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martedì 29 maggio 2012

Condivisione

Qualunque cosa bella della vita, anche una delle famose dieci, in fondo è meno bella se fatta da soli, vale a dire che è più bella se condivisa con qualcuno: il concetto è lo stesso, ma "più bella se condivisa" suona meglio. Dopo oltre vent'anni di lavoro d’Agenzia ormai mi viene spontaneo parlare "al positivo", solitamente è cosa che ti insegnano appena intraprendi una qualunque professione che abbia a che fare con la vendita, o con il pubblico. All'inizio viene difficile (anche perchè nel mio lavoro è fisicamente impossibile parlare di una Polizza per il "caso morte" senza usare prima o poi la parola "morte" o uno dei suoi pochi sinonimi! Così - puntualmente ogni volta - l'interlocutore comincia a fare i cornetti o a toccare le zampe della sedia, quando non qualcos'altro di suo), ti sembra che ogni frase possibile ed immaginabile contenga almeno una negazione (no, non, o una qualunque parola negativa), e ti arrampichi su specchi altissimi o intraprendi infiniti giri di parole pur di arrivare a QUEL concetto usando solo termini positivi... e finisci per sembrare talmente innaturale che la gente ridacchia e non segue il filo di quello che volevi spiegare. E' successo anche a me, ero buffissima. Ma poi fortunatamente la tecnica si impara (come si impara a parlare in pubblico, a dove tenere le mani, a non ondeggiare - nonostante i tacchi alti! - e a fare lo "sguardo a faro"...) e adesso devo dire che è diventato parte di me. Ogni volta che spiego qualcosa di assicurativo (e quindi già del suo molto complicato) e voglio ottenere il feedback immediato dal mio interlocutore non domando mai "Ha capito?" quanto piuttosto "Mi sono spiegata bene?". E' imbarazzante per chiunque ammettere "No, non ho capito un tubo" (anche se entrambi sappiamo che è la pura verità), rinfranca di più poter pensare che forse sono stata io vagamente contorta, lascia aperta la porta per proseguire la trattativa. "Va bene, sono stata contorta, ma adesso te lo rispiego con parole più semplici". E' evidente che non posso assalire il mio Cliente con un arrogante "Guardi, ma lei non capisce proprio niente!", otterrei solo un atteggiamento di chiusura totale, in fondo neanche a me piace sentirmi dare dell'idiota, o peggio ancora prenderne coscienza. E ormai nessuno firma un'assicurazione (o compra qualcosa) solo perchè gli viene imposto da chi parla bene o ha una laurea. Un bel "Ok, evidentemente non mi sono spiegata bene, mi permetta di ripeterglielo" mette di più a proprio agio. Ovviamente finisce che diventa un modus per te, non lo usi solo al lavoro, dopo vent'anni PARLI così e basta. Con chiunque. Infatti ricordo con una punta di sarcasmo un episodio che riguarda uno dei miei primi "tentativi di dipendenti", un ragazzo che mi aveva fatto i tre mesi di prova meravigliosamente, per poi cambiare nettamente atteggiamento (o si drogava prima, o ha iniziato a drogarsi dopo). Uno che al telefono con un grossissimo Cliente si è definito "il mio Socio" perchè dire che era l'impiegato dell'Agenzia gli sembrava "riduttivo" (mi rendo conto solo ora che nel tempo ho avuto vari pazzi con me). Uno che, mentre gli stavo spiegando la clausola Ricerca e Riparazione del Guasto (cosa c'è da capire? Se un tubo si rompe accidentalmente e l'acqua che ne esce crea un danno, noi ti paghiamo la riparazione! Niente da fare, non gli andava giù), e io gli dico meccanicamente "Mi sono spiegata?" perché lo vedo che fa l'occhio bovino di chi sta ascoltando una nenia indiana, mi risponde "Evidentemente no, lei non si sa spiegare bene"! L'ho mangiato. Magari anche alcuni calcoli finanziari complicatissimi non saprò spiegarli bene, ma in questo caso direi che l'incapace sei tu, "mio socio". Oh, mamma mia, questa era una delle mie solite lunghissime divagazioni.
Ero partita dal fatto che le cose belle della vita sono "più belle" se condivise. Mangiare fuori da soli, in fondo, è una tristezza infinita (con la cameriera che ti scruta per capire come mai, e ti fa il sorrisetto di compatimento), fa parte integrante della gioia del ristorante andarci in due, o in gruppo. Il cinema lo stesso; per un periodo della mia vita ho abitato da sola in un paesino di duemila anime sopra Vittorio Veneto in cui non c'era assolutamente niente. Per carità, una vista bellissima, aria buona, e il bosco proprio dietro le spalle - la prima notte non sono riuscita a dormire perchè c'era troppo silenzio... ho dovuto attendere la soglia dei trent'anni per scoprire cos'è IL SILENZIO, quello VERO, l'assenza di ogni suono, o meglio il non-rumore della notte che avvolge tutto. Inconsciamente – io, che sono sempre quella nata nel cemento - tendevo l’orecchio alla ricerca del passaggio di un autobus, o per lo meno del vuota-cassonetti. Dopo la prima settimana ho realizzato che dovevo muovermi spesso, anche perchè all'epoca non avevo ancora capito come fare a stare bene anche sola con me stessa (che è la cosa più bella e naturale, come vivere, ma bisogna saperci arrivare), ero ancora convita di preferire il resto del mondo. Andavo giù in macchina fino a Vittorio e guardavo un sacco di film al cinema; ricordo una sera in cui ho visto "Il paziente inglese"  - che, per chi non lo ricorda, dura 155 minuti - ed in sala eravamo in quattro, tutti distantissimi. E mi era anche piaciuto, il film, anche se avvertivo che mancava qualcosa, qualcuno con cui commentarlo, con cui dividere la commozione, a cui stringere le mani. Un film, un libro, una canzone, non finiscono con la parola "fine", o con l'ultima pagina, o con la musica che sfuma. Quello è l'inizio di qualcos'altro, l'inizio della condivisione che fa sì che - solo parlandone, confrontando emozioni, sensazioni, risa o lacrime - quel film, libro o musica diventino realmente TUOI. Nell'arte direi che si verifica la massima espressione di questa cosa. L'emozione di guardare (sentire, gustare, vivere) un'opera d'arte, un dipinto immortale, una bella chiesa, da sola, vale cento. L'emozione di vedere le mie stesse sensazioni riflesse in un altro paio d'occhi, di sentire che è un brivido condiviso, vale centomila. Mi ritengo una persona felicemente fortunata perchè con mio marito non solo ho avuto questo tipo di infinito, intimo piacere, ma anche qualcosa in più, e intendo la condivisione come "ri-scoperta". Mio marito viene da una famiglia numerosa e non esattamente benestante; quando un adolescente viene piazzato in un cantiere a tirar tubi o portare in spalla bombole di acetilene mentre gli altri adolescenti - nella norma - fanno le vacanze, si iscrivono alla scuola superiore, vivono le loro aspettative ed i loro sogni, diciamo che solitamente non sviluppa un forte istinto di visitare chiese e musei. Si dimentica di quelle poche cose ascoltate alle scuole medie (è esistito Giotto, è esistito Leonardo da Vinci, Michelangelo e forse altri due-tre) e si dedica ad altri passatempi. Io - che credo appunto molto nelle emozioni condivise - ho preteso di farmi accompagnare quasi subito a Ca' Pesaro, che è la Galleria d'Arte Moderna di Venezia - da scema, perchè ci vuole un percorso personale, uno non può essere messo dal nulla davanti allo Spazialismo. E' chiaro che senti gente dire "Potevo farlo anch'io"! Però ricordo che era rimasto colpito dagli "Abbandonati" di Luigi Nono, e valeva la pena di continuare. Altro errore è stato fargli fare tutto il Prado (ma ci tenevo tanto!), perchè un essere umano non preparato collassa a metà strada, e non ti permette di sostare oltre venti minuti davanti alle Pinturas Negras del Goya, che stanno quasi alla fine e per vedere le quali ti sei fatta ore di coda. Anche il Reina Sofia è difficile da comprendere, ma l'emozione di vedere la faccia di chi non conosce già le dimensioni reali di Guernica è impagabile, e ce n'era più d'uno. Picasso potrà piacere o non piacere, la gente potrà conoscere o meno la storia ed il significato di quei disegni, ma fa sempre un certo effetto. Magari non la capisci, ma "senti" che è grande dentro.
A Madrid in compenso c'è quel gioiellino rappresentato dalla Collezione Thyssen, un percorso di storia dell'arte dalle icone del Duecento agli Impressionisti, e lì ho iniziato la mia ri-scoperta. Perchè lui era aperto al bello, solo che non lo sapeva. Aveva la sensibilità straordinaria che io già conoscevo da tanti suoi atteggiamenti, solo che l'aveva lasciata soffocare da altre cose. Una sensibilità "adulta", perchè una cosa è un bambino che va a scuola e studia la storia dell'arte (è scuola, bisogna, è obbligatorio), altra cosa è un adulto che SCEGLIE di lasciarsi travolgere dalla particolare emozione che solo il bello sa dare. Mi ricordava la scena del vecchio film (claustrofobico come film, per quanto mi riguarda, ma la storia è straordinaria) "Anna dei miracoli", il momento in cui Helen Keller bambina CAPISCE, l'attimo in cui scatta la scintilla e le si apre tutto il mondo davanti: può solo imparare. Acqua, terra, foglie, albero, mamma. Assorbe tutto e tutto la invade. Che tra l’altro era un momento in cui io la invidiavo, pur nella follia di quanto sto dicendo – vista la situazione della Keller. Non ricordo quando l’ho visto per la prima volta (forse ero all’Università), ma ricordo che sentivo esattamente la potenza della “conoscenza”: io sono matta per imparare, vorrei sapere tutto. Il “conoscere” è come un fuoco che mi divora, non finirei mai, ed ovviamente in questo modo mi sento spesso indietro, perché non basta mai.
Comunque, per lui è stato così: Van Gogh, Cezanne, Monet (belli!), e poi allora - torniamo indietro - anche Caravaggio, Canaletto, Vermeer (belli!), e arrivi a capire Kandinsky e le avanguardie russe e ad amare un mostro sacro come Salvador Dalì e plani sui nostri Castellani e Bonalumi. Ascolti tutto e tutti e poi finisce che ti innamori di Marcello Scuffi. E io guardo, lui e i dipinti, e condivido, e riscopro; cancello tutto quello che sapevo (o credevo di sapere) e re-imparo. Diluvio di bellezza d'arte, per non smettere mai di emozionarsi.

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