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sabato 17 agosto 2013

Gratitudine

Ormai mi conoscete bene tutti, e lo sapete: io non scrivo a comando. Mi deve venire da dentro, dev'esserci uno stimolo particolare, un'emozione, quel "qualcosa" che fa partire l'incipit (fondamentale lui, con un incipit sbagliato si rischia che tutto poi sembri noioso, anche se non è vero), che fa sì che le parole si leghino l'una all'altra. 
Mi devo poter sentire come quando ero piccola, e avevo la mania (anche questa è stata generazionale) di infilare le perline: una dietro l'altra, quasi uguali per forma ma mai per colore, a comporre infinite collanine, piccoli bracciali, coroncine, tutte di cromie diverse così com'era l'umore del momento, intenso e macchiato di rossi e arancioni, o solare come un prato, lunga distesa di giallo e di verde, oppure ancora più cupo, di blu e violacei screziati - sempre se può esserci un giorno cupo nella vita di una bambina di dieci anni. Io poi, ovviamente, avevo perfezionato la tecnica, perchè essere come tutte le altre bambine non mi bastava mai, dovevo sempre andare "oltre". Mi ero costruita, con il coperchio di una scatola da scarpe e degli spilli, un vero e proprio mini telaio, con il quale non mi limitavo ad infilare collane, bensì producevo vere e proprie fascette intessute di perle, lunghe una ventina di centimetri e larghe un centimetro, un centimetro e mezzo, a seconda della grossezza della perla. Una decina di fili tesi in ordito, e poi con l'ago via via a infilare orizzontalmente, avanti e indietro, creando la trama, perla dopo perla, con i colori che formavano strani disegni, fino alla fine, quando fissavo le due estremità con dei pezzetti di alcantara incollati, e poi la fettuccina a legare il polso, o più spesso la fronte, come una piccola indiana imbronciata. Finita una, già ripartivo con la mente fissa sulla seguente, più bella, più calda, più nuova.
Così le parole: è necessario che fluiscano, che sia l'emozione latente a spingerle fuori, che si inanellino sul filo della carta, o della tastiera, riempiendo un vuoto che resta sempre e solo momentaneo. Emozione che può essere positiva o negativa, certo, perchè posso scrivere di meraviglie o di rabbia, di affetti o di delusioni. Possibilmente sempre con quella punta di ironia che sdrammatizza la vita, quando sembra faccia apposta ad apparire pesante o insormontabile: un filino di ironia la rimette in riga, e le ricorda che siamo noi a tenere le fila del nostro destino, delle nostre gioie e dei nostri dolori, e non lei (e farle capire chi comanda è fondamentale fin da subito, o si finisce per piangersi un po' troppo addosso, cosa che non ha mai aiutato nessuno).
Poi però capitano anche momenti in cui ti senti in dovere di metterti lì e sdebitarti, in qualche modo. Anche se sono emozioni già provate, non importa. Vuoi solo forgiarle nuovamente e farle diventare una sorta di "grazie". E' quanto sta succedendo a me ora, da inguaribile, emotiva, romantica sognatrice quale sono (quando depongo l'uniforme ed il cipiglio da Comandante Supremo del mio universo), dopo le ultime due Mostre fiorentine dell'inarrivabile Armodio. Ho già scritto tre volte di Armodio, e non voglio rischiare di ripetermi, anche se a mia volta - a dire il vero - non mi stanco mai di "gustare" i suoi dipinti: del resto, non è che smettiamo di bere o di mangiare, di dormire o respirare solo perchè sono gesti già compiuti il giorno prima, o quello prima ancora! Abbandonarsi ad un'opera di Armodio è un abbeverarsi alla fresca fonte della "pittura senza errori": non stanca. Non stanca mai. E coinvolge tutti i sensi, non solo la vista (quello che appare il più ovvio), o il tatto, se ti spingi - timoroso, con il lato più bambino di te - a sfiorarla per vedere se qualcosa, di quella immobile perfezione, magari si muove piano sotto le dita. Un cartiglio a rilievo, con un soffio di vento. Un libro che fruscia. Un filo che si allenta. Giusto per sobbalzare nell'anima e dire a te stessa che sì, avevi ragione, non poteva che essere viva! Coinvolge il gusto, anche se ci vuole un po' di esperienza e tanto esercizio, ma alla fine senti davvero che, entrando dagli occhi, qualcosa di indefinitamente morbido, soavemente dolce, fatto apposta per placare ogni sete ti scivola giù per la gola, solleticando appena appena la lingua, come una lieve acquolina davanti ad una tavola imbandita (è davvero tavola, è davvero cibo per la mente e l'anima una Mostra di Armodio). Coinvolge l'udito, e coinvolge l'odorato, perchè c'è musica infinita nel silenzio di un palazzo museale (basta solo saperlo tradurre, cadenzando il rumore dei passi e stemperando il brusio delle voci di ammirazione in sottofondo), ed il profumo della storia che esce dalle sue pareti si mischia in un'essenza unica e delicata con il legno delle tavolette, o delle cornici.
Nel giro di un mese Firenze è tornata protagonista due volte, ospitando Armodio praticamente in contemporanea, alla Biblioteca Medicea Laurenziana ed a Palazzo Medici Riccardi. Noi non ce ne siamo persa una, piuttosto mi sarei fatta staccare un braccio, anche se erano entrambi giorni tosti e sarebbe stato utile restare in ufficio (tuttavia, vedere lo sguardo della Somma Acidini che fulmina Franco Ristori in ultima fila, perchè nel silenzio assoluto della sua presentazione risuona la sirena da ambulanza che Franco ha come suoneria del cellulare, non ha prezzo). 
Ma di Armodio ho già detto molto, e per gli smemorati e i pigri riporto; guai a voi se procedete senza prima rileggere questi, se già non li ricordate, perchè ogni storia deve avere un percorso ben definito, e questo è il percorso che mi ha portato a comprendere Armodio, al quale - come per tutto ciò che è "grande" - non si arriva mai dal nulla:


Queste ultime volte invece mi sono soffermata di più su tutto ciò che stava "attorno" ad Armodio. 
Forse è una deformazione che ho preso da quando è iniziata la mia amicizia con Franco Ristori, che vede tutte le cose a partire dai bordi. E comunque mi ci voleva, perchè a furia di trovare soluzioni partendo dal fulcro dei problemi, non ti accorgi quanto può essere semplice arrivarci partendo dalla periferia; anzi, magari dalla periferia non ti appaiono neanche come problemi, ma come robetta da niente, da farci spallucce, una risata e tutto scivola via. Grande uomo, Ristori, la sa davvero lunga su un sacco di cose, basti pensare a quanti artisti, quanti galleristi, quanti studiosi sono passati per la sua Bottega, per le sue mani, e lui è ancora lì, silenziosamente sornione, a guardare chi passa e chi torna. A chiudere (nel suo caso) il rettangolo della vita. 
Gli allestimenti delle ultime Mostre di Armodio sono frutto del suo ingegno, e a mio parere il massimo l'ha raggiunto alla Biblioteca Medicea Laurenziana. Perchè in effetti sono i LUOGHI che trasudano storia, che danno il tocco in più alle opere, che apportano loro il respiro vitale mentre, contestualmente, tolgono il fiato agli estatici astanti. Attraversare la BML per arrivare alla Tribuna d'Elci a me l'ha tolto, di colpo. Sarà che io subisco da morire il fascino dei libri, indietro nei secoli, intesi come strumento di trasmissione del sapere oltre che di bellezza fine a se stessa. E' una sensazione che mi porto dietro dai tempi dell'Università (a volte andavo a prendere qualche tomo alla Marciana solo per vedere la Marciana e basta). Il pensiero dei copisti, i codici miniati. Le pergamene. Gli inchiostri. La carta. Gli icunaboli. Le legature. Prosaicamente tutte cose che non danno da mangiare a fine mese, ma se avessi capito come fare per vivere d'aria mi sarei barricata in una qualche Biblioteca storica per il resto dei miei giorni. Per la cronaca infatti, quando ho saputo che la Mostra settembrina a Roma di Claudio Cionini sarà all'interno di una di queste sono andata fuori di testa (ragazzo in gamba il Cionini, infatti c'era anche lui da Armodio a Palazzo Medici Riccardi, prelibatezza per artisti e non). 
La BML è ultraterrena, con il suo soffitto intarsiato che ride della tua pochezza umana, con il suo pavimento, che a quella umana pochezza chiede protezione, con le sue panche strette strette, che ancora conservano lontani brusii. Con la volta accecante della Tribuna, che mi ha ricordato un piccolo Pantheon. Solo dodici tavolette per la Tribuna d'Elci, ma dodici per chi mastica un pochino di numeri è numero importante, numero biblico ricorrente, numero simbolico, ci scommetto la mia tavola di Armodio con l'uovo che Armodio lo sapeva benissimo, e ci ha giocato un po' su, visto che anche lui ha una vera mania, per queste cose.
Poche, uniche, somme, perfette. Non fissate a muro, ma appoggiate ad altezza pancia (in senso sia letterale che emozionale), quasi levitanti su invisibili supporti, sopra metri e metri abbandonati di raso blu, luminose onde, come morbido mare. Mare che sarebbe potuto divenire cascata, giù fino al pavimento, se la Direzione della BML l'avesse permesso, ma invece hanno preferito che si vedessero i libri, sopra e sotto le tavolette, in una spirale di storia, cultura e magia dalla terra al cielo (peccato che alcuni scomparti contenessero i fancoils, per certo meno suggestivi dei libri, da vedere).
E sopra quel mare di blu, attorno ai dipinti, dodici cornici tutte uguali, chiare chiare, venate appena di miele e terra calda, come finestre aperte, come occhi guardinghi. Con i passepartout a differenziarle, nero per le tempere a fondo chiaro, e bianco per quelle a fondo scuro, alternati, in cerchio. Altra forma perfetta, del resto. 
E spezziamola questa benedetta lancia! Si vede lontano chilometri quando la cornice è di Ristori. Con tutto il bene che voglio ad Armodio (ed è molto, bada bene). Quelle stesse cornici della BML hanno un paio di gemelle a Palazzo Medici Riccardi, io ormai ho la vista abituata e le ho individuate immediatamente, anche perchè sono strepitose. Ma gemelle diverse, perchè - spiegava Franco - su una delle due, orizzontale, ha usato più terra, per creare delle colature più intense che riprendessero, ricordassero, rincorressero le sfumature orizzontali del libro nel quadro. Non so voi, ma per me è un privilegio anche questo: sentir raccontare come nasce l'abbraccio della cornice. Stare lì buona e zitta, ad ascoltare una persona che, nel tempo, ha potuto accarezzare De Chirico, per dirne uno in mezzo a mille. Che ha illuminato i migliori, i più importanti, quelli che sono già da tempo nei Musei. E che per ovvi motivi non ama particolarmente gli scultori, ma riesce a dare consigli giusti anche a loro. E' uno step ulteriore: prima ascolto Armodio, e mentre ascolto immagino tutto, come dalla tavoletta vuota prende forma un'immagine, il disegno, e si crea il dipinto perfetto, con il suo fondale di muro e polvere, o la sua balaustra di marmo e vene, o il suo libro fragile, cuoio e pergamena. Poi ascolto Franco Ristori, e all'opera finita (già così, già lei, non modificata nè modificabile) spunta una nuova vita tutt'intorno. Fatta a mano. A occhi. A cuore. Perchè è la pura verità: o mano-occhi-cuore, o meglio che il quadro resti nudo. Come una bella donna: la moda è puro piacere, ma se non ci si arriva meglio niente che infagottata in un vestito orribile, pesante, di tre taglie più grandi oppure troppo strizzato. Anche questa è arte.
In occasione dell'ultima Mostra, poi, mi è successa una cosa. Una cosa nuova e strana. Una cosa che mi ha commosso, perchè io sempre lì casco: nello stupore di quanto le emozioni in generale, e quelle legate all'arte in particolare, riescano ad azzerare le distanze, ad unire le anime, e creare un invisibile legame tra sconosciuti - come un cordone ombelicale, non a caso in grado di trasportare letteralmente la vita stessa. Sensazione che, da quando ho aperto Trecose, ho ormai provato diverse volte, eppure ogni volta mi prende come se non lo sapessi. 
Una persona mi ha riconosciuto. Nelle ampie sale del Palazzo Medici Riccardi, mentre i nostri vestiti estivi frusciavano (è bellissimo, vedere come le Mostre inseguono le stagioni). Mentre eravamo impegnati nell'eterno, goloso gioco del "meglio le carte anticate o le tempere" che spesso non ha soluzione (per me sì, io vado dritta sulle carte, senza tentennamenti). Mentre i turisti, forse solo alla ricerca di una pausa ristoratrice, entravano in quell'oasi di pace, arte e tradizione, e sgranavano gli occhi nel ritrovarsi davanti ad un'inaspettata fonte di bellezza (in effetti non molto segnalata), ed improvvisamente rallentavano il passo. 
Una giovane pittrice, Francesca, che veniva per l'occasione dalla lontana Calabria (anche se sottolineo che il record dei malati di Armodio resta il nostro Venezia-Palermo, per quanto percorso con l'aereo e quindi più rapidamente...), perchè si vede che è sveglia: nessun giovane pittore dovrebbe prescindere dalla vicinanza con Armodio, almeno una volta nella vita (nella vita del giovane pittore, intendo). Se la sua arguzia, la sua intelligenza e la sua profondità umana ed emotiva sono una gioia per noi comuni mortali che ci occupiamo d'altro, non oso immaginare cosa possa essere un suo consiglio per chi sceglie di intraprendere oggi quel sentiero tortuoso che è il fare Pittura Vera. Pittura delicata, con pennelli e colori (non uno splatter colato direttamente dal tubetto), pittura figurativa, per chi ha ancora la capacità ed il coraggio di farla. Il coraggio, già, una parola a volte dimenticata. Ma confrontarsi con chi sta in cima alla montagna, con chi quel sentiero l'ha percorso tutto (anzi, in alcuni punti l'ha aperto lui, puntellandone i paletti, segnando una via stabile dove prima non c'era nulla, tranne che nei suoi occhi), può trasformare una passione in coraggio ed il coraggio in professione.
Devo dire che Francesca è stata aiutata da un assist di Giovanni Faccenda, che durante la sua presentazione ha parlato di ammiratori provenienti da ogni parte d'Italia, da Mestre a Catanzaro. E visto che da Catanzaro ci veniva lei, deve aver fatto due più due. Nel senso, ha capito che io ero in mezzo agli altri. Ed infatti ad un certo punto, quando sono andata a salutare il Maestro assieme a mio marito prima di andar via, ha chiesto se io ero "la signora del blog". Più che due più due deve aver fatto uno più uno più uno: la mia provenienza, la mia ammirazione per Armodio, ed il fatto che alle Mostre noi andiamo sempre in coppia, perchè niente unisce e tiene saldo come l'emozione del bello. E' stato incredibile e buffo, essere riconosciuta perchè parte di una coppia malata d'arte, buffo quasi quanto ascoltare mio marito presentarsi a lei con un "buongiorno, sono io l'inseparabile scudiero" (facendo il verso al mio post "Buona la prima" sulla Fiera di Bologna). 
Ecco, io oggi come oggi vengo chiamata in molti modi, nome proprio a parte: tutti i nomignoli che usa mio marito (e che principalmente fanno riferimento al mondo del tappeto orientale, come ho scritto in "Gente di Palermo"), oppure Signor Agente, o ancora La Dottoressa della Fondiaria (neanche fosse tutta roba mia). Ultimamente c'è qualcuno che mi chiama La Numero Uno, ma sospetto sia un pochino di parte. Sentirmi identificare come "la signora del blog" mi ha letteralmente sciolto (sorvolando sul "signora" che fa un po' troppo vecchietta per i miei gusti, considerando che quando Francesca è nata io infilavo le perline, l'Università è arrivata parecchio dopo, tanto per capirsi), perchè ha reso tutto così... reale. 
Lei mi legge, mi leggeva da un pezzo, e io non lo sapevo. Ama Armodio, e ama Scuffi, e io non lo sapevo. Stima tantissimo Giovanni Faccenda, come amico e come studioso, e non sapevo neanche questo. Lei esisteva, da qualche parte, e io non lo sapevo, ma tutte le emozioni che sono passate per Trecose hanno creato un ponte tra me e lei, perchè questo è lo scopo dell'arte (non oso dire delle assicurazioni, ma sicuramente anche degli uomini): condividere. Essere davanti al BELLO (un dipinto, ma anche un concerto, un discorso, la lettura di un libro, il cielo, il mare d'inverno, le Dolomiti d'estate...) e far sì che diventi PIU' bello, solo per il fatto che non è solo "nostro", perchè è in grado di raccogliere in un'unica rete tutti coloro che lo vivono come tale. E dico questo in attesa di stringere la mano a Michele alla Fondazione Matalon, chiaramente, perchè in realtà tutto è cominciato con Michele, e i suoi treni di Scuffi, e il suo forse-non-irraggiungibile Schifano. 
Un grazie a Francesca, che si aggiunge a Michele e agli altri otto, e diventa il mio decimo, coraggioso Lettore Fisso (e siamo in doppia cifra, adesso possiamo far su una squadra di calcio me compresa, altro che l'iniziale briscola), strizzando l'occhio a chi legge senza iscriversi, o perchè non vuole apparire o perchè proprio non ci riesce (riprova, Betty, riprova). Giusto per far capire alla vita che cosa può venire fuori anche dal niente. E portare a tutto.

P.S. Dopotutto questo è il Post dei Link, e non c'è tre senza quattro.
Continuerò a parlarne all'infinito come se fosse la prima volta, perchè ne ha ogni volta il sapore e lo stupore, ma tutto era già chiaro, chiarissimo come un cielo estivo, limpido come due occhi veri, da tempo:
http://trecose.blogspot.it/2012/05/condivisione.html

7 commenti:

  1. un saluto a Francesca...
    certo che dal torneo iniziale di briscola, possiamo organizzare un torneo di tombola adesso :-)))
    Michele

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  2. un saluto cordiale a Michele e un ringraziamento particolare a Paola.
    Francesca

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    1. Grazie a te, carissima, e tanti auguri per la tua Vita: per la tua attività, per il tuo blog che rinasce rinnovato, per le tue passioni! A volte questi incontri casuali-non-casuali sono come dei punti di svolta, quando meno ce lo aspettiamo. Mi sa tanto che sarà un reciproco arricchimento interiore. Un abbraccio.

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  3. ...ehm..della squadra possono far parte anche gli albatros?? �� Perché, come sai, noi albatros siamo un po restii quando si tratta di 'restare' in un luogo (per quanto questo blog assomigli molto piu ad un cielo che a qualcosa di terreno), ma anche se in volo, io ci sono.. Un caro saluto alla Numero Uno (preziosa e unica come la famosa monetina di zio Paperone!! Ehehehe) e agli altri 'compagni di squadra'!!
    Ti.

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    1. Sempre benvenuta, Ti. So che difficilmente vedrò la tua casellina tra i Lettori Fissi, perchè sarebbe come un laccio alla zampetta, ma sento sempre il battito d'ali quando ci sorvoli, tra un pieno di emozioni e l'altro...

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  4. Cara Paola, le Parche lavorano per noi e non ci è osato conoscere il loro ordito... a volte pongono sul nostro cammino persone speciali delle quali si servono per tessere il nostro destino.... e questo, per fortuna, accade all'improvviso e segna inevitabilmente le nostre strade... tutto avviene per un preciso motivo e in un tempo stabilito. Io so solo una cosa... sono felice di averti conosciuta perché di certo tu sei tra quelle persone speciali ed è proprio vero... sarà un reciproco arricchimento interiore e non sai quanto io te ne sia grata...
    Un abbraccio sincero
    Francesca

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