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domenica 22 aprile 2012

Quando ho voglia non ho tempo, quando ho tempo non ho voglia

Succede esattamente questo, e mi dispiace, perché l’appuntamento quotidiano con la mia paginetta web era un bel modo per iniziare la giornata. Mi rendo conto che sono passati più di quindici giorni da quando ho postato l’ultima volta, un lasso di tempo mai lasciato passare prima, da quando ho aperto Trecose. Non che sia rimasta senza idee, anzi a dire il vero ho sempre il mio file Word “Post” che mi aspetta, con le tracce di qualcosa di abbozzato che sonnecchia, in attesa che io lo butti giù dal letto e lo faccia diventare più grande, lo faccia correre. Ce ne sono almeno tre, di post dormienti; e poi si sa, uno tira l’altro, come le ciliegie: scrivo di una cosa che mi è successa e basta una parola, una frase, per accendere la lampadina dell’argomento successivo.
Ultimamente mi sento come quando si esce da una influenza tosta, di quelle che ti picchiano tutte le ossa e non puoi fare altro che star disteso a letto o in divano sotto la copertina, tanto se ti alzi ti gira tutto: testa, stomaco, libreria. Sei lì disteso e ti agiti pensando a tutto ciò che ti aspetta al lavoro (le normali dieci ore giornaliere diventeranno dodici per qualche giorno, per smaltire l’arretrato), finchè comprendi che in fondo puoi girarti dall’altra parte, tirare su la copertina e dormire-dormire-dormire, oppure leggere tutto un libro e non un capitolo smozzicato alla volta (giramenti di testa permettendo), e sei anche giustificato, come a scuola! Parentesi: non erano bellissimi quei momenti in cui tutti tremavano in attesa del nome di chi doveva uscire interrogato, con il professore che andava su e giù con il dito sul registro dalla A alla Z, dalla Z alla A, seguendo chissà quale criterio complicatissimo per designare il Martire, mentre tu invece placido come un gattone che si stiracchia al sole avevi appena esibito il foglietto salvifico: “Mio figlio Tizio Caio non ha potuto prepararsi adeguatamente causa motivi familiari, si pregano i Sigg.ri Professori di esentarlo da interrogazioni in data odierna”? Io l’ho sfruttata poche volte, ma il senso di benessere me lo ricordo ancora, che poi non è lo stesso di quando all’ultimo anno di Liceo ti puoi firmare le giustificazioni da solo, i permessi di entrata e uscita, tanto sei maggiorenne; a quel punto perde tutto l’appeal. La giustificazione produce benessere se firmata dai genitori, è l’avallo dell’Autorità che conta. Altra parentesi: chi ha mai capito il criterio con cui certi Professori chiamano il Martire? Noi impazzivamo: ce n’era una che apriva un libro a caso, leggeva il numero della pagina e sommava le cifre (io non capisco niente di calcoli, ma non è che così rischiano di uscire certi numeri più spesso di altri?). Un’altra seguiva diligentemente l’ordine alfabetico, ma rigorosamente fino alla C, e poi ricominciava dall’inizio, di nuovo tutti fino alla F, e poi dall’inizio, e via così, con il risultato che il mio compagno di classe Agazzi alla fine dell’anno poteva contare su una quindicina di chiamate, mentre Zennaro doveva rincorrere la Professoressa nei bagni pur di farsi interrogare e non avere un buco in orale. Io ho il cognome che comincia per B (ero la seconda, dei B), e le mie dieci interrogazioni erano di prassi. In quinta abbiamo messo su anche un giro di scommesse a soldi per capire quante volte sarebbe toccata ad Agazzi. Terza parentesi, e poi le chiudo tutte in un colpo (tonda, quadra e grafa): il massimo però era il Professore di Biologia, elemento che per ben due volte mi ha fatto un tiro di questo genere: gli porto la giustificazione al lunedì, perché fatalità avevamo biologia giovedì e lunedì, e quando per “motivi familiari” dovevo assentarmi tutto il weekend venerdì compreso era evidente che i compiti dati giovedì per lunedì non potevano essere fatti; ci poteva arrivare anche da solo, ma era sempre meglio munirsi di giustificazione. Quest'uomo non trovava di meglio che dire, con la mia giustificazione in mano: “Bene, allora già che sei qua fuori dal banco – la giustificazione andava ovviamente consegnata alla cattedra – fermati che facciamo un bel ripassino che ti vale come orale”. Chiedendomi la roba del giovedì. La prima volta mi ha spiazzato, pensavo addirittura che mi prendesse in giro, magari voleva solo far ridere la classe (oppure far vedere che lui, in quel momento, aveva potere di vita e di morte su di noi, potere che oltrepassava quello paterno e materno, evidentemente: chissà che vita di m/da aveva a casa, se ne veniva fuori così frustrato). La seconda mi sono rifiutata di farmi interrogare su argomenti che era già chiaro in partenza che non avrei saputo, spiegandogli senza giri di parole cosa pensavo di lui e del suo curioso tempismo. E visto che a scuola io andavo abbastanza bene (per usare un eufemismo), non ci potevano essere equivoci. Lui, per la cronaca, si ricorda di me ancora oggi, lo so per certo, perché mia sorella l’ha incontrato durante una visita guidata ad una Mostra sulla Preistoria (lui era quello che spiegava i dinosauri ai bambini), e solo sentir nominare il nostro cognome l’ha fatto sorridere. Sotto ai dinosauri.
Ma torniamo all’influenza; lei ovviamente poi passa, e quando sei al lavoro oberato ed ansioso quasi ti trovi a rimpiangere quei due giorni di ozio totale; forzato, ma totale. Ozio che volontariamente e responsabilmente non potresti mai permetterti.
Direi che a me è successo più o meno così; a fine Dicembre mi è passato sopra un treno, un treno bello grosso, che evidentemente ha generato quattro mesi di stasi. Quattro mesi durante i quali, se avevo voglia di scrivere, me ne fregavo del resto e mi mettevo a scrivere, cacciavo lì la giustificazione e giravo le spalle, mentre adesso c’è sempre qualcosa di più urgente da fare, e rimando. Quattro mesi di divano e copertina per testa e cuore, fino a quando il cinghiale - quello del post del 10 Gennaio -  decide che è ora di scendere dai tuoi polmoni ed andare ad appesantire il respiro di qualcun altro (e ovviamente assieme al cinghiale se n’è andato anche il buon Di Cataldo, mi ha lasciato lo scudo e fatto ciao ciao con la manina). Sapevo perfettamente che sarebbe passata, anche se non avevo idea di quando, ma forse il bello di questi dolori di vita è anche questo: sai che andranno via, basta solo arrivarci. Avere pazienza, tanta, perché passare da cento a zero in una sera fa un male boia, e quindi devi elaborare tutti i ricordi, conservare quelli belli che faranno sempre piacere, smussare quelli così così ed eliminare quelli cattivi (non ha senso farsi male da soli). Passare da una telefonata ogni giorno, da una risata ogni giorno, da una confidenza ogni giorno, a niente. Poi una telefonata arriva più o meno dopo due mesi (più o meno un corno, diciamo pure dopo esattamente sessantaquattro giorni), durante la quale ti accorgi che qualcuno sta facendo ancora manovra col famoso treno, e rischia di passarti sopra un’altra volta come niente fosse, allora ti scansi, e prendi un altro binario, via e lontano. E quando stai bene davvero, e sorridi, ti imponi di continuare a scrivere, anche se vuol dire svegliarsi mezz’ora prima, perché non è più questione di divano e copertina, è diventato parte vera di te anche questo. In fondo non era questo che volevi? 

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