Mi piace viaggiare in treno, parlo di viaggi lunghi e confortevoli, non di pendolarismo in piedi da studente. Non lo faccio spesso, ma quando lo faccio diventa una pausa obbligata da gustare dall'inizio alla fine. Mi piace il fatto che, una volta deciso l'orario, il resto non sia più modificabile: sei sul treno, al tuo posto, non puoi decidere niente, non devi fare niente altro che viaggiare, o al limite se vuoi ti concedi gli annessi e connessi tipo leggere, risolvere cruciverba, mandare SMS, scaricarti le e-mail, ma sono tutte cose che io non faccio perchè posso farle anche a casa, non avrebbe senso sprecare tre ore di treno con qualcosa che posso fare a casa mia. Quando si viaggia in macchina c'è potere decisionale (prendere una strada piuttosto che un'altra, fare una pausa per un caffè, per il bagno o anche solo per sgranchirsi - spesso le tre cose insieme per ottimizzare i tempi), oltre al fatto che ovviamente si guida, e quindi ci si deve concentrare su quello. Solitamente mio marito è quello che guida e si concentra, mentre io gestisco gli argomenti di conversazione e - tipico delle mogli - ogni tanto gli chiedo di frenare o non stare troppo attaccato all'auto che ci precede. Me la cavo benissimo come navigatore, e devo dire che cedo malvolentieri questo ruolo all'apposito apparecchio, obbligatorio quando si devono attraversare città sconosciute; tra una città e l'altra però me lo riprendo, come quando da bambina andavo in vacanza con la famiglia dalla zia sul lago di Como. Viaggio lungo, in cinque dentro una Fiat 850 Special bianca con gli interni rossi (il gatto è arrivato dopo), io seduta dietro alla mamma e mio fratello seduto dietro al papà che guidava, con mia sorella in mezzo a fare da barricata per evitare scaramucce. Tenevo in mano per tutto il viaggio l’Atlante Stradale Nord Italia del Touring, quel librone largo e fino con la copertina bordeaux gommosa che si scollava solo a guardarla; lo conoscevo a memoria: partenza dall'anonima città scritta in nero e basta, che non merita di essere visitata neanche dal "turista affrettato" (ma vicina vicina a quella con la banda verde grossa grossa che "merita un viaggio"), autostrada fino a Dalmine e poi su verso e lungo il lago. In base alla scala della Guida, a un centimetro corrispondevano due chilometri, e io sentenziavo pian pianino dal mio angolo dietro a destra: tra due chilometri passeremo sotto ad un viadotto, oppure tra quattro chilometri passeremo sopra un corso d'acqua, tra un chilometro oltrepasseremo il tal casello o passeremo per il tal paese. Così per quattro ore, tante ce ne volevano in cinque in una Fiat 850 Special: la strada per la santità dei miei genitori è sull’Atlante del Touring.
In treno invece non si suggeriscono itinerari, è già tutto pronto. Mi raggomitolo nella mia poltrona, che per quelle tre orette sarà il mio nido protettivo, e mi gusto le due cose tipiche del treno: paesaggio e umanità. Il paesaggio che scappa via, lo vedi da dentro a fuori, veloce ma non troppo. Mi piace osservare che qui, in Italia, non c'è soluzione di continuità neanche in mezzo alle campagne emiliane, o alle risaie del Piemonte, o le colline toscane: c'è sempre "presenza". Città, capannoni, supermercati, parcheggi. Casette, animali, persone. Verde, marrone, grigio, bianco. Non sono mai stata negli Stati Uniti d'America, ma mi immagino chilometri e chilometri di nulla totale intorno. La buona vecchia Europa invece ti mostra sempre qualcosa: un volto, una chiesetta, una fila di pini. Trovo sia estremamente rinfrancante. Ricordo una cosa che mi aveva colpito moltissimo all'Università, durante il corso di Storia della lingua italiana (o forse era Dialettologia, non ricordo e del resto è passato parecchio tempo): se provassimo a partire a piedi da Trieste verso il Veneto, e poi proseguissimo fino al Piemonte, e poi giù sempre a piedi per tutta l'Italia fino alla Sicilia, riusciremmo a comprendere perfettamente tutti, anche se si esprimono in dialetti che – se ascoltati dal nulla - ci sembrerebbero incomprensibili. Perchè è tipico dell'Italia non avere interruzioni brusche, non avere barriere naturali, per cui le varie parlate si fondono nelle zone di confine trasformandosi con naturalezza, e quindi un percorso dolce e graduale come appunto quello fatto a piedi permetterebbe una altrettanto graduale comprensione (cosa che ovviamente non può avvenire se io veneta sbarco di colpo con l'aereo in Sicilia, ad esempio). E poi mi piace come ogni luogo ha il suo paesaggio: anche senza leggere i cartelli delle Stazioni potrei dire esattamente quando si entra in Toscana, basta guardare gli alberi, io e mio marito li chiamiamo "gli alberi Masi" per come li dipingeva il compianto Roberto Masi, erano la sua firma, uno in ogni quadretto (che poi sono cipressi ma non i cipressi che abbiamo noi qua, sono più cicciotti e meno appuntiti). Gli alberi Masi che ad un certo punto spariscono, e allora capisci che sei in Lazio. Oppure quando si va verso Milano, e le campagne perdono i nostri tipici colori per diventare un po' più grige (per non parlare delle tratte in cui si vedono le montagne: le Alpi lombarde sono tracagnotte e scure, sono le sorelle brutte delle Dolomiti).
Poi c'è l'umanità. Per quelle tre ore si verifica una sorta di convivenza forzata tra sconosciuti, mica come i viaggi in macchina in cui scegli con chi viaggiare; ma parlando di Uomini questo post rischia di diventare troppo lungo (evidentemente i treni mi ispirano), e quindi per la parte umana del viaggio giriamo pagina.
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