto di TEMPO. Azzerato al punto che un minuto perso diventa una condanna, anche in ferie. Nei negozi, anche nei bar (anche per un  caffè!), la fretta è l'unica dominante, e non parliamo nemmeno di quello che succede negli uffici, a volte mi rendo conto che potrei diventare pericolosa: gente che ti manda una mail con una richiesta ics, e ti telefona dopo trenta secondi per sincerarsi che tu l'abbia letta (uno) e che tu la evada subito (due). 
Santo cielo, come odio le mail!! Uno strumento di comunicazione meraviglioso e gratuito (ti permette di collegare in un istante due persone che stanno agli antipodi) diventato la moderna ossessione. Ci sarebbe da fare un discorso più completo, in realtà, e cioè sull'importanza del contenuto di ciò che viene comunicato, perchè tutta questa facilità e questa immediatezza hanno poi fatto sì che si mandino mail (non parlo della pubblicità, spam o meno, quello è commercio) per qualunque boiata ci passi per l'anticamera del cervello. E non va bene nemmeno questo, almeno una volta la gente doveva prendere carta e penna, mettersi a scrivere con la manina santa, perdere un po' di tempo, appiccicare il francobollo, aspettare i tempi postali, e quindi per lo meno si scriveva ciò che valeva la pena di essere scritto, e ascoltato. Oltre al fatto che la carta, la penna, il francobollo, rendevano tutta l'operazione infinitamente più poetica. 
Comunque, anche lasciando da parte questo aspetto, pur fondamentale, della questione, le odio anche solo per come riescono a convincere il mittente che nel momento in cui ha cliccato "invia", la richiesta sia subito soddisfatta. Mi è capitato direi centinaia di volte: "Avete preparato la cosa tale? No? MA COME: VI HO MANDATO UNA MAIL!!". Certo, magari alle sette di sera, ed era la mail numero ottantatrè della giornata, tutte con la stessa priorità della tua. Questa tecnologia che ci fa credere di essere gli unici, unici ed indispensabili.   
Mi rendo conto che siamo arrivati al punto, almeno qui, almeno dove vivo io (e questa è la base per una considerazione successiva), che non siamo noi ad utilizzare, a sfruttare certi strumenti, ma siamo noi gli usati ed abusati. Siamo noi gli sfruttati. Ci facciamo mangiare i minuti, e questo sprofondare sempre più nella frenesia ci rende perennemente arrabbiati, perennemente insoddisfatti. Ho voluto - ho preteso! - che il mio nuovo ufficio, che ormai tra tre mesi compie un anno (è già passato un anno... eterno e densissimo come sempre, eterno e densissimo come la VITA), fosse un PUNTO FERMO. Parcheggi a iosa, così non mi potete dire di avere la macchina in doppia fila. Quadri dappertutto, così quando vi cade l'occhio su uno Scuffi, sulla Parigi di Cionini, o su quell'Emblema che Franco Ristori mi ha circondato di un'intera storia fatta di ruggine che non sembra nemmeno più lui, io vi vedo di sottecchi, mi fermo, e vi racconto. 
E' incredibile quanto nella locuzione "punto fermo" non mi fossi mai resa conto dell'importanza della parola "fermo". 
Ci sono arrivata per gradi, cercando di capire che cosa mi affascinasse tanto di certe realtà, perchè respirare certe atmosfere è benefico ed altre fanno male. Non per parlare sempre delle stesse cose, ma che la Bottega di Franco Ristori sia un luogo magico l'ho detto più volte; e mica c'è solo lui. Ci sono anche le Gelaterie Grom, ad esempio; posti dove ti siedi su uno sgabello, gusti ogni goccia di quella prelibatezza senza fine, e lo fai senza fretta. Anche da solo. E' un'operazione semplice, mangiare il gelato, ma solo da loro riesco a farla concentrandomi sul singolo minuto, sul tempo che si ferma perchè - per un minuto - è una coccola per me. Che ne so, magari dipende davvero dagli ingredienti genuini, in fondo anche Ristori (se mi si passa il paragone con le materie prime dei gelati) ha un'attività rimasta "genuina". Da lui ho assistito a scene allucinanti, assolutamente impensabili se paragonate al lavoro che faccio io: gente che arriva, chiede se la sua cornice è pronta (perchè, attenzione, doveva essere pronta per il tal giorno, non perchè si siano sognati di passare di là per caso), e gli rispondono di no, che non è pronta. E questi non possono nemmeno lamentarsi, non possono incavolarsi (magari tentano, lievemente, ma niente da fare): certi parti richiedono tempo. Quanto, non sempre si sa. E d'altronde, se vuoi uno dei suoi lavori devi per forza andare da lui, perchè solo lui li fa così. Sorrido, perchè sono paragoni che non reggono con quasi nessun altro mestiere, figuriamoci con il mio, ho avuto casi di gente che ha minacciato di assicurarsi altrove solo perchè l'impiegata doveva andare al bagno. Ma lui riesce ad imporre l'ATTESA, ed a volte è di una bellezza senza fine. Saper attendere rende più invitante ciò che viene atteso. Saper gustare il tempo, quale immenso privilegio.
Io, veneta immersa in un Veneto sempre più frenetico ed aggressivo, sono stanca. E spaventata. Vorrei capire se è così dappertutto oppure se siamo solo noi a lasciarci mangiare dentro in questo modo. Da tempo io e mio marito sappiamo che il nostro futuro non sarà per sempre in Veneto, solo che pensavamo ad un domani un po' più in là, un domani da pensione; il punto è che la pensione non arriva, che il domani non arriva. 
E allora perchè non farlo vivere OGGI, questo domani. Perchè non dare un valore a questo oggi dimenticato nella furia quotidiana, nel possesso di ciò che verrà che ti fa scordare tutto ciò che già hai. Vorrei un susseguirsi di nuovi "oggi". La Compagnia per cui lavoro è diventata enorme, e nel corso dei prossimi dieci-dodici mesi dovrà rendersi conto di molte cose: che cosa vuole essere, che immagine vuole dare di sè, con chi vuole lavorare. Molte Agenzie verranno analizzate, accorpate, fuse tra loro o reinventate. Se devo farlo, il momento è questo: ho messo in moto una macchina, a basso regime, e con un po' di timore perchè una cosa è parlarne parlarne parlarne, e una cosa è scriverlo, ma davvero, anche una volta sola. Però l'ho avviata, e l'ho lasciata andare; magari non succederà niente, magari succederà tutto, io ancora non lo so. Lascio che sia il destino a venirmi incontro, e, forse, il bello di certe scelte è proprio qui: non pensarci fino a quando non diventano vere. 
So che ci sono ancora, altrove in Italia, realtà operose, produttive, nelle quali le persone sanno comunque godersi un po' la vita, sanno fermarsi, sanno sorridere, sanno stupirsi. Case piene di quadri, case piene di libri, i cui proprietari camminano piano, mangiano piano, parlano piano, e si riempiono gli occhi di un oggi che è un punto fermo. Io voglio invecchiare lì.   

Futuro?

Ci sono cose che mi inquietano nel profondo. Professionalmente, e personalmente; ma in fondo, con il lavoro che faccio (al quale continuo cocciutamente ad attribuire una funzione sociale), direi che l'aspetto professionale è spesso strettamente legato all'aspetto personale. 
Una di queste, ad esempio, è l'atteggiamento dei giovani/giovanissimi nei confronti di tutto ciò che è "prevenzione"... parliamo quindi del fulcro del mio lavoro, direi. Non si tratta di scegliere una Compagnia piuttosto che un'altra per la mera R.C. Auto obbligatoria per legge, e possibilmente scegliere a prescindere quella che costa meno; siamo ben oltre questa semplice operazione. Siamo di fronte a persone (e non più bambini, sottolineo, persone ormai cresciutelle, che se ancora non occupano posti importanti se non apicali nelle aziende, nei consigli di amministrazione, in politica o in quello che volete voi, sicuramente li occuperanno entro una decina d'anni) che rifiutano tout-court di pensare a qualcosa che possa accadere oltre "domani". Dopodomani, suvvia, siamo magnanimi, o al massimo il mese prossimo. 
E non se ne vergognano per nulla, ne ho già parlato in un post precedente descrivendo le discussioni dei miei condòmini per decidere se acquistare un portaombrelli che prevedeva la spesa di venti Euro a famiglia. Niente da fare: con venti Euro mi pago le sigarette, piuttosto. Belli, chiari e decisi come il sole. 
Gente come me, gente che fa questo lavoro con passione e perchè ci crede (e con soddisfazione, quando annunci l'arrivo di corposi bonifici che salvano il lato B a famiglie in difficoltà per improvvise spese mediche, o aziende senza più il capannone eccetera eccetera), ci ha messo una trentina d'anni, dai tempi in cui io andavo ancora al Liceo, a convincere l'Italia e l'italiano medio che non solo era necessario, era addirittura DOVEROSO pensare alla prevenzione, pensare a difendere i propri beni da eventi accidentali, pensare a proteggere la propria persona dagli infortuni, pensare ad integrare la pensione. 
E' bastata mezza generazione per ripiombare indietro di oltre un quarto di secolo, e questo pensiero da figlio-dei-fiori-che-non-pensa-al-domani sta ora facendo il percorso inverso, cioè sta aggredendo anche lo zoccolo duro della generazione precedente, quella che PAREVA aver compreso l'importanza di certe scelte e invece adesso sta azzerando tutto, perchè in fondo è più bello, più semplice, più disincantato vivere alla giornata, tanto "cosa vuoi che succeda"...
Sono mesi che rimugino su questa cosa, perchè ormai le volte che ci discuto in ufficio e/o fuori con Clienti giovani non si contano più. E a me piace CAPIRE, mi piace calarmi nella testa delle persone con cui discuto, mi piace analizzare il perchè di certe risposte (intendo, se ci arrivi con un ragionamento ben definito oppure se sei realmente deficiente e parli per frasi fatte solo perchè le hai sentite in televisione). 
Poi mi è successo questo: ho partecipato ad un corso, uno dei tenti corsi di formazione che noi Agenti dobbiamo fare per forza, non importa se li segui o no, non importa se interagisci o no, oppure se dormi o se passi tutte le otto ore d'aula a giocare con lo smartphone, all'IVASS basta che tu abbia tot ore di formazione all'anno per confermarti abile ed arruolato (del resto, chissà se il cane magro del gioco a quiz riesce a firmare il foglio presenze con la zampetta). 
Un corso sulla Previdenza Complementare (neanche li conto più), che questa volta però non era tenuto con il solito taglio commerciale (noi abbiamo i prodotti migliori, noi siamo i più bravi di tutti, andate e vendete come dei dannati non importa a chi basta che lo facciate) ma da un signore pacato e molto tecnico. Mi è piaciuto parecchio, devo dire, e mi ha spaventato nel profondo. Mi è piaciuto perchè ha insistito sul fatto che noi, che in teoria saremmo i professionisti del settore, dovremmo cercare di differenziarci dal cane e tutti i cani come lui dando informazioni più complete e approfondite, cosa che nell'enorme babele della Previdenza Complementare non è facile. Insomma, evitare di dire "comincia a mettere via qualche soldo per la pensione perchè serve" e altre generiche frasi dal contenuto simile (vale a dire il normale approccio per chiunque proponga Previdenza Complementare ai giovani, quando cioè è realmente finalizzata alla pensione-che-non-si-sa-quando-nè-se, e non ad un'operazione di speculazione fiscale per pochi anni, per quelli che sono lì lì), ma davvero spiegare dettagliatamente PERCHE' è necessario sottoscrivere una formula di Previdenza Complementare, come funziona in ogni suo minimo ingranaggio, cosa è successo negli anni passati e come si presume si svilupperanno le cose negli anni a venire. Terrore puro.
Sono venuta fuori dall'aula con un bagaglio tecnico rispolverato alla stragrandissima, e con lo stomaco annodato. Non solo per ME, che lavoro da ventitrè anni e qualcosina, e che potrò andare in pensione solo tra altri vent'anni e mezzo; del resto, questo conticino l'avevo già fatto e cercavo di non pensarci troppo. Nemmeno per l'entità di quella che sarà la MIA pensione futura (una schifezza inguardabile), posto che in realtà le pensioni del futuro saranno agganciate, al momento della loro partenza, al PIL del futuro (anche qualora fosse negativo), e quindi è impossibile fare conti esatti troppo presto. 
Il mio stomaco pensava ai giovani e ai giovanissimi, e stava di un male boia. Persone con davanti un'autostrada di vita prima di arrivare alla pensione, alle quali io dovrei candidamente dire che la le Norme di Legge in tema di pensione sono state modificate - nel profondo! - già sette volte in vent'anni, e di certo non ci metterei la mano sul fuoco che nei prossimi venti non succeda di nuovo qualcosa di grosso. Ma bastasse questo. Aggiungiamoci la fame infinita di soldi di chi sta ai vertici di questo Paese (non faccio nomi, volutamente, perchè la fame non è di chi c'è ora, è una fame atavica, che mangia da sempre e non riesce a smettere di mangiare). Aggiungiamoci - in alcuni casi - l'inettitudine o l'incapacità di chi li amministra, questi soldi messi da parte. Io non sono più tanto sicura che la Previdenza Complementare sia così blindata, e parlo per esperienza diretta visto quello che sta succedendo al Fondo Pensione degli Agenti (figura di m/da davanti all'intera nazione, tra l'altro, guarda caso uno dei Fondi che sta saltando è proprio quello di coloro che li dovrebbero vendere, i Fondi, e quindi come minimo dovrebbero essere i più accorti nel farlo funzionare...); frasi del tipo: "Ci dispiace, qualcosina è andato storto, se vuoi ti spieghiamo il tecnicismo, non sembra sia nemmeno colpa nostra, fatto sta che la pensione integrativa che ti avevamo promesso e per la quale continuerai a versare, ovviamente, sempre le stesse cifre, in realtà sarà il 40% più bassa del previsto, tante scuse, eh".
Per chi è arrivato a leggere fin qui senza collassare, e quindi ha tutta la mia stima dato l'argomento, preciso che nella Previdenza Complementare non ci sono solo i Fondi, ma anche normalissime Polizze Vita chiamate PIP con le stesse caratteristiche tecniche e fiscali, e molto meno problematiche. Giusto per non piangere troppo. 
Ma torno al mio argomento, che è quella sorta di lieve (e sottolineo LIEVE) empatia che mi ha preso verso questa generazione di menefreghisti totali. E' vero, sono egoisti, pensano solo a loro stessi. Il guadagno di un mese (per chi lo ha) va rigorosamente azzerato entro trenta giorni, mettere da parte anche un solo centesimo li fa sentire dei disadattati. Hanno priorità per me incomprensibili: piuttosto che rinunciare alle ferie ammazzerebbero la nonna o il fratellino, per non parlare della palestra, o del telefonino ultimo modello, di tutta quella roba con davanti la "I". 
Ma non deve essere facile diventare adulti senza un futuro. Io ho studiato con la certezza del T.F.R., ho iniziato a lavorare con la sicurezza della pensione (a poco meno di 60 anni era, per le donne, all'epoca! Me ne mancherebbero appena una decina, mannaggia!), ho messo da parte i primi risparmi che rimanevano tali, senza erosioni per tasse, bolli, balzelli vari. Mi hanno cambiato le carte in tavola, ma almeno con qualche colpetto la macchina può restare in carreggiata. 
Questi qui no, gli hanno levato tutto. Deve essere dura lavorare (sempre che tu ce l'abbia, un lavoro) sapendo che lo farai PER SEMPRE, perchè quello è l'obiettivo, diciamocelo: farci arrivare in pensione quando stiamo per morire. Lavorare sapendo che i soldi che hai per le mani sono quelli e solo quelli, perchè su tutto ciò che metti da parte arriva la mannaia. Per forza non vedi l'ora di spenderli! Almeno ti godi un oggi sicuro... E' da incoscienti, ma incoscienti comprensibili. 
Mi sono presa un impegno personale: imparare a comunicare con loro, con questi ragazzi privi di un futuro, questi eterni bambini senza certezze. Imparare come far capire a tutti loro l'importanza di una tutela dell'oggi, se non altro. Devo riuscire a parlare la loro lingua, perchè è sbagliato crocifiggerli quando sono i primi ad essere disperati dentro. Magari il domani riusciamo a capovolgerlo. 

Esisto = pretendo

Non voglio più sentir parlare male delle Compagnie di Assicurazione. Non da chi non è addetto ai lavori, almeno, e quindi le conosce un po' più a fondo e può permetterselo. Siamo arrivati ad una specie di punto-di-non-ritorno, dettato probabilmente dalla follia collettiva generata da questa crisi (crisi di valori, crisi di pensiero, crisi di capacità di riflessione, crisi di dignità soprattutto). 
Ammetto che una minima punta di verità c'è, nel luogo comune che "le assicurazioni non pagano mai"; recentemente ho rabbrividito quando i nostri Liquidatori hanno suonato l'allerta, dicendoci che i controlli si stavano facendo strettissimi e che sarebbero arrivate le lenti d'ingrandimento per le pulci anche sulle denunce più semplici, sulle Polizze più semplici, sugli avvenimenti più semplici. Rabbrividito e tremato, perchè la responsabilità civile è la base di tutto il nostro lavoro, e non parlo solamente dell'obbligatorietà per chi ha un mezzo a motore registrato. Parlo di chi ha cani troppo allegri, o bambini piccoli troppo movimentati, oppure di chi scia, gioca a calcetto con gli amici, lascia i rubinetti aperti, fa cadere gli stendini dei panni dal terrazzino (con o senza i panni sopra, abbiamo visto negli anni entrambe le versioni), o vuole passare con il carrello della spesa tra due macchine parcheggiate molto vicine (parlo di casi reali, eh.... vado, ci passo... vado, ci passo... vado, ci passo, no, in effetti era meglio se non andavo). 
Quando una ragazza mi denuncia un sinistro dicendo che il cane dell'amico che era andata a visitare - cane buono come il pane, ma grosso ed esuberante, poverino, mica sarà una colpa la taglia - giocando le ha rigato il labbro, e il Liquidatore mi sospetta che questa qui sia andata apposta a cacciare la faccia nella bocca del cane (e bisogna vedere com'è questo cane, se davvero è buono, se invece è stato provocato...), io tremo. Perchè ne vendiamo parecchie, di queste piccole Polizze - piccole nel prezzo, ma che fanno dormire grandi sonni tranquilli - e se cominciamo con queste fisime ogni volta che c'è da dimostrare chi ha torto e chi ha ragione, oppure chi-ha-fatto-cosa, io chiudo tutto e cambio mestiere. Non posso perdere il sonno io solo perchè voglio i sonni tranquilli altrui. 
Poi, mentre mi chiedo cosa mai sia successo, perchè improvvisamente le Compagnie hanno deciso che nessuno ha più colpa di niente, che la maggior parte dei danni da responsabilità civile sia da respingere, mi capita che la mia impiegata dagli occhioni blu addetta ai sinistri mi passi una telefonata. E me la passa con la voce rotta dalla telefonata precedente, perchè se tu sei in autostrada e vieni parzialmente coinvolto in un incidente non puoi continuare imperterrito a guidare per i cavoli tuoi chiamando me e sperando che - miracolosamente! - ti risolva ogni rogna: quanto meno ti devi fermare e trascrivere la targa - almeno la targa! - di chi ha provocato il bailamme. Magari uscendo dall'autostrada, tornando un po' indietro, rientrandoci e risalendo il tratto incriminato (dove il responsabile è ancora fermo che si sistema alla bell'e meglio i suoi rottami): lo DEVI fare, perchè io non ho il dono della chiaroveggenza e non posso sapere chi è. E senza inversioni a U, mi raccomando. 
La telefonata del bailamme autostradale aveva rotto la voce alla mia Occhioni Blu - perchè nessuno ama essere insultato quando sta facendo il suo lavoro, e altro non può fare che il suo lavoro - che alla seconda non ce l'ha fatta, e l'ha passata a me, con tante scuse. Mi ha proprio detto: "Scusa, ma questa non ce la faccio, puoi sentirla tu?". 
Ed è andata più o meno così. 
Voce di donna: "Buongiorno, una mia amica si è fatta male a casa mia. Cosa dobbiamo fare per prendere i soldi?".
Io ho rivisto in un unico eterno flash (un po' come raccontano quelli che credono di stare per morire) tutti i miei ultimi dieci anni di lavoro da quando ho aperto la Partita IVA, l'evoluzione del mercato, e i Fondi Pensione, e Bersani e le sue lenzuolate, e le assicurazioni che non pagano mai, e le nostre eterne fusioni, e ho trovato chi mi fa otto Euro di meno; ho respirato a fondo. La telefonata è stata lunga.
Perchè il fatto di avere una Polizza che ti manleva dalle richieste che puoi ricevere per fatti di cui tu sia civilmente responsabile non significa - ma proprio per niente! - che se hai voglia di farti un viaggetto a spese nostre te lo paghiamo senza fiatare. Neppure il fatto di essere proprietario di una casa, peraltro.
Indagando appena un pelo sotto la superficie di quel "si è fatta male a casa mia" ho appreso con rammarico (le lesioni personali rammaricano sempre, io sono un'assicuratrice sensibile) che un'amica della Voce di Donna, che stava seduta sul suo divano in salotto, si è alzata ed ha sbattuto la mano destra contro una porta. "La porta è mia" - ha proseguito Voce - "quindi è colpa mia". Ho faticato un pochino a farle capire che le cose non stanno esattamente così. La porta non si è materializzata all'improvviso dietro all'ignara amica: era lì anche prima, quando questa l'ha attraversata per entrare in salotto e sedersi sul divano piazzato davanti - appunto - alla porta. Se la signora soffre di amnesia ricorrente e se ne dimentica, e si alza di scatto sbattendoci contro e frantumandosi un polso (un controllino per l'osteoporosi comunque non guasterebbe), io - ho usato proprio queste precise parole - "non ravviso una vostra responsabilità". Gliel'ho proprio detto così, in modo forbito, perchè "ma scusa che cavolo c'entri te se la tua amica è una rimbambita imbranata" non mi sembrava professionale, nonostante il caldo. E poi, diciamola tutta, non mi è piaciuto proprio per niente quel "cosa dobbiamo fare per prendere i soldi"; insomma, non mi ha detto "cosa deve fare" (la povera smemorata dalle ossa fragili). Il viaggetto pagato per due, quindi. 
Voce di Donna non se l'è messa via così facilmente; la capisco, magari aveva già versato la caparra, sono cose che seccano. Ha insistito dicendo che quello era il divano del salotto, accidenti, e "cosa ci fa una porta aperta in salotto? La porta del salotto deve stare chiusa". Lo sanno tutti fin dalle elementari, del resto. Che diamine, ci mancherebbe! Come i cinque postulati di Euclide: 
1) Tra due punti qualsiasi è possibile tracciare una ed una sola retta. 
2) Si può prolungare un segmento oltre i due punti indefinitamente.
(...)
E questo è il sesto: La porta del salotto deve stare chiusa! E perchè era aperta 'sta benedetta porta del salotto? A parte il fatto che l'amica c'era entrata da poco, in salotto, e quindi in qualche modo doveva essersi aperta e poi richiusa, a meno che oltre che smemorata e malata di osteoporosi non sia anche dotata di poteri paranormali. "Si era aperta per un colpo di vento". Allora torniamo alla mea - si dice in Veneto. Non c'è responsabilità tua, se ammetti che è stato il vento. Valla a fare al vento, la richiesta danni. Ma non c'è stato verso, dopo una decina di minuti di discussione Voce di Donna mi ha fatto la fatidica domanda: "Ma allora perchè la pago, questa assicurazione?". Assicurazione che comprende, tra l'altro, parecchie garanzie oltre alla semplice Responsabilità Civile della Proprietà (garanzia che avrebbe pagato, ad esempio, se la porta si fosse staccata dal cardine cadendo addosso all'amica in divano), o della Conduzione (garanzia che avrebbe pagato se Voce avesse aperto la porta per sbaglio addosso all'amica, ignorandone la presenza dall'altra parte). 
La paghi perchè qualcuno ripaghi a te la casa se ti va a fuoco, o per ripristinare il tetto nel caso in cui una delle nostre care e ricorrenti bufere te lo scoperchi come una scatoletta di tonno. Ma anche perchè se il tuo enorme albero da giardino al quale tu non hai mai fatto adeguata manutenzione improvvisamente cade sul palazzo a fianco, nessuno ti mangi fuori il salotto buono e la sua porta chiusa. Da notare che quest'ultimo esempio (l'enorme albero sfasciapalazzi) fa riferimento proprio ad un sinistro di Voce di Donna, di qualche anno fa. Magari è proprio per questo che ha pensato che qualunque cosa succeda a casa sua fa fiorire i milioni, chi lo sa. Però la disdetta me la manderà lo stesso. E qui siamo ben oltre la truffetta da quattro soldi di chi denuncia un furto mai avvenuto di un paio di orologi (e lo sa). Ben lontani anche dalle grosse truffe organizzate nei sinistri stradali, con tanto di testimoni e medici compiacenti, che mezzo mondo assicurativo tenta inutilmente di sradicare (tutte cose bruttissime, ma chi le fa sa perfettamente che sono sbagliate). 
Qui siamo su un nuovo pianeta, il pianeta dove non esiste più il concetto di prevenzione ma solo del do-ut-des. Vado a rendere reale l'assurdo pur di pagarmi le ferie, ed è giusto così. E se l'assurdo non si concretizza, mi arrabbio. Quindi, per un po' di settimane, se volete parlare male delle Compagnie di Assicurazione, fatelo senza che io vi senta. O al limite con voce da uomo.