Il fatto che Trecose sia momentaneamente (ecco, "momentaneamente" è proprio la parola esatta) inattivo, non vuol dire assolutamente che lo sia anche io.
A parte il lavoro, che mi assorbe, lo ammetto, molto più di quanto vorrei e, soprattutto, molto più di quanto meriti la gente che mi circonda - intesa come la nuova veste tecnologica e subdolamente sprintosa della mia Mandante (che non ha ancora capito cosa vuol dire essere assicuratori - e del resto come potrebbero capirlo, visto che fanno questo mestiere da appena 52 anni e non da 136 come quelli di prima, senza contare che per i primi 30/40 si sono limitati ad essere l'emanazione di un partito politico più che realmente una Compagnia di Assicurazioni), e anche intesa come tutta quella cospicua fetta di Clienti, peraltro minacciosamente sempre più grossa, davvero convinti nel profondo che io sbavi e faccia chissà quali altre porcherie pur di acquisire e/o mantenere contratti con premi sempre più risicati e con il sinistro già garantito; a parte ciò, dicevo, un pochino di tempo riesco ancora a ritagliarmelo per attività piacevoli.
Onestamente, riguardano tutte l'arte (come potrebbe essere altrimenti?), e quindi in fondo anche gli uomini, visto che nel contemporaneo - arte sviluppata da artisti viventi con mercanti viventi - le due cose vanno a braccetto. Insomma, sempre sulle mie Tre Cose mi impantano, ma in fondo mi sta bene, sono felice così.
Assieme a questo post ne metto un altro, "Magia: Atto Sesto" (non so se sta sopra o sotto, il confezionamento del Blog riesce ancora a sorprendermi, ma in ogni caso andrebbero letti in coppia), che è un pezzo scritto da me e pubblicato nel Catalogo dell'ultima Mostra di Claudio Cionini, a Pietrasanta.
Franco Ristori mi ha scosso dal torpore creativo in cui ero sprofondata chiedendomi di scrivere qualcosa per lui, e a una persona come Franco Ristori non si dice di no, mai. Perchè è generoso, perchè è di parola, perchè ha ancora dei valori, e perchè lo merita. Ho passato anni incredibili, da quando ho iniziato a collezionare arte, in cui credo di aver fatto il percorso tipico del collezionista "di pancia", molto romantico e poco milionario: credi a tutti - vuoi bene a tutti - compri da tutti - vai dappertutto - fai indigestione di parole - azzeri i risparmi - pensi da solo - non credi più a nessuno - ti stanno tutti sulle scatole. Più o meno.
Ecco, io ho conosciuto Franco quando ero all'incirca tra il "azzeri i risparmi" e il "pensi da solo", e se a lui continuo a credere e sulle scatole non mi sta un motivo ci deve essere. E poi, quando vado a trovarlo e mi nascondo nell'angolo più piccolo della sua già minuscola Bottega, riesco a non pensare mai al lavoro, alla Mandante subdola e ai Clienti fastidiosi. Lui mi coccola, e mi lascia toccare e parlare con tutti i quadri che tiene appesi o infilati in qualche buco, come se fossero miei (aspetto fondamentale, visto che ho già chiarito come lui sia entrato nella mia vita artistica dopo il "azzeri i risparmi"). Anzi, a volte io lo gufo, sperando che certe meraviglie non riesca a venderle a breve, così da potermele ritrovare la volta successiva, per finire le nostre mute storie, invece che saperle traslocate in qualche casa, tristi tristi senza di me. Per una volta questa crisi che ancora non accenna a lasciarci stare, e che lascia senza voglia di comprare anche chi ci era abituato nel midollo, tutto sommato mi fa comodo, perchè io un Sironi degli anni buoni, o un Antonio Bueno a fondo nero 50 x 70, o un Ardengo Soffici da buttarsi per terra, mi sa tanto che non me li potrò mai permettere (mi sono permessa un gran bell'Emblema, nella fase "vuoi bene a tutti", che poi Ristori mi ha geneticamente modificato tutt'attorno per farlo rientrare nel "pensi da solo").
E' stato incredibilmente interessante affiancare Franco nella genesi di questa Mostra; io avevo già scritto per quella di Roma, e anche parlato all'inaugurazione (come ho raccontato qui: http://trecose.blogspot.it/2013/09/roma-esordio.html), ma era stato tutto più casuale e visto come da lontano. Qui invece ho vissuto tramite lui tutto il percorso dall'inizio, dall'impaginazione del Catalogo alle schermaglie pseudo-amorose per ottenere i patrocini delle Istituzioni (farei prima ad assicurare una multinazionale del petrolio!), dai nomi di chi ci doveva scrivere a quelli di chi ci doveva parlare. Per non parlare del titolo, che solitamente viene deciso dal Curatore in base al contenuto del proprio saggio inserito nel Catalogo, mentre a Franco quel "Le città visibili" di Riccardo Ferrucci andava di traverso ogni volta che pigliava in mano le bozze.
Che "Le città invisibili" di Italo Calvino sia un romanzo straordinario per la nostra letteratura del Novecento è un dato di fatto che nessuno può permettersi di smentire, come altrettanto il fatto che lo abbiano letto tutto in ben pochi (io stessa, lo ammetto, nonostante la mia Laurea in Lettere, per giunta con il corposissimo indirizzo in Letteratura Italiana e non in Storia del Cinema, Arte Medievale o altre amenità simili, mi sono limitata a lunghi brani estrapolati), proprio per la sua particolarità. E' una sorta di romanzo d'élite, anche all'Università, figuriamoci alle scuole superiori dove è già tanto se arrivi agli esami di maturità facendoti di corsa la trafila Foscolo-Manzoni-Leopardi e Pascoli-D'Annunzio & Co. con la lingua di fuori.
Giusto perchè ogni tanto riemerge in me l'animo da insegnante di italiano mancata, spieghiamo che è un romanzo in cui Calvino gioca volutamente con i suoi lettori (in effetti ne ha scritto più di uno fatto così, si vede che si divertiva parecchio, probabilmente il più noto ai mortali di oggi è "Se una notte d'inverno un viaggiatore") creando capitoli "spacchettabili": è come un mazzo di carte che possono essere mischiate, creando ogni volta percorsi diversi e finali diversi. Nasce come una sorta di dialogo/monologo di Marco Polo alla corte di Kublai Khan (interrogato dal curioso orientale sul suo mondo di provenienza), e descrive città su città praticamente inventate di sana pianta. Città "invisibili", aggettivo sul quale Ferrucci gioca un po' per dire che Cionini invece, le sue, le rende evidenti, e ben identificabili, ai nostri occhi. Il che, per uno che conosce il libro e ne ha letto almeno qualche brano, è anche un doppio senso carino, suvvia, non mortifichiamo il Curatore. Ma per chi non sa neanche dell'esistenza di questo romanzo (e bisogna essere onesti ed ammettere che ce ne sono parecchi, in questo secondo gruppo), come titolo di una Mostra sembra piatto, sembra pasta in bianco, purè e stracchino, non ispira e non evoca un bel niente, con Ristori che scalpita.
Per fortuna che da Internet, nella massa multiforme di dati nozionistici e da cruciverba che sciorina, gli è saltata fuori quella citazione spettacolare dal libro in questione che è:
"Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone"
e che pareva cucinata apposta per il titolo di una Mostra.
Occhei, è triste sapere che tutti ci riduciamo a Wikipedia, che nessuno legge più il Novecento italiano, che non ci sono più gli intellettuali di una volta, ma siamo pratici: dopo l'inaugurazione, quando tutti questi bei faccini intellettuali se ne saranno andati a casa felici e contenti con le loro copie del Catalogo non pagato sotto il braccio, dopo le strette di mano e le foto e i video, ci vuole qualcosa che colpisca e che attiri dentro gente che li compri, questi benedetti quadri. Su questo concetto io, personalmente, ci ho girato attorno parecchio; Claudio Cargiolli, che era presente, è venuto anche a stringermi la mano e a ringraziarmi per averlo detto, tenerissimo lui, perchè sembra che troppo poca gente se ne accorga.
Senza considerare, comunque, che la frase sul deserto è metaforicamente perfetta non solo per le città in quanto tali, ma anche per la personificazione della città in ciascuno di noi: non dimentichiamo che Cionini dipinge città vuote, senza umanità presente, appena appena con qualche autovettura fugace al cui interno non si intravede mai nessuno, quindi possiamo tranquillamente dire che le personifica, che quelle città siamo NOI, ognuno con la nostra storia e il nostro vissuto, chi si sente Roma, chi Parigi, chi New York in base alle nostre sensazioni passate, presenti o desiderate per il futuro... Insomma, se avessi avuto tre ore a disposizione avrei potuto costruirci sopra un discorsetto mica da ridere, giusto per far vedere che anch'io sono capacissima di parlare di un bel niente ma che fa tanta scena. Inoltre, il nostro "essere" è così come lo crediamo, oppure è la vicinanza con ciò che ci circonda (il nostro "deserto" tutt'attorno) che plasma, dall'esterno, l'essenza che crediamo di avere? Io e l'Altro, l'eterno dilemma. Io città, l'Altro il deserto, oppure viceversa?
(Oggi io mi sento tanto questa N.Y.)
Da qualche parte su YouTube gira anche il video di quella sera, un paio d'ore di registrazione compresse in venti minuti, che rappresentano l'evoluzione delle mie figure di m/da iniziate col tristemente famoso "microfono sotto la faccia" alla Mostra di Vincenzo Balsamo al Chiostro del Bramante, secoli fa, anche se devo dire che questa volta è stato divertente (sostituivo a tutti gli effetti Roberto, braccio destro di Ristori, che aveva una validissima scusa per non essere presente data da moglie incinta con termine scaduto, poteva arrivare il fiocco azzurro da un momento all'altro).
Questo cameraman di Toscana TV deve essere un pochino più bravo di Giuseppe De Luca, perchè mi fa sembrare infinitamente meno bassa e cicciottella (mi sono beccata da più di qualcuno un entusiasta "caspita, sembri davvero una figa, non si direbbe", complimento gaffoso che è sempre tutto un programma e al quale io sono abbonata da circa vent'anni, precisando che per assumere quell'aspetto ci metto più o meno un'ora e mezza, e mezz'ora a festa finita per rientrare nei miei usuali panni, manco fossi fagocitata da un alieno).
Aggiungo altresì che sembro affetta da demenza senile, perchè praticamente ripeto parola per parola - o quasi - le stesse cose col cappotto addosso e senza cappotto addosso, ma a mia discolpa devo dire che mi ero preparata la scaletta per il primo intervento (quello senza cappotto, montato in video per la sua metà finale), mentre l'intervista tête-à-tête mi ha spiazzato, e si sente. Ho ripetuto le stesse cose cannando anche qualche verbo, convinta che uno dei due interventi venisse eliminato, mentre alla fine me li sono ritrovata in video uno dietro l'altro stile copia/incolla. I puristi del "public speaking" direbbero che è meglio la versione con tante pause e gli avverbi così sofisticamente nasali della versione "panico", ma io in realtà sono quella più alla mano senza il cappotto, quella che coinvolge il pubblico sgamando i commenti bisbigliati, quella che lascia in sospeso le frasi, quella che rimbrotta i Senatori perchè le fregano gli argomenti.
Poco male, i complimenti a Franco Ristori li ripeterei all'infinito, se li merita tutti, sono straconvinta che se Claudio Cionini è arrivato a questi livelli il merito è anche dei consigli di Franco, da un lato, e della serenità economica che è riuscito a garantirgli, dall'altro. Averne, nel mercato dell'arte, di gente come lui che caccia puntualmente ciò che serve (TUTTO ciò che serve), senza contare cosa è venduto e cosa resta ammucchiato in garage, del resto i pittori per continuare a dipingere devono mangiare a fine mese anche loro, mica si cibano di "conto vendita", preferiscono le bistecche e la pastasciutta, come gli impiegati di banca, o i serramentisti, o gli infermieri.
Vissuta la Mostra, con le ultime creazioni di Cionini, a mio parere una più bella e più intensa dell'altra, mi resta solo un dubbio, che è lì che gira da un pezzetto, e per sussurrare il quale ho anche chiesto il permesso a uno dei diretti interessati, perchè non mi sembrava galante raccontarlo.
Io non capirò mai, e giuro mai, perchè gli Orler non abbiano dato una possibilità a Claudio Cionini. Ci siamo andati vicini, vicinissimi, c'erano venticinque tavole sue di diverse dimensioni e soggetti (città e fabbriche, queste ultime probabilmente più "difficili" ma profondamente più affascinanti) arrivate nei loro studi, e poi niente. Il buio totale. Nominare Cionini da Orler è diventato come evocare Belzebù in una chiesa.
Magari un giorno, improvvisamente e con tanto di fasci luminosi e musica d'altare, mi verrà svelata la Verità, che sicuramente NON è che non piace al venditore di turno o al fratello Orler di turno, come mi è stato detto, ma mica siamo deficienti qui, eh. Da che mondo è mondo, il venditore vende quello che la proprietà gli dice di vendere, altrimenti non mi spiegherei certe schifezze sovrumane che passano, ogni tanto, quando capita, per gli studi di Favaro; certo, forse Dario, a volte, si può permettere dei no (e vanno accettati perchè lui è in assoluto il numero uno dei televenditori italiani), anche se non posso fare a meno di chiedermi se DAVVERO abbia in camera sua i collant di Ala appesi al muro. Probabilmente anche Carletto a volte si impunta (secondo il mio modestissimo parere senza gli stessi meriti) perchè fa tanto professor-style, ma di certo non credo lo faccia Giovanni Faccenda, che è diventato espertissimo di arrampicata sul liscio e riesce tuttora a vendere l'invendibile, a volte non so come ci riesca, e all'epoca delle venticinque tavole non lo faceva Franchino Raccioppo, il più improbabile dei teleimbonitori che però quando era in vena avrebbe venduto anche la giacca, sopra ai quadri. Giovanni, fra l'altro, nella sua vita precedente ha curato quattro Mostre di Cionini, trovo improbabile che possa non piacergli, che abbia scritto e parlato solo per compenso. Magari lo fai una volta, del resto è il tuo mestiere, ma non quattro, sarebbe diabolico.
Immaginare discussioni fra i fratelli Orler se un pittore sia valido oppure no sul piano artistico, per non macchiare il buon nome dell'organizzazione, è pura fantascienza (vogliamo fare dei nomi e dare un voto al valore?! No, non vogliamo, diventerei cattiva): gli affari sono affari (te lo insegnano alle elementari, guadagno = ricavo - spesa, vale per le mele, per le magliette e per le opere d'arte!), se sono mercanti svegli, vendono ciò che si vende bene, bello o brutto che sia, basta che piaccia a chi compra.
E Cionini piace, caspita se piace! Io in ufficio ne ho più di uno, e non c'è persona - di qualunque livello, provenienza, ceto sociale, preparazione scolastica, e chi più ne ha più ne metta - che non lo ammiri. Chiaramente ognuno ha i suoi motivi, mi sono sentita dire anche che ammiravano il suo uso del colore, gli accostamenti più dolci e soffusi, perchè ricordava quello di certe borse e di certe scarpe (sic), ma se la persona che dice questo ha comunque duemila Euro da spendere per un quadro, per quanto mi riguarda scarpe e borse restano motivazioni personali validissime. Nessuno di noi (parlo per prima perchè io ne ho cinque) è così ingenuo da pensare di farci i miliardi, un domani, ma siamo seri, non lo penso neanche di Marcello Scuffi, di cui adoro la pittura con tutta me stessa! Però quella di Claudio, come quella di Marcello, è pittura che mi fa STARE BENE quando mi ci piazzo davanti, per un momento che non va calcolato perchè il bello è esattamente questo: fermare il tempo. E' pittura VERA, con le sue colature, le sue sabbie, i suoi chiaroscuri, i suoi lampi di luce, e adesso che dipinge Firenze un po' più spesso di una volta, anche con i suoi riflessi d'acque, i suoi tramonti, le sue cupole lontane.
Aspetto non trascurabile, anche se ben più terra-terra, costa relativamente poco. Visto che i veri danarosi ormai se li contendono tutte le Gallerie fino allo stremo (e poi i veri danarosi vogliono la certezza dell'investimento, altrimenti a cosa serve essere danarosi, quindi per loro uno come Cionini resta robetta, o sei De Chirico o niente), non vedo perchè non prendere in considerazione un pittore giovane con un listino accettabile da presentare ad una platea vastissima e sconosciuta come quella televisiva, che non se la fila nessuno ma che un bel quadro in casa magari se lo piglia volentieri. E poi, si sa, da cosa nasce cosa.
Un pittore giovane ma non più esordiente, già molto bravo ma con margini di cambiamento se te lo tiri su bene, con soggetti che non siano già stati visti da Orler (un metropolitano non mi risulta l'abbiano mai presentato), con uno stile suo che non cozzi con nessun altro nome di scuderia, che dipinga abbastanza per una distribuzione decente (perchè Armodio è immenso davvero, e Cargiolli pure, ma restano la ciliegina sulla torta per pochi privilegiati, e chiedere loro di produrre di più, di "fare numeri", significa snaturarne l'anima e il lavoro).
Un paio di Clienti Orler amici miei ce l'hanno, Claudio Cionini, in casa e in ufficio, perchè ce l'ho portato io assieme a Franco Ristori, in furgone, e fare agli Orler questo piccolissimo cornetto mi è dispiaciuto solo a metà. Perchè nella vita bisogna svegliarsi, quando serve, e riconoscere i treni buoni da quelli lenti, a volte, può fare la differenza. Da entrambe le parti.
Leggo sempre volentieri i tuoi post, mi spiace siano così distanti l'uno dall'altro.
RispondiEliminaA proposito di Calvino e de "Le città invisibili" non posso non citare il finale (almeno credo sia il finale):
"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
Credo che fra le cose che non sono inferno e che meritano spazio e tempo (da dedicarvi) vi sia la pittura.
Caro Amico, grazie del tuo intervento! Neanche a farlo apposta in quest'ultimo weekend di "ponte" (passato, per quanto mi riguarda, a casa con l'influenza) sono riuscita a pubblicare cinque post uno dietro l'altro :-))
EliminaGrazie anche della bellissima e profonda citazione (ti confermo che sì, è proprio la conclusione de "Le città invisibili"), non c'è dubbio che condivido appieno la tua interpretazione!
A presto.
Ciao, questo di Cionini l'ho letto solo ieri sera e non sono riuscito a rispondere. Abbiamo visto alcune sue opere qualche anno fà tramite la galleria Spagnoli, io sono abbastanza d'accordo su quello che hai scritto, a mio avviso è artista più che valido e molto migliore di altri che passano da Orler. Noi non lo abbiamo acquistato perchè la scelta finale fù Fabio Calvetti, che già piaceva molto a mia moglie ed io ero d'accordo. In effetti accade spesso che certe scelte dei galleristi appaiano poco comprensibili, così come quelle di qualche artista.
RispondiEliminaSOTTOSCRIVO !!
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