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martedì 3 aprile 2012

Globalizzazione di inizio Novecento

Ho fatto un corno agli Orler. Mi è dispiaciuto un pochino, perché è pur sempre un tradimento, ma è stato un attimo di follia, e ne è valsa la pena, lo capirebbero anche loro. Lo dico sempre anche a mio marito, io sono un tipo fedele, ti adoro e non ti tradirei mai, ma se un giorno mi bussa alla porta Hugh Jackman e proprio proprio insiste… Di sicuro mio marito capirebbe!
Ho trovato il saruq americano dei miei sogni, da uno che evidentemente – visto l’andazzo che c’è qua fuori – aveva bisogno di liquidi. Ha funzionato il modello di vendita che avevo visto a Marrakech (vedi post), l’ho applicato al contrario (di quale puoi liberarti-fai prezzo giusto-adesso che puoi liberarti e hai fatto prezzo giusto vendimelo). E’ conservato meravigliosamente, ed è piccolo, cosa difficile da trovare, ma ci voleva piccolo date le dimensioni di casa nostra. Mi fa sorridere quando Nonno Catone Biasioli dice “immaginate questo tappeto ambientato nel vostro grande appartamento, nella vostra villa, nel vostro palazzo storico”, perché quelli che vivono in appartamenti piccoli evidentemente hanno altri pensieri che comprare tappeti pregiati. Ma avete la più vaga idea di quale gioiellino sia un appartamento piccolo ben arredato? Nulla si disperde, nulla è lasciato al caso, ogni centimetro di spazio – sia quello vuoto, sia quello pieno – è studiato per trasmettere bellezza ed armonia. Noi comunque adoriamo Nonno Catone, è un pozzo di scienza del tappeto, conosce tutto e tutti ed è di un’ironia bestiale (soprattutto quando riprende le giovani generazioni Orler perché non sanno usare i congiuntivi). Mi ricorda un mio vecchio, vecchissimo professore di quando ero all’Università – vecchio vecchissimo già allora – di quelli che trasudano storia, cultura e tradizione ad ogni passo; malfermo e rauco, era molto autoironico, quando parlava di nomi grossi della nostra letteratura (da Dante a Manzoni, con gli aneddoti spaziava parecchio nei secoli)  non mancava mai di aggiungere “il mio compagno di giochi da bambino” oppure “andavamo a caccia di ragazze insieme” e cose così. E per un attimo gli si credeva anche, tanto era convincente. Catone in compenso ti parla della tal bottega di annodatori di Esfahan, dicendo “dopo il Bar Tale girate a destra, passate oltre il mio amico tabacchino, salutate la Signora Tale che vive al 15 e poi trovate la bottega”. Tornando a noi, gli Orler di saruq americani piccoli non ne hanno, quindi è solo un mezzo corno.
Era un po’ che annusavamo l’aria per trovarne uno. Il saruq americano – facciamo un po’ di scuoletta  – è un tappeto ben preciso. A dirla tutta non bisognerebbe chiamarlo così, anche se questa terminologia ormai è entrata nell’uso comune, perché ogni tappeto saruq è e sempre resterà tappeto persiano, dal momento che è annodato in Iran, indipendentemente da dove poi viene o verrà venduto! Il termine “americano” fa riferimento ad una specifica produzione di tappeti:  all’inizio del Novecento un lungimirante imprenditore americano avviò un centro di annodatura ed esportazione di tappeti in Iran, nella zona di Sultanabad/Arak dove la manodopera costava evidentemente meno rispetto ad altri tentativi precedenti, commissionando manufatti da portare negli Stati Uniti, immenso mercato vergine per quanto riguardava il tappeto. Si sa come sono gli americani, hanno un gran senso di appartenenza alla loro nazione, cercano di avere sempre qualcosa di tipicamente “loro” (le macchine, le case, i parchi…) ed hanno gusti particolari. Molto U.S.A. Il lungimirante imprenditore quindi modificò i classici impianti iconografici persiani, con una combinazione di disegni e colori che risultasse gradevole proprio per loro, e che nel tempo è rimasta come un marchio: niente cantonali, niente grande medaglione centrale, tanti rametti, foglie, palmette, blu e rosa. Non un rosa qualsiasi, un rosa che si otteneva dopo aver lavato e sciacquato le lane per ore ed ore dall’originale mistura di rosso di robbia e di dugh, che è una sorta di beverone a base di yogurt: il rosa DUGHI, che è particolare e bellissimo, ed in effetti sta molto bene con il blu. Potremmo definirlo una sorta di rosa salmone, o rosa "carne", quel colore che – quando io facevo le elementari – mancava sempre dalla dotazione standard di pennarelli, e chi poteva mandava la mamma in giro per cartolerie a cercare un pennarello sciolto che permettesse di disegnare bene le persone, dal momento che con il normale rosa-pennarello sembravano tutte o alcolizzate o reduci da un’ustione da spiaggia. All’epoca, un bel pennarello color rosa carne diventava merce rara di scambio (come minimo una ventina di figurine), e comunque contraddistingueva i più bravini, se non altro i perfezionisti. E’ buffo pensare che tutto ciò denota come le nostre classi fossero composte solo da bambini europei (macchè europei, tutti italiani, tutti della stessa città, tutti dello stesso viale!), era impensabile l’integrazione e la varietà che hanno in classe i bambini di oggi, e che a me personalmente sarebbe piaciuta tanto: mi affascinava scoprire nuove culture, storie diverse, e diverse tradizioni. Oggi probabilmente non si va a caccia di un pennarello rosa carne; mi posso immaginare la richiesta: “Mamma, mi compri un pennarello giallo carne?” O nocciola carne.
I bambini di oggi sono fortunati, nascono già senza confini; ai miei tempi potevamo al massimo sfoggiare, come nel mio caso, un papà nato in Africa, anche se solo per il fatto che nel 1940 l’Etiopia pullulava di italiani, ma agli occhi di un bambino delle elementari questo dettaglio sfuggiva e la cosa destava la massima invidia.
Tornando al nostro piccolo saruq, non mi affascina solo perché è bello, particolare, riconoscibile e ben tenuto. Mi affascina perché trasuda storia (anche lui come il mio vecchio ex-professore), e io in questo sono una maniaca. Nessuno di noi esisterebbe senza quel preciso incrocio di persone, di nomi che si sono incontrati al punto giusto nel momento giusto. Per fortuna nella famiglia di mia mamma hanno la memoria lunga, sono riuscita a ricostruire il mio albero genealogico fino ad inizio Ottocento, con tanto di date e luoghi di nascita e morte, con tutti i figli annessi e connessi, non solo quelli che hanno portato fino a me. Con mio papà è più complicato, sia perché evidentemente nella sua famiglia non è mai stata una cosa molto sentita, e con i parenti morti ci si ferma ai bisnonni, sia perché lui è nato burlone, e quando non sa qualcosa che non ritiene importante tende ad inventarsela, quindi non saprò mai se davvero ho una bisnonna ungherese che di cognome faceva Puja, come sostiene lui. Sono anni che faccio la tira allo scatolone pieno di foto dei miei avi che mia zia ultra-ottantenne conserva sotto al letto: foto di donne con lunghe vesti e grandi cappelli, foto di bambini vestiti come piccoli adulti, foto in posa negli studi, di quelle che si facevano per le grandi occasioni. Mia mamma mi dice sempre che possiamo scannerizzarle e tenerle tutte in una chiavetta USB, ma non sarebbe la stessa cosa! Non sono solo “le immagini”, è anche il supporto che fa la storia, il cartone ingiallito con la firma svolazzante del fotografo palermitano, o la dedica sul retro di qualche fidanzato. Non voglio la copia di una fotografia, voglio QUELLA fotografia, quella che era in un cassetto quando mio nonno è partito per la Grande Guerra, quella che chissà dov’era quando sempre lo stesso nonno era prigioniero dei tedeschi a Cestocova durante la Seconda Guerra, e mia mamma bambina era sfollata in Friuli. Quella che non si è persa nei tanti traslochi, quando la famiglia di mia mamma ha lasciato il grande palazzo lagunare dove lei era nata, quella che è arrivata nelle case moderne ed un po’ insulse che tutti abitiamo ora.
Vista la particolarità della storia degli americani, un po’ fuori da questo nostro vecchio mondo europeo, chissà dove è stato il mio saruq negli ultimi cento anni. Considerando le dimensioni, probabilmente nella cameretta di qualche bambino, o in qualche studiolo (solitamente i saruq americani hanno dimensioni abbondanti per via degli enormi saloni delle enormi vecchie case americane). Non hanno vissuto le Due Guerre nelle loro case, gli americani, ma lui avrà visto ugualmente gioie e dolori di qualche famiglia, avrà sentito bambini crescere, diventare adulti, magari dirigere aziende o studi importanti, oppure avviarsi a fare i soldati per guerre non loro. Ed alla fine, con l’avvento della modernissima e pratica moquette, qualcuno l’avrà eliminato (questo succedeva davvero! Molti mercanti del tappeto raccontano che c’è stato un periodo in cui gli americani pagavano per farsi portare via tappeti – pregiatissimi ed antichi – perché era arrivata l’ora della moquette!) e qualcuno l’avrà riportato nella buona vecchia Europa. Fino a me.

2 commenti:

  1. Volevo integrare lo scritto suggerendo che l'imprenditore che avvio la realizzazione di "Saruq americani" era una ditta di New York specializzata nell’importazione dalla Persia, la Tomshandjian, che incaricò un suo rappresentante armeno, tal Tyriakian, di saggiare il mercato valutando la possibilità di avviare una produzione ed importazione di annodati creati su decori originali. Per maggiori ragguagli: http://infotappeti.freeforums.org/sul-periodo-americano-t1143.html
    Un saluto.

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    1. Buongiorno gentile Antonio, pubblico più che volentieri il suo commento ed il link al forum di Infotappeti, che tra l'altro conosco e visito spesso - anche se non sono iscritta - perchè ci sono interventi estremamente interessanti (sui tappeti ho tutto da imparare). Grazie mille e un cordiale saluto.

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