Mi piace andarmi a rileggere cose scritte mesi fa, quando ho cominciato; ho aperto la diga e tutta me è venuta fuori, diffondendosi in giro. Senza dire niente di esagerato, semplicemente esistendo, comincio a raccogliere vari commenti (qualcuno direttamente nel blog, qualcuno via mail, qualcuno a voce), ed è davvero come un punto e a capo. Via alcune voci, dentro altre, comunque in simbiosi per emozioni (gioia, rabbia) con questa me rinata. Se agissi d’istinto cancellerei e riscriverei quasi tutto, quanto meno i primi venti giorni, ma non era questo lo scopo, il percorso da seguire; non ho aperto il blog per esercizio di stile, ma per guardarmi dentro e fuori. Quindi anche i post iniziali, brevi-brevissimi, sfiduciati e tristi, lì sono e lì devono restare, senza correzioni. In quel momento io ero quella.
Questa criptica premessa per dire che, in vari post precedenti, ho ricordato emozioni vissute (gli speciali su Scuffi da Orler, il mio contatto con le tele di Van Gogh…) come tra le più intense della mia vita adulta. Più ci ripenso, e più me ne vengono in mente sempre di nuove: ogni volta un ricordo declassa il precedente, in un iperbolico susseguirsi che mi fa tanto Dario Olivi il venerdì sera. Allora, complice una giornata calda ma piacevole, mi sono messa buona buona a respirare arie passate per scegliere “IL” ricordo da condividere con chi mi legge, come se fossi intenta ad aprire vecchie scatole in una soffitta, rivedendo visi, riascoltando voci, risate. Ovviamente non è possibile, soprattutto se si è vissuto abbastanza: mai fare del binario passato un podio (grave errore). Ma d’improvviso l’ho sentito salire, ed è stato un attimo, il ricordo incredibile del mio ultimo giorno di lezione all’Università.
Devo precisare che la scelta della facoltà per me è stata un impulso finale, visto che al Liceo andavo bene praticamente in tutto. Ho frequentato il Liceo Scientifico come risultato della mia prima vera grande battaglia vinta contro i genitori, che volevano a tutti i costi iscrivermi al Liceo Classico perché “scrivevo bei temi” (e poi già mia sorella frequentava lo Scientifico, probabilmente volevano differenziare, come con gli investimenti). Mia mamma e le zie non nascondevano la loro quasi certezza di vedermi intraprendere Giurisprudenza, ed il Classico aiuta. Ma visto che anche a quattordici anni da compiere avevo ben chiaro che grazie-no-la-vita-è-mia, ho piantato i piedi e detto molto chiaramente che o Scientifico o niente, piuttosto non ci andavo (il che era praticamente impossibile, ma incredibilmente ho portato a casa il risultato). Il Liceo Classico della mia città è una imponente costruzione fascista con le colonne popolata nel mio immaginario solo da figli di papà fastidiosi e supponenti, molto meglio il mio Liceo rivoluzionario dove fino a pochi anni prima gli studenti davano fuoco porte e registri (poi come sempre si matura un’idea propria, e la mia è stata ben lontana da quella dei miei compagni con la kefiah che volevano bruciare le porte). Fino all’ultimo anno ero convinta che avrei proseguito con Geologia, o Biologia, o Scienze Naturali, tutte materie che mi piacevano e che studiavo più che volentieri; mai e poi mai avrei pensato a Lettere, la classica materia che mi “veniva” senza sudare sui libri e che sentivo come una cosa talmente naturale da non considerarla nemmeno una materia! Invece in quinta, zàcchete! Complice una combinazione nefasta di materie d’esame mi sono trovata a portare italiano ed inglese, e quindi una decisa full-immersion era d’obbligo (perché con la Commissione esterna non è come con la tua Professoressa, meglio non rischiare, mica puoi andare a braccio tanto lei ti adora qualunque cosa tu dica): mi sono trovata innamorata persa della letteratura, non era più una compagna di giochi e via, era diventata un’amante vera e propria, ed insostituibile. Da corteggiare, ambire, soffrendo e sudando. Quindi ho annunciato in famiglia “Faccio Lettere”, tanto mia mamma la storia di Giurisprudenza se l’era già messa via da un pezzo, e l’ho resa contenta perché potevo pendolare in autobus con Venezia senza spostarmi troppo.
Urge un’altra precisazione: sebbene abbia genitori ed avi venezianissimi, io sono nata in terraferma, e la differenza si sente dentro. Nei miei battaglieri anni adolescenziali posso dire di aver addirittura detestato Venezia, lei dove tutto si fermava: il suo odore, la sua lentezza, la mancanza di tutto sotto mano. Ai primi anni di Liceo intonavamo violenti cori sportivi pro o contro le due squadre di basket (Carrera al di là del ponte, Superga al di qua - erano i tempi di Chuck Jura, e io a volte ci accompagnavo come un'inutile appendice mia sorella che aveva già l'età per fare gli occhi dolci a più di un giovanotto molto alto), che racchiudevano in realtà insulti sull’ospedale di nascita (pescatori! contadini!). Per me Venezia era solo una città pigra e abbastanza sporca dove abitavano i nonni, non avevo ancora l’età per vederla come uno scrigno di meraviglie (certo, le gite scolastiche le facevo, ma quale adolescente va in gita scolastica per guardare DAVVERO chiese e musei?). Il primo sentore del fatto di essere una privilegiata l’ho avuto proprio all’Università, in occasione del giuramento da ufficiale del mio fidanzatino dell’epoca, Genio Militare, Caserma Cecchignola, Roma. Ero sul palco dei parenti tutta coccola col mio vestitino nuovo cucito dalla mamma quando una signora credo milanese o giù di lì mi ha chiesto da dove venivo; istintivamente ho risposto Venezia (la città che “merita un viaggio”, giusto per inquadrare geograficamente…), senza troppa enfasi comunque, e lei si è tutta agitata chiamando il marito “Amoooore vieeeeni, questa signorina è da Venééééézia” neanche avessi detto che venivo da Saturno. Un “Venézia” strettissimo, straripante d’invidia, che mi ha fatto provare orgoglio da un lato e dall’altro bisogno di sentirlo ripetere subito con la E larga: Venèzia si dice, larga, grave, con la zeta quasi esse, possibilmente. E subito dopo “Ma proprio Venéeeezia Venéeezia?”, ed io rinnegando anni ed anni di lotta ho detto “sì”. Cosa non vera, come precisa sempre mia sorella che è nata in centro storico (in vaporetto a momenti nasceva, visto che era pieno Dicembre e la laguna era tutta ghiacciata), a me e nostro fratello che siamo due campagnoli. Ma l’anagrafe parla, sulla Carta d’Identità c’è scritto così, con buona pace dei “gran signori”.
L’Università non mi ha permesso di vedere Venezia sotto altre vesti che le solite: corse da una sede all’altra, spintonando bivacchi di turisti, tramezzini al volo e via. Tranne il miracolo dell’ultimo giorno, che non ricordo ma a naso doveva essere più o meno a inizio Aprile. Il palazzo dove aveva sede il mio dipartimento (il Barbarigo-Nani-Mocenigo) era inagibile per lavori, e noi avevamo chiesto asilo a quelli di Economia Aziendale, cioè il palazzo di fronte rispetto al Rio di San Trovaso, cosa che a noi non dispiaceva per niente perché era una facoltà ben fornita in quanto a ragazzi piacevoli (noi i nostri li contavamo sulla punta delle dita di una mano, in tutti i quattro anni). A differenza del palazzo nostro che aveva i balconi del piano nobile sull’atrio centrale e sempre chiusi, quelli di Economia li avevano in un’aula e ci si poteva affacciare di fuori. Nel corso del mio ultimo anno si verificò un evento della portata di una glaciazione: la posa della nuova illuminazione del Ponte della Libertà, che detta così sembra robetta, ma che in realtà paralizzò il traffico da e per Venezia per mesi interi. Ricordo ancora che, finite le lezioni alle 18.00 da Santa Marta, arrivavo in Piazzale Roma alle 18.10, e vedevo l’autobus delle 18.00 fermo quattro metri davanti al mio, delle 18.15 (e sottolineo fermo). Si arrivava a casa dopo le 20.00, più tardi che a piedi, e se questo era tollerabile in uscita, molto meno lo era in entrata, visto che la lezione quando inizia inizia e mica aspettano te e il tuo autobus lumaca in coda. Vero è che avrei potuto usare il treno, ma con la Stazione non ero proprio casa-e-bottega (o uscio-e-bottega, come dicono nella regione più bella d’Italia). Io quindi per certe lezioni avevo preso l’abitudine di andare a Venezia molto presto, prima delle sette di mattina, perché dalle otto in poi l’orario di partenza diventava ininfluente: saresti arrivato sempre e comunque per pranzo, esattamente come succede le domeniche d’estate verso Jesolo a meno che tu non abbia l’elicottero. Filologia era una di queste, ed è stata l’ultima lezione del mio ultimo anno. Una mattina prestissimo, ma la sede era già aperta, mi sono messa in cuore di aspettare un paio d’ore e sono andata sul balcone, assistendo senza saperlo allo spettacolo unico al mondo di Venezia che si risvegliava. La brezza delle sette in un Aprile fresco ma non più freddo; l’odore della laguna pungente ma pulito - perché sono l’afa ed il caldo che lo rendono cattivo, e alle sette sono ancora a nanna; lo sciabordio dolce del San Trovaso, tagliato da un paio di gondole che andavano a prepararsi – anche loro zitte zitte – per la giornata, con una nebbiolina bassa appena accennata che già aveva voglia di andarsene. Palazzi bianchi, addormentati, appena lambiti da un sole timido. Nessuno in vista, nessuno, eppure rumore di passi cadenzati con l’eco delle calli, come ho imparato a riconoscere col tempo. Nessuna voce forte, nessun grido, solo il bisbigliare della storia. Io al balcone del piano nobile, lui, esattamente com’era da centinaia d’anni. Pensavo a tutte le persone che vi si erano affacciate prima di me, studentessa agli albori degli anni Novanta: dame con ventagli e vesti settecentesche, seri notabili di metà Ottocento con il cilindro, le nuove generazioni del XX secolo. E sotto sempre il San Trovaso immobile. Dopo mezz’oretta, insieme al lieve grattare d’assi che proveniva dallo Squero in fondo a destra, è arrivata una mia compagna di corso mattiniera come me che si chiamava Giuliana, ha messo il naso fuori e mi ha detto: “Cosa guardi?” Io le ho solo sorriso e fatto segno di tacere, con l’indice alla bocca, e lei ha capito la congiunzione astrale che si svelava solo per noi. Lenta, pigra, placida e per questo bellissima, Venezia in due ore si è svegliata sotto i nostri occhi, stiracchiandosi e rimettendosi piano in movimento, con noi che ci guardavamo commosse a dirci: “E quando ci ricapita?”. L’avevamo avuta sempre sotto al naso, ma ce ne siamo accorte solo l’ultimo giorno; lei ci ha preso per le orecchie e ci ha fatto FERMARE per due ore: guarda, annusa, senti, vivi! Da tutto il mondo c’è gente che paga fiumi di denaro per vedere una volta nella vita quello che stai vedendo tu, e non sempre ci riesce, e si deve accontentare di una corsa sudata dietro ad un ombrellino, e di una foto sotto al campanile. Io mi sono fermata, l’ho sentita, e non ho più dimenticato. E per la cronaca, a Filologia ho preso trenta.
siamo anche poetici :-). quasi come la descrizione dell'alba nei Promessi Sposi di Manzoni...
RispondiEliminami fai venire in mente i miei anni a Cà Foscari...sinceramente, non ho avuto la fortuna di poter aver ricordi così sublimi, diciamo molto più terra terra. a parte i ricordi accademici, mi vengono in mente gli stivali nello zaino, i panini con la soppressa, i ponti ghiacciati,le paste alla crema da Tonolo dopo ogni esame, il venditore di mappe che mi assordava ogni giorno all'uscita da Santa Lucia,...
Michele
Eh eh eh...
EliminaAllora in quanto a poesia e romanticismo Pendolari su Gomma battono Pendolari su Rotaia uno a zero :-)
A proposito di Ca' Foscari, ho dovuto frequentare un numero elevatissimo di aste on-line prima di trovare una tela di Tonino Caputo che la raffigurasse con tutta la poesia dei miei ricordi (e l'ho trovata!)...