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domenica 28 ottobre 2012

Marcello Scuffi (repetita iuvant)

(Il 27 Settembre, il giorno in cui è stata inaugurata l’ultima esposizione di Marcello Scuffi, a Fiesole, ho postato il "mio" personale Antefatto. Oggi, 28 Ottobre, l’esposizione giunge al termine, ed ho deciso di rendere nuovamente omaggio a quel pittore-poeta straordinario che è Marcello postando qui nel blog il mio scritto contenuto nel Catalogo della mostra. E sotto sotto, ma nemmeno tanto, lo faccio perché così anche chi non l’ha potuto leggere su carta potrà ancora una volta, da qui, sentirsi vicino alla sua pittura. Chi conosce Trecose ormai bene, e ci nuota avanti e indietro come in piscina, ci troverà tante cose da me già dette, ma – io ci credo - repetita iuvant. Il titolo originale, all’interno del catalogo, è "Emozioni condivise ovvero Quando il Silenzio non fa paura"; questa è la versione prelevata direttamente dal mio file, quindi dopo l’operazione di taglio e cucito ma con ancora una dozzina di d eufoniche sparse…
L’appuntamento per tutti è alle ore 10.00 del 04 Novembre, davanti ad Orler TV, per lo Speciale riservato ai dipinti di Fiesole: per certo, in un qualche angolino, magari terrorizzata tra Sansone ed Harley, io sarò lì. Mi ha dato il permesso proprio ieri sera Giuseppe, durante la grande festa del Maestro Licata.
Fate entrare in casa vostra un dipinto di Marcello, anche piccolo, un acquerello magari: starete meglio "dentro").

Ho conosciuto Giovanni Faccenda davanti ad un dipinto di Marcello Scuffi, e ne è nata un'improvvisa e delicata amicizia; del resto dovevo aspettarmelo, perchè la pittura di Marcello è così: unisce le persone. Noi che amiamo i suoi dipinti ci riconosciamo a pelle, un po' come capita fra italiani all'estero. Magari qui in patria non ti degneresti di un reciproco sguardo, ma lontano da casa siamo tutti fratelli, accomunati da un'unica bandiera. Con Marcello Scuffi è uguale; ho conosciuto collezionisti dei generi più svariati che davanti al respiro dei suoi mari d'inverno e delle sue barche addormentate imparano il piacere infinito del silenzio, del perdersi in un'emozione comune. Così, quando Giovanni mi ha chiesto se volevo scrivere qualcosa per Fiesole (un invito che io ho interpretato più come un se "me la sentivo" piuttosto che un se "volevo"), a parte le lacrime iniziali perchè l'emozione è stata troppa, ho accettato, ed arrivati al caffè avevo già tutto scritto in mente.
Sono una persona qualunque, ho un lavoro che non c'entra assolutamente nulla con il mondo dell'arte, ho un marito dolcissimo, non pratico sport, amo i gatti e la pizza. Forse tutto questo è nato come un esperimento (facciamo sentire la voce di un "non addetto ai lavori"...), ma, se doveva esserci una prima volta, Marcello Scuffi è sicuramente la persona più adatta. Perchè dipinge bene, i suoi quadri sono belli. Cosa che detta così sembra di una banalità senza fine, ma che se guardiamo bene è il motivo principale per cui la gente lo ama e cerca le sue opere. Lasciamo che quelli del mestiere ci spieghino cosa possiamo vedere "oltre" l'opera, io che sono l'uomo della strada (l'operaio, l'impiegato, la casalinga, il professionista affrettato) dico quello che direbbe un bambino, e che poi è la verità di base: fa quadri belli.
Personalmente mi sono accostata ai suoi dipinti in seconda battuta, perchè il primo amore per Marcello è stato di mio marito. Io sono un tipo solare, ed all'inizio mi spaventava il suo limitato uso del colore, tutto quel silenzio, quei vuoti voluti. Mio marito è decisamente più in sintonia con lui, caratterialmente più malinconico ed incline a certe soffuse atmosfere. Io invece l'ho capito facendolo attraversare dalla poesia, perchè Marcello è un poeta vero, solo che usa il pennello al posto della penna. L'ho letto attraverso le liriche più profonde di Eugenio Montale, attraverso le frasi spezzate e pungenti di Ungaretti, e mi è entrato nell'anima come un brivido. Perchè da qui il passo è breve per comprendere che Scuffi ti insegna proprio a non sentirla, la paura del vuoto, del silenzio, della solitudine; anzi, ti mostra chiaramente l'emozione di abbandonarsi ad essi. Quando esci dalla frenesia che ti impone la vita, quando ti ritrovi faccia a faccia con la tua anima e non puoi certo scappare da te stesso - un bilancio di ciò che sei rispetto a ciò che hai lo devi pur fare almeno una volta nella vita - ecco, è il momento in cui perdersi in un dipinto di Marcello Scuffi aiuta. Molti dicono che lui dipinge il ricordo, ma è cosa che non condivido totalmente; non vedo tempi passati nei suoi dipinti, piuttosto un eterno presente sospeso. Un presente appena accennato, affinchè io ci possa mettere il mio, di presente, e l'operaio il suo, la casalinga il suo, il professionista il suo. Un'unica emozione che ci lega tutti. Non è forse questo lo scopo del pittore? Del poeta? Di chi fa musica?
Marcello Scuffi dipinge bene, dipinge come io profana intendo la pittura, cioè con il pennello ed i colori. Viviamo in un tempo in cui l'ingegno in nome dell'arte ha prodotto e continua a produrre varie sperimentazioni, più o meno riuscite, e sono tutte forme d'arte, beninteso, lungi da me criticare chi il pennello non lo usa. Tuttavia... l'emozione che mi dà la pittura di uno che sa davvero pitturare non ha eguali. Ecco, Marcello dipinge e basta, perchè quello sa fare, quello è: un pittore. Uno dei tanti tasselli di genio italico - quello da Giotto in poi, quell'aria trecentesca che Marcello fa soffiare così delicatamente bene - che portano in direzione del "bello assoluto" che non può sfuggire a nessuno, che mette tutti d'accordo; i gusti sono soggettivi (mi piace, non mi piace), il bello assolutamente no. Possono piacermi gli occhi verdi o nocciola, i capelli biondi o neri, ma una donna bella è bella ad ogni latitudine, indipendentemente dal colore degli occhi, dei capelli, della pelle. Per me che sono nata e cresciuta nel ricco occidente, per un masai africano, per un lappone: un bel tramonto, l'immensità dell'oceano, una tigre madre. Prendi il lappone e portalo dentro alla Cappella Sistina, metti il masai davanti ad un Caravaggio, e guarda che faccia fanno. C'è qualcosa che supera tutto il resto, qualcosa che ti fa star bene dentro, che ti fa fare pace con l'isteria del mondo: un bel dipinto, una bella chiesa, l’armonia infinita di forma e colore. Un quadro di Marcello racchiude tutto questo: lo guardi - uno qualunque dei suoi soggetti amati e cari, il circo, i treni, le barche, non importa quale - ed inizia sempre un dialogo muto ed inarrestabile. I dipinti di Marcello non gridano, sussurrano. E proprio per questo ti insegnano a tacere dentro, a lasciare il caos fuori. Soprattutto l'ultimo ciclo visto a Roma: pura essenza, via qualunque inutile orpello - e già nei suoi quadri ce n'erano ben pochi. Solo due-tre oggetti che diventano noi, raffigurazione di quelle persone che lui non dipinge praticamente mai, e poi la linea dell'orizzonte: sopra il cielo di ghiaccio, e sotto il mare, puro come marmo. Nient'altro che nitore e graffi, colori di sabbia e ferro, con un rosso improvviso a ricordare che c'è vita anche quando non sembra.
Uno Scuffi lo riconosci da lontano, perché Scuffi è uno coerente, e pur nelle variazioni della sua sensibilità nel tempo non si è mai adattato alle mode del momento. I suoi dipinti sono inconfondibili. A me è capitato personalmente di sentir chiedere in una Fiera, di altri nomi, "bello, chi è?": una domanda che credo sia la morte di ogni artista. Sei bravo, ma non sei. Sei "cool" (termine assai di moda ora, altrimenti pare tu non possa andare da nessuna parte), ma non mi ricordo nemmeno come ti chiami. Ecco: Marcello non è "cool", proprio per niente. Per fortuna. Per questo durerà per sempre.
E adesso devo spiegare perchè lo chiamo "Marcello" e basta, neanche fossimo parenti stretti. Il fatto è che mai come con Scuffi si è portati ad amare l'opera perchè ami l'artista. Marcello Scuffi è una persona vera, di quelle che non esistono più, o per lo meno sono rimaste in poche. Io per lavoro vivo in un mondo di parole campate in aria, di sgambetti e di rabbie represse, ma devo dire che il mercato dell'arte ci batte: frasi dette e non dette, melliflue insistenze, promesse esagerate, il tutto in mezzo ad un mare di denaro attorno a cui, lui unico e solo, tutto sembra dover girare. Marcello no, lui che esce dalla Toscana portandosela dentro, con le sue consonanti aspirate, il suo sigaro, le sue commozioni, e poi appena può ci si rituffa. Vede che ti piace un suo dipinto e ti ringrazia: lui ringrazia te! Lo compri, e quasi gli dispiace perchè piaceva anche a lui, oppure a Lia, dolcissima Lia (dietro ad ogni grande uomo si sa cosa si trova, sempre) che lo voleva tenere appeso in cucina.
Davanti ad un quadro di Marcello l'emozione è talmente "tanta" che non ha importanza quanto costa o quanto costerà, non ha importanza l'evoluzione del mercato, non ha importanza il fastidioso coefficiente che appiattisce tutto e tutti - anche se pure mio nipote che ha otto anni sa riconoscere un quadro bello da uno brutto, un delicato dipinto da una tela imbrattata di niente, anche se sono della stessa misura! Davanti ad un quadro di Marcello pensi solo che ti piace e lo vuoi vicino, e basta. Lo vuoi in salotto, commensale con te e la tua famiglia, mentre racconti la tua giornata. Lo vuoi in camera, per la buonanotte o per riempirtene gli occhi al risveglio. Un dipinto di Marcello Scuffi - liscio liscio come una meravigliosa parete in calce rasata, senza asperità, senza interruzioni - è terapia del benessere, predispone alla felicità, e non ha alcuna controindicazione.

venerdì 26 ottobre 2012

Assicuratori digitali

Vorrei chiarire, su richiesta, perché non sto facendo salti di gioia in riferimento alle ultime modifiche relative ai rapporti fra assicuratori, introdotte con il Decreto Legislativo n. 179 del 18 Ottobre a cui hanno affibbiato quel soprannome tanto carino (“Cresci Italia 2.0”). Me ne sto qui nel mio piccolo ad emozionarmi per eventi d’arte, o a raccontare dell’inevitabilità della vita, ignorando totalmente la cosa che pure alla fin fine mi riguarda da vicino più di Scuffi, Armodio, Faccenda e tutti gli Orler messi insieme (ma vuoi mettere?), mentre i vertici del Sindacato stappano le bottiglie e si gloriano sui giornali neanche fossero riusciti ad ottenere (solo ed esclusivamente per merito loro, sia chiaro) la ratifica della pace tra Israele e Palestina, o qualcosa di portata altrettanto fondamentale per il genere umano, sulla quale finora anche il Genio della Lampada nella famosa e simpatica barzelletta aveva desistito clamorosamente.
Il fatto è che per ora sono scettica e dubbiosa, e un tantino anche seccata perché mi sembra che tutto questo can can ci prenda un po’ tutti per i fondelli. Magari mi sbaglio, per carità, e se sarà così sarò come sempre pronta a fare ammenda, adesso lo posso fare anche pubblicamente dentro al blog; tuttavia, mi piace la citazione andreottiana (sempre che sia davvero sua, e comunque in quanto ad aforismi Andreotti resta un grande) “a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina”. Per certo un fondo di verità ce l’ha.
Premetto che questa volta il Cresci Italia Versione Turbo non l’ho letto tutto e bene: visto che nella prima parte la parola che più ricorre – e sinistramente – è “digitale” (istruzione digitale, sanità digitale, giustizia digitale…), ho sentito un brivido lungo la schiena e ho saltato a piè pari dentro la parte che riguarda il “mio” mondo. Morirò digitalmente soffocata dall’informatica, mi fa paura.
Cosa fa gioire tanto i nostri sindacalisti (e, per principio, quando un qualunque sindacalista gioisce io tremo); l’aspetto puramente tecnico e normativo sta tutto qui: chiunque si occupi di assicurazioni in Italia (dalle Compagnie ai Broker, dagli Agenti ai Subagenti eccetera eccetera) dal 2007 deve essere obbligatoriamente iscritto al Registro Unico degli Intermediari, che è composto da cinque sezioni in cui ricadono dentro tutte queste figure, a seconda del loro ruolo. Fino a ieri la collaborazione fra Agenti era vietata, che in teoria voleva dire: se un mio Cliente ha una necessità che la mia Compagnia mandante - o le mie Compagnie mandanti, se sono un Agente plurimandatario - non riesce a soddisfare per i più svariati motivi (perché non gestisce quel Ramo, perché il suo prodotto di quel Ramo fa schifo o costa troppo, perché metteteci quello che volete), sempre in teoria io sono destinata a perdere quel Cliente, essendo evidente che qualche Collega che lavora per un altro marchio che può offrirgli ciò di cui ha bisogno me lo porterà via.
Secondo le proposte del Decreto Digitale (ma direi che le possibilità che venga convertito in Legge sono alte, quindi diamolo per scontato) da domani questo divieto non ci sarà più, e io – che tra l’altro sono monomandataria, quindi rappresento una sola Compagnia, e tolta quella non ho altra scelta - potrò andare da un Collega di un’altra Compagnia ed accordarmi in tutta legalità affinchè sia lui ad emettere e gestire la Polizza che serve al mio Cliente (quella che io non riesco a fare), ovviamente retribuendomi con una parte delle sue provvigioni visto che se non era per me col cavolo che concludeva quell’affare. Tutte da decidere le modalità con cui questa cosa dovrà avvenire, ma sarà permessa.
Si vede che ho ripetuto due volte “in teoria”? Vada per la terza: IN TEORIA! E perché?
Perché E’ OVVIO che, nonostante non fosse permesso e/o legale, noi questo giochino lo facevamo anche prima, o pensavate davvero che fossimo così fessi da stare lì a guardare mentre i nostri migliori Clienti andavano ad assicurarsi alla concorrenza? Ma nemmeno il più stupido tra i dipendenti di Direzione (o tra coloro che legiferano delle nostre cose, non sapendo assolutamente nulla di come funziona il mondo reale) si può bere una balla così clamorosa, per piacere. E’ il miglior Cliente il mio vero patrimonio, e pur di non perderlo le studierò tutte. E’ altrettanto evidente che il tutto avveniva in stile “stretta di mano al bar”, visto che non poteva essere certificato: ad esempio, io ho un carissimo amico che lavora per una Compagnia che non ha nei suoi listini una Polizza per gli impianti fotovoltaici bella come la nostra, e quindi ho assicurato io un paio di impianti di Clienti suoi. Per la legge risulta che sono andata io fino a lì a stipulare la Polizza, ho fatto firmare io il modellino 7A, il 7B, il Questionario di adeguatezza, il contratto, ho ritirato io l’assegno a me intestato eccetera eccetera. Visto che non ci crede nessuno, diciamo che si avvicina di più al vero che io sia andata a pranzo con questo amico, gli abbia lasciato una bella busta con tutta la roba da firmare dentro, e lui si sia arrangiato tranquillamente da solo, rimandandomi tutto firmato indietro insieme all’assegno (a me intestato!), così per la legge l’intermediazione è stata limpida da me al suo Cliente, che io in realtà non ho mai visto. E le provvigioni? Beh, diciamo che poi può essersi verificata l’ipotesi inversa, e cioè che io lavori per una Compagnia che non ci permette di assicurare la Responsabilità Civile dei Professionisti perché il nostro prodotto è bellissimo ma costa il triplo di qualunque altro prodotto equivalente sul mercato (prodotto altrettanto ben fatto, eh, perché in Direzione sarebbe sempre ora e tempo che finissero di pensare che le Polizze bellissime le abbiamo solo noi e quindi la gente deve fare la fila fuori della mia porta pur di pagarle il triplo: non è così che funziona!). Se abbiamo fatto il giochino inverso per una o più Polizze dello stesso importo, direi che siamo pari, ognuno si tiene le proprie provvigioni e la cosa finisce lì. Oppure ci si paga una cena, dipende da quanto siamo amici. O magari – e diciamolo una volta per tutte, basta con questa ipocrisia di m/da! – ce le si passa sottobanco, senza fatturare niente, tanto all’Agenzia delle Entrate non gliene dovrebbe fregare più di tanto: le tasse che non ci paga sopra lui che li ha presi sottobanco, in realtà le verso io che non posso scaricarmi il costo! Perché va detto – attenzione prego – che noi assicuratori siamo dei contribuenti modello: non possiamo fisicamente evadere una cippa. Le nostre entrate, le provvigioni, sono certificate fino all’ultimo centesimo dalle Compagnie mandanti, perché per loro sono un costo e giustamente se le segnano tra le “uscite”. Certo, posto che io non menta, non ometta di dichiarare un’intera fetta di reddito comunque certificato e verificabile, ma allora lì siamo nel campo della delinquenza da dementi (ti beccano in venti secondi) ed è giusto picchiare giù duro. Ma se io non mento volontariamente (e io, personalmente, non lo faccio) per un assicuratore non è fisicamente possibile ricevere soldi IN NERO. Ci paghi le tasse sopra fino all’ultimo centesimo possibile. Io poi, che sono integerrima fino alla stupidità, ho anche dichiarato provvigioni prese da un Broker che mi aveva risolto – senza mandato - un “problemino” di un Cliente molto grosso con una fidejussione che era una rogna mai vista e la mia Mandante non voleva fare (però ti comodano tanto, eh, cara Mandante, tutti gli altri soldini che questo qui ti versa per i rischi più graditi…). Le ho dichiarate e ci ho pagato le tasse sopra, praticamente tra essere fuorilegge per l’ex-ISVAP o per gli Uomini in Grigio ho scelto di rischiare con l’ex-ISVAP e tenermi buoni i secondi.
Torniamo però a me ed al mio amico e collega, uno o più di uno, con cui finora abbiamo usato questo sistema per evitare di perdere reciprocamente i Clienti. Non so se vi siete accorti ma io per ben due volte ho usato la parola Cliente associata ad un’altra parolina, di fondamentale importanza, che è “migliore”. Tutte queste manfrine si fanno per i Clienti di un certo peso, mi pare lampante, non certo per il motorino dello sfigato che cambia Compagnia ogni anno per risparmiare due Euro. Vorrà dire che ora potremo farle alla luce del sole, fatturandoci reciprocamente le provvigioni, che si presume siano bei soldini, tanti almeno da giustificare tutta questa rottura di scatole. Benissimo, diventeremo ancora più bravi per il fisco, è giusto e da bravi italiani digitali.
Ma lo spirito della Legge non era affatto questo! Mai stato! Lo spirito della Legge, come quella prima di questa, e quella prima ancora, e via indietro fino a risalire alle famose lenzuolate di Bersani nel 2007 (tutte norme emanate da chi – ribadisco – di quello che succede in una Agenzia di assicurazioni, dei suoi tempi, e dei suoi costi soprattutto, non sa e/o non capisce assolutamente niente), era quello di tutelare il consumatore medio-piccolo (il consumatore grosso, o l’Azienda, che nemmeno avrebbe esattamente la qualifica di “consumatore”, ma se c’è da muover carta per niente ci cacciamo dentro tutti, si presume abbiano già la forza contrattuale per gestirsi bene le pratiche assicurative). Lo spirito era quello di dare una mano alle famiglie in difficoltà. Di aiutare chi non ce la fa ad arrivare a fine mese. E scusatemi la rude franchezza, ma con questa novità a mio parere non cambierà nulla, per questa gente qui. “Al fine di favorire una scelta contrattuale maggiormente consapevole da parte del consumatore”… scusate, sono ancora che rido.
Se mi entra in ufficio un Cliente che ha con me solo ed esclusivamente la Polizza RCA, e spende trecento Euro, ribadisco fino alla nausea: io ci guadagno circa trenta Euro, lordi. Che poi quando ci ho pagato le tasse sopra diventano quindici. Cosa dovrei fare per lui? Ci metto il mio miglior sorriso, la mia disponibilità, la mia professionalità, la mia competenza, il mio impegno, tutto il tempo che vuole, gli spiego tutte le clausole più astruse, lo proteggo da qualunque rivalsa (la famosa rivalsa! Leggersi il post “RCA Telefono & Internet”). Ma se questo si sogna che io cominci a chiamare uno o più Colleghi di altre Compagnie, vedere chi può fargli venti Euro di meno, far emettere la Polizza a loro, rilasciare una fattura perché io, in tal modo, riceverò dal Collega diciamo diciotto Euro lordi di compenso (sai che gioia per il mio commercialista quando dovrà registrarne un centinaio, di fatture così… mi spara subito un bell’aumento del 30% sulla parcella), beh, il mio Cliente se lo può scordare alla svelta. Piuttosto cambio lavoro, ma capisco che chi scrive le Leggi non ci arrivi. Chissà se si pongono mai un paio di domande, quando vedono che ormai la gente squarterebbe la mamma per un posto pubblico, non parliamo di un posto nel “giro” della politica, piuttosto che aprirsi la Partita IVA, lavorare dodici ore al giorno rischiando in proprio, e dando lavoro ad altra gente.
Tra l’altro, in tutte le celebrazioni di gioia esternate dal Sindacato perché ora noi Agenti potremo accoppiarci selvaggiamente alla luce del sole senza essere incriminati, si è sorvolato un po’ troppo velocemente su un altro comma di questo articolo 22 (“Misure a favore della concorrenza e della tutela del consumatore nel mercato assicurativo”, ma per favore…), e cioè il comma 1 che – se non ho capito male, ma nessuno ne parla, magari ho davvero capito male oppure ne ho letto una “versione burla” – abolirebbe il tacito rinnovo dei contratti RCA. Vale a dire: ogni anno la tua Polizza scade, e ciao. Ti mando l’attestato 40 giorni prima (NON più anche l’avviso 10 giorni prima), e arrangiati. Se ti dimentichi e vai fuori copertura, non venire a lamentarti da me. Se la rivuoi, bisogna rifare tutto daccapo: trattativa, emissione del contratto, sedicimila firme. Cioè come fanno le Compagnie On-Line, ma loro sono strutturate esattamente per questo. Noi diamo altro, e a volte avere la quietanza pronta per l’incasso è estremamente più comodo per tutti, Clienti compresi! Del resto chi vuole ogni anno fare il giro di venti Sportelli e/o Numeri Verdi diversi per farsi i suoi sacrosanti conti (di cui ha ogni diritto, beninteso) già lo fa, mica aspetta il permesso del Legislatore. L'ho detto e ridetto: se uno vuole davvero spendere meno possibile - parliamo solo di quantità, non certo di qualità - l'unico giochino è cambiare ogni anno; come con il gestore telefonico, con la bolletta del gas, dell'energia, forse come con la Banca. Io piuttosto mi taglio le vene, ma mica siamo tutti uguali: evidentemente c'è gente che ha giornate intere da perdere per risparmiare trenta Euro all'anno (ecco, io se perdo un'intera giornata butto via qualcosina di più di trenta Euro, per quello mi guardo bene dentro prima ancora di cominciare il giro), disponibili subito cash per il nuovo I-Phone!
Torno all'abolizione del tacito rinnovo, e mi immagino uno scenario da Inferno dantesco: ogni mese centinaia di Polizze da riemettere, magari identiche a prima, con spreco infinito di carta, toner (tutta roba che costa… e dove li mettiamo questi costi? Su chi li ribaltiamo, tanto per capirci?), tempo, voce, a discapito della consulenza VERA, perché quanto ancora dovremo andare avanti a discutere di venti Euro in meno sulla RCA obbligatoria mentre c’è bisogno di tutelare la casa, la salute, il futuro, il risparmio? Macchè, perdiamo pure una mattinata intera a rinnovare tre Polizze di ciclomotori! Questo comma terrificante non l’ha notato nessuno?

P.S. Confesso, questo post l’avevo scritto alla pubblicazione del Decreto, perché anche se Scuffi, Armodio, Faccenda e gli Orler messi insieme in effetti mi piacciono di più delle questioni assicurative (ma anche presi singolarmente, devo dire) io comunque sono seria per quanto concerne il mio lavoro. Nel frattempo, la mia Mandante ha chiarito quanto meno l’aspetto del non tacito rinnovo, ricordandomi ancora una volta (se mai ce ne fosse stato bisogno) perché io resto monomandataria, e perché rappresento non altri ma Lei, questo glorioso nome del nostro passato, troppo spesso transitata in mani immonde, ridotta a spezzatino per faccendieri senza scrupoli, spremuta senza pietà, sedotta ed abbandonata, ma ancora così affascinante. Perché, in fondo, qualche testa buona da noi c’è. Infatti, la risposta a questa bomba del non tacito rinnovo è stata: stiamo calmi, va bene, aboliamo ogni termine di disdetta. Caro Assicurato riottoso, vuoi andartene? Vai, è un tuo diritto. E sono anche magnanima, ti garantisco comunque i quindici giorni di copertura post-scadenza, anche se sotto sotto non te lo meriteresti, visto che mi stai abbandonando senza neanche uno straccio di telefonata, o sms, o fax (fallo almeno per educazione, visto che io mi preoccupo se vedo che vai in giro scoperto). Equivale esattamente ad eliminare il tacito rinnovo, visto che ti lascio la massima libertà. In fondo, io non corro dietro a chi non mi vuole, mai fatto neanche sulle questioni personali, figuriamoci se alla mia età mi metto a farlo sul lavoro.
Ma se conservo ancora qualche Cliente educato e sano di mente, al quale va bene quanto gli avevo proposto l’anno prima, che vuole venire a trovarmi pagando la quietanza “rinnovata tacitamente” (che magari costa anche meno!), parlando di altre cose altrettanto se non più importanti, credo che abbia tutto il diritto di farlo senza sentirsi giudicare uno che fa “scelte contrattualmente inconsapevoli”. Anzi, secondo me questi sono i più dritti di tutti, che hanno capito che dieci Euro spesi in più oggi fanno un aiuto in più quando davvero serve, domani.

domenica 21 ottobre 2012

Barcollo ma non mollo

Premetto, premetto, ed ancora premetto: io di arte non capisco niente. Nothing. Nada (ho finito le lingue di mia conoscenza). Non è il mio mestiere, non è il mio settore. Però ho gli occhi, e ho un cuore, ed a volte forse è più utile usare quelli.
Ieri sono stata ad ArtVerona, e non vedevo l'ora, scalpitavo da giorni; dopo i mesi estivi iniziano una dietro l'altra, come i bagigi, le Fiere d'Arte, e ce ne sono parecchie che possiamo raggiungere in giornata senza troppi traumi, quindi ce le prenotiamo tutte. Io ovviamente sempre elettrizzata ed al massimo, cosa che non sempre è un bene, perchè me l’aveva spiegato Leopardi già alle scuole medie  che in certi casi il piacere dell’attesa, l’aspettativa stessa, appaga più del momento tanto bramato (e infatti io ci sono andata di Sabato, tanto per sdrammatizzare Giacomo…): è come andare ad un primo appuntamento atteso per settimane, per poi scoprire che a lui puzza l'alito, o non sa usare i congiuntivi, o tifa per il Milan (non necessariamente nell'ordine).
Magari in settimana ci rimuginerò su e mi verranno nuovi pensieri, ma per ora la freschezza dell'immediato mi fa venir fuori questi:
- Fiera semideserta in quanto ad espositori, che tristezza, che brutto segnale, due padiglioni praticamente vuoti, con spazi tra una fila di stands e quella subito a fianco talmente larghi da poterci giocare a calcetto. Lo noti subito già entrando (e fai il paragone con il ricordo degli anni passati), e poi facendo il primo giro ti rendi conto che è ancora peggio, perchè devi levar via tutti quelli che vendono giornali, il banco dei panini, la caffetteria, i ragazzi seduti sull'erba finta che fanno il picnic e tutte le altre performances che vanno benissimo per chi se la tira tanto con le nuove forme d'arte e la libertà d’espressione, ma non per chi va lì a vedere quadri. Certo, c'è sempre il Mazzoleni di turno con cui rinfrancarti lo spirito, perchè ti mette in bella vista quei tre-quattro Fontana, i suoi più bei Mathieu, i De Chirico, gli Afro, azzardo che credo siano sempre gli stessi identici pezzi da due anni di Fiere in qua ma va bene lo stesso, è sempre un bellissimo vedere, anche se parliamo solo di vedere-e-non-toccare, perchè l'uomo della strada (categoria a cui io appartengo) difficilmente ha la possibilità di comprare qualcosina da Mazzoleni.
- I galleristi sono come indemoniati, e li capisco: è inutile fare gli ipocriti, in molti sono ormai in ginocchio. Però cari signori, l’avete pure avuto il periodo di vacche grasse, ed il fatto che adesso tocchi alle magre non vi autorizza a saltare addosso al povero collezionista che passa di là per guardare, per farsi un'idea delle nuove tendenze, per gustarsi un po' gli occhi, magari anche un pochino interessato e non solo tanto rompiscatole. Non vi autorizza ad aggredirlo, non vi autorizza a sentirvi offesi se non compra niente dopo che gli avete dedicato trenta secondi del vostro tempo. Anche il collezionista ha i suoi problemi, e potrei essere sicura che voi per cento Euro in meno da un paio d'anni vi siete assicurati la macchina con una sconosciuta Compagnia on-line senza neanche leggere bene tutte le Condizioni contrattuali, ma erano pur sempre cento Euro in meno (mi sa che ci siamo capiti). Se l'economia non gira per nessuno, avete poco da tenerci il muso. Così facendo ci togliete anche il piacere di avvicinarci, e se cade quello allora davvero vi restano solo i rompiscatole, tipo quel signore che lo scorso anno in Fiera a Padova si passava uno per uno tutti gli stands con richieste assurde di spiegazioni e prezzi, e poiché era ovvio che lo faceva solo per spocchia dopo un po’ i galleristi tendevano ad allontanarlo. Allora questo elemento si è avvicinato a me e mio marito chiedendo se potevamo andare a chiedere per suo conto un determinato prezzo ad un determinato gallerista, ed al nostro rifiuto ci ha apostrofato con sdegno “opportunisti borghesi”. Ma sì, posso anche sentirmi tanto opportunista & borghese se serve per distinguermi da uno pseudo-intellettualoide farneticante e vestito come un contadino della Bassa Padana anni Cinquanta, credo anche con una lieve erre moscia. Io però non stresso i galleristi, e i quadri, quando posso, li compro senza fare tanta scena, una firmetta e via.
- La stragrande maggioranza degli espositori (in entrambi i padiglioni, anche in quello degli "storicizzati"), a parte qualche rarissimo caso, propongono gran giovani promesse, comprensibilmente per carità, visto quanto deve costare riempire uno stand con quadri di un certo peso. Così facendo invece si sta fuori con pochi soldini, o forse sono proprio questi nomi nuovi che tirano fuori i quattrini purchè tu metta in bella vista le loro opere. Sparito Schifano, che l’anno scorso dominava; abbondanza assoluta di Biasi & cinetismo; qualche bel Tozzi - direi anche bellissimo - e qualche Adami di qualità in più rispetto al solito (ma in compenso il “mio” adorato Salvo non è più onnipresente come prima… peccato), e poc’altro. Abbiamo anche affrontato l’argomento in serata, a cena, con un carissimo ed acuto amico “del settore”, che a causa di recenti delusioni ha tirato fuori quel pelino di cattiveria che ancora mancava al suo candore, e sta facendo grandi passi.
Sappiamo bene tutti infatti che molti nomi nelle Fiere non si vedranno MAI, perché sono tipici del mondo dell’arte in televisione, ed il mondo dell’arte che parla all’occhio nero non incontra nè mai incontrerà il mondo dell’arte di Galleria, quello che parla con la stretta di mano (chissà se sarà il mondo dell’arte sul web a diventare il trait d’union tra questi due universi così distanti). Ma certe assenze si notano.
Non dico che la cosa sia negativa in se stessa, visto che tutto sommato parliamo di Fiera e non di Museo (però qualche bel pezzo storico in più male non farebbe, per lo meno ti invoglia a continuare ad andare per Fiere), tuttavia le cose che saltano all'occhio sono principalmente due: intanto costano tutti un botto. E i galleristi non possono pretendere di rimettersi in sesto il bilancio con degli emeriti sconosciuti che fanno opere enormi, così anche con un coefficiente da fame il prezzo è alle stelle. E' come con l'abbigliamento: è chiaro che su un tailleur di Armani il rivenditore non guadagna tantissimo, perchè Armani è Armani, già alla fonte costa; il rivenditore guadagna tanto sulla sottomarca ciofeca (quella che dopo tre lavaggi si autodistrugge) che lui compra a peso in qualche scantinato dai bengalesi. Ma posto che non pretenda di venderla A ME al prezzo di un Armani, perchè non sono mica idiota, la vedo la differenza!
La seconda cosa che mi lascia perplessa in questa nuova ondata di nomi è che ormai con "arte" possiamo comprare di tutto: cose belle e cose meno belle, strane installazioni, tantissima fotografia (onnipresente!), multimateriali (farfalle, pizza bruciata, cannucce, bigliettini, vestiti strappati), arredamento, tutto tranne pittura. La Pittura è la Grande Assente. Cos'è: è diventato troppo difficile? Troppo faticoso? Troppo impegnativo? Troppo poco remunerativo? Certo, meglio spendere i soldi per far fare le etichette "Estintore a Polvere" sopra gli estintori a polvere della Fiera, per evitare che qualcuno chieda quanto costa e chi è l'artista... Io continuavo ad aggirarmi tra molte opere di ARTIGIANATO (alcune anche di pregevole fattura, ma pur sempre artigianato), e mi chiedevo: ma dove sono finiti i QUADRI?
Non voglio assolutamente denigrare nessuno, tanto meno le opere fotografiche, anzi sto addirittura facendo un pensierino serio su Liu Bolin, artista cinese che personalmente trovo interessantissimo, c'è tuttora in corso una sua mostra al Museo Andersen di  Roma che mi continua a tentare tanto, ma ho già fatto Roma-Palermo-Fiesole di fila il mese scorso, ed il budget per gli spostamenti d'arte con pernottamento obbligatorio è terminato fino a fine anno, visto che bene o male anche con il low cost tra mangiare, dormire e viaggetto parliamo pur sempre di 400 Euro a botta... E poi c'è Kandinsky a Pisa, che mi intaccherà per primo il 2013, probabilmente seguito ancora da Roma per Vermeer.
Liu Bolin parte già simpatico perché ha un nome semplice, che si legge esattamente come si scrive, e quindi è facile da ricordare rispetto ai suoi allegri ed impronunciabili colleghi di questo Estremo Oriente che procede con l’acceleratore dell’economia e dell’arte a tavoletta. Se non sapessi che è cinese potrei anche pensarlo da Chioggia! E comunque, ha avuto un'idea spiazzante nella sua semplicità, che è scoccata in un giorno preciso (il 17/11/2005) quando il Villaggio degli Artisti dove lui aveva lo studio fu distrutto e saccheggiato dall’esercito governativo: il mimetizzarsi con il suo ambiente, per fondersi con la sua sofferenza, per scomparire mentre lui scompariva, per piangerne le ceneri diventando anch'esso cenere. O lamiera. O ramo spezzato.
Da qui il passo è stato breve per arrivare a mimetizzarsi e fondersi con tanti altri ambienti, altre storie, altre vite non necessariamente di dolore, perchè il Camaleonte ha scoperto quanto è bella la vecchia Europa con la sua arte e la sua storia gloriosa. Eccolo allora (serio serio, sempre uguale e mai uguale, con quella divisa militare addosso da far sparire, come in un contrappasso dantesco) che occhieggia dagli scavi di Pompei, che appare e scompare dai ponti di Venezia, che scruta il passato delle vie di Roma, che si nutre della nostra bellezza nei Musei e nei Teatri. Un grande, nuovo gioco di ri-conoscenza.
Per la cronaca, lui ha messo l'idea e ci mette la faccia, sono altri che lo dipingono esattamente come lo sfondo su cui va a posizionarsi, e poi clic. Un clic che diventa lungo quanto un intero giorno, con la luce che cambia e ti sballa i toni del colore, o con la pioggia che arriva e ti scombina i piani. Lo trovo arguto, innovativo, globalizzante, quasi commovente.
Ma è una fotografia... E io ho già detto cosa penso della fotografia elevata ad ARTE (vedi post “Ecco una cosa che non so”). A dire il vero nel frattempo qualcosa in me è cambiato, diciamo che se parliamo di “espressioni d’arte” piuttosto che di “arte” e basta, allora mi sta bene anche ampliare le vedute, e ragionare anche di installazioni, foto, video eccetera. Però posto che si ragioni a piramide, cioè immaginando la Grande Piramide di tutte le Espressioni Artistiche con rigorosamente alla base tutte le provocazioni, le installazioni, i video; subito dopo certa fotografia che non è performance, che non è preparata e studiata per inviare un preciso messaggio. Foto belle e basta (non posso togliermi dalla testa che esistono foto belle anche dei giaguari o dei pinguini).
Dopo ancora (e man mano che si sale la dimensione della piramide si restringe, c’è meno spazio, non è da tutti) le cannucce o le farfalle; dopo ancora, per me, la fotografia “pensata”. Ma solo verso la cima c’è la pittura dipinta, ed attenzione che al vertice di una piramide lo spazio è assai ridotto, non li metterei tutti insieme, perché c’è chi dipinge con la bomboletta e fa venti opere al giorno, e c’è chi dipinge con l’anima e fa trenta quadri l’anno. Il vertice è per pochi. La Piramide è una per tutti, ma qualcuno sta parecchio sopra alla base.
E tutto sommato questa esemplificazione della Piramide che mi è venuta così dal niente mi piace proprio anche per i critici d’arte, così potrebbero finirla di insultarsi a vicenda più o meno apertamente: vanno bene tutti, tutti si occupano di “espressioni artistiche”, certo che chi si occupa di chi sta alla base non potrà essere lo stesso che si occupa di chi sta al vertice. Il vertice, la somma espressione, è molto, molto difficile per tutti, per chi lo occupa e per chi ne parla.  
Del mio, dopo una, cento, mille fotografie, vorrei poter vedere un quadro "vero". Vorrei vedere gli eredi di Scanavino (che c'era), di Dova (uno solo, nascosto), di Sironi (pochi, ma uno mi bastava per tutti). Invece, purtroppo, niente. Niente pittura vera, niente maestria che lasci il segno negli occhi e nel cuore. Niente, nothing, nada. Esattamente come quello che io so di arte, a quanto pare. 

martedì 16 ottobre 2012

Seta e cotone

Quando Alex, dopo mesi di tentativi e suggerimenti, capisce cosa fare del rotolo ed esce dal bagno tutto soddisfatto, cosa fa? Va al lavoro nel suo Centro Copie.
E' una battuta, ovviamente, ma andava premessa perchè ho incontrato dal vivo un vero Alex, che nella realtà si chiama Michael (del resto ruderi come Paolo o Francesco o Matteo ormai sono fuori moda, che domande), e posso scrivere il seguito a "Generazione di fenomeni".
E' un incontro che risale a qualche mese fa, ma poichè era avvenuto in occasione della preparazione di un regalo che mio marito ed io volevamo fare ad un amico, e c'era il rischio che questo amico leggesse il mio blog prima di ricevere il regalo e facesse due più due, abbiamo atteso per lo meno di consegnarglielo. Adesso che è cosa fatta, posso finalmente riderci sopra e raccontare la genesi di questa cosa, anche se il riso è un po' amaro perchè amara è la constatazione di dove stiamo andando a finire.
Decidiamo di fare questo regalo ad un amico che veste in giacca e cravatta presumo anche sotto la doccia, ed ama l'arte: scegliamo delle immagini di opere a lui care e troviamo chi ce le stampi su cravatte. Non pensavo di dover scalare l'Everest, in fondo siamo nel 2012, mandiamo dei robottini che camminano sulle loro piccole ruote su Marte e li muoviamo da qui con un joystick, abbiamo anche inventato la nebbia che vede (l'ho letto di recente, roba da fanta-guerra di Megaspie, minuscole gocce che contengono minuscole telecamere), vuoi che non sia possibile stampare una foto su un pezzo di stoffa?
Io, si sa, ho una fiducia pressochè illimitata nell'intelletto umano, ma mi sono resa conto presto che c'era qualcosa che non andava, perchè da una prima ricerca su Internet avevo trovato siti che mi chiedevano sei Euro (cravatta compresa) e siti che me ne chiedevano sessanta, per la stessa roba. Ho voluto allora tornare all'antico, lasciar perdere il web e cercare un Centro Copie di quelli che fanno un po' di tutto, con i macchinari enormi collegati a computers e video, di quelli che mi fan venire voglia di chiudermi dentro una biblioteca nonostante la polvere (pur di sentire odore di libro), ma almeno con qualcuno a cui spiegare vis-à-vis cosa mi serviva. L'ho trovato, ed ho conosciuto Michael. Ragazzotto dall'aria assonnata, con cappellino incorporato (di quelli con il frontino portato girato per dietro), con garanzia di conoscere tutte le parole del vocabolario se composte fino a due sillabe, sopra le due si vede di volta in volta come butta.
Il concetto alla fine pareva questo: Sì (monosillabo), è possibile stampare immagini digitali su cravatte. No (altro monosillabo), non costa tanto. Ma (altro monosillabo) devono necessariamente essere di poliestere o cotone, altrimenti viene male. Io sono curiosa di natura, mi sarebbe piaciuto capire PERCHE', da dove nasceva questa differenza, mi sarei sorbita volentieri tutta la spiegazione tecnica (è affascinante, vero, scaricare una foto da una chiavetta dentro un macchinario che dopo dieci minuti la trasferisce dove la vuoi, una pagina, una maglietta, una cravatta, e pensare che l'homo sapiens è partito dalle caverne e dai bastoni), ma non ho voluto infierire visto che il ragazzo era già molto provato, e quindi mi sono limitata a dire va bene, peccato però che non sia possibile stampare su seta (che oltre ad essere un materiale indubbiamente più pregiato, è più bello ed è anche un bisillabo).
Lui mi dice: "Va bene anche la seta, se è cotone". No Michael, la seta non è cotone: è seta. Sono due tessuti diversi, due mondi diversi: il cotone è vegetale, la seta è animale. Il cotone è una pianta con tante palline bianche, la seta è la bava di un verme (o se vogliamo essere più poetici, di una aspirante farfalla).
In quel momento mi sono tornati alla mente tanti ricordi di quando abitavo nell'appartamento di prima, e andavo a lavorare in autobus perchè avevo comodo il capolinea e tante corse utili a tutte le ore rispetto ad oggi. Prendendo tuttavia l'autobus sempre alla stessa ora, soprattutto la corsa della mattina presto, si era creato un piccolo microcosmo di noi pendolari, sempre gli stessi, ormai ci conoscevamo tutti; sono quelle classiche situazioni in cui non ci si saluta e non ci si parla perchè in effetti non ci si conosce, si è solo uno dei passeggeri di una anonima corsa, ma ci si scruta, ci si osserva, ognuno si siede sempre allo stesso posto, scende sempre alla stessa fermata... Basta che uno salti un giorno, e con gli altri scatta subito lo sguardo d'intesa (non c'è! Che sia malato, anzi no, sarà sicuramente in ferie, ha l'aria di uno che ne avanza!), non parliamo poi se uno ha l'abitudine di parlare al cellulare a voce alta, si diventa amici di tutta la sua famiglia, e questo lo dico per l'elegante e bella signora mora che lavorava all'INPS e si sedeva al terzo posto a sinistra dopo la ruota. Il mio posto era a destra (vi concedo una sola battutina facile e scontata...), subito dopo la porta centrale - che da noi è quella da cui obbligatoriamente si deve scendere, perchè scendevo abbastanza presto e non volevo dover avanzare a spintoni, e c'era sempre la stessa signora straniera che mi si piazzava di tre quarti dietro come un paziente avvoltoio, e prendeva il mio posto da lì fino alla Stazione, fine corsa. Sai che gioia per lei quando ho cambiato casa.
Perchè questa lunga digressione: perchè in realtà, a parte la minima componente adulta dei passeggeri, la stragrande maggioranza era composta da ragazzi dai quattordici anni in su, piccola umanità in germe appesa a grossi zainetti, tutti raccolti in gruppi lungo la strada verso i Licei della città, oppure (i meno brufolosi) verso la Stazione per salire sul treno, direzione Università di Padova. E considerando che quella tratta ha rappresentato le mie mattine per una decina d'anni, ho fatto in tempo a vederne molti, di ragazzini, alcuni li ho proprio accompagnati dalla prima superiore alla laurea, li ho visti crescere, ho ascoltato immobile ed invisibile loro storie, le liti con i "grandi", i primi amori, ho sorriso mentre si interrogavano a vicenda per prepararsi alle lezioni (sanno un sacco di cose per me incomprensibili, e poi mi cadono sulle domande più idiote!), soprattutto quando affrontavano Letteratura Italiana, visto che sarebbe bastato riavvolgere il film della vita agendo in maniera impercettibile su uno scambio dei binari, ed avrei potuto esserci io, ad aspettarli dietro la cattedra con il registro in mano. Li becchi subito, tra i ragazzini, i futuri Alex e Michael. Una volta in particolare ho assistito ad un dialogo che è doveroso riportare integralmente, perchè basta aggiungere ai due personaggi una decina d'anni o poco più e si capiscono tante cose di come andrà il mondo d'ora in poi (il dialogo è tradotto, perchè in lingua originale non uscirebbe dal Veneto, ma in dialetto era - purtroppo - ancor più illuminante):

a) Ciao
m) Ciao
a) Sei stato in ferie?
m) Hm-hm
a) Bello?
m) Hm-hm (Nota: si vede, vero, che siamo sempre sotto le due sillabe, anche nei mugugni??!!)
a) Dove?
m) Santorini (Cavoli! Quattro sillabe!!)
a) E cosa è? (Cosa mi sta a significare "cosa è"? Domanderai al limite "dov'è"?!)
m) Un'isola (Ecco perchè aveva chiesto "cosa" era! Allora sono io che non capisco proprio niente!)
a) E C'E' IL MARE?

A questa domanda il Michael di turno non aveva risposto a voce, ma fatto segno di sì con la testa e basta. L'Alex di turno, felice che in quella che probabilmente per lui era la famosa "Isola Pedonale di Santorini" ci fosse – sorpresa! - davvero il mare, non aveva indagato oltre. Giusto per capirci, va bene anche la seta, se è cotone.
Per quanto poco potesse costare (ognuno guardi al portafoglio suo), ho preferito fare il San Tommaso di turno, dubitare e scegliere di fare un prova, che almeno se viene uno schifo ho buttato via solo la cifra x, e non quattro volte x. Non avendo sotto mano io cravatte disponibili (di poliestere, cotone, o seta purchè fosse cotone), ho scelto di usare una di quelle fornite da Michael, in poliestere bianco Made-in-China, una cosa terrificante, ma lui dal fornitore - mi spiega - le ha solo bianche o nere. Una cravatta bianca te la metti al limite solo per la Prima Comunione (la tua, non quella di tuo figlio o tuo nipote), ma pazienza, se viene bene la stampa vorrà dire che me la tengo io appesa al frigo e poi ordino cravatte con colori portabili. Ho sfoderato la mia chiavetta-dei-sogni-proibiti e mostrato a Michael il Trovatore di De Chirico del '54, che è di una bellezza mozzafiato, esattamente quello che sta qui a contorno nel mio blog sotto al contatore delle visite, trasuda De Chirico anche dal bordo, lasciato – lui sì -  volutamente bianco.
Michael ha armeggiato un pochino con la sua attrezzatura e mi ha detto: "Sarà un problema far venir fuori tutta l'immagine, ti va bene se metto in primo piano solo il signore qui?" Che dire, fammi pure un bel primo piano solo del signore qui, con le sue cosciotte arrossate, chissà tutto questo sole dove l'ha preso, di sicuro pedalando...
Incredibilmente, è venuta fuori una cravatta da meraviglia. Spettacolare. Una figata. Bianca come cravatta resta orribile, ma l'immagine a colori salta fuori e sembra viva, incisa, bellissima, sfumata sui bordi, non vedi dove finisce la stampa e dove inizia il tessuto, anzi non sembra nemmeno una stampa, sembra dipinta. Bravo Michael, magari come Alex non sai fare la raccolta differenziata ma almeno fai bene il tuo lavoro, allora posso andare in cerca di cravatte vere da portarti qui (con vere intendo di colori portabili, così magari uno se le può anche mettere addosso, visto che la cravatta a quello servirebbe).
Da notare che per reperire in pieno Luglio cravatte "in poliestere o cotone", "in tinta unita" (e non viola, arancione, o simili) e con "paletta da almeno 9 centimetri" non resta che Ebay, perchè anche al mercato rionale ridono, a quanto pare sono cose che si comprano solo d'inverno, e del resto confesso in merito una certa disabitudine perchè mio marito la cravatta non la porta nè l'ha mai portata, che io sappia. E aggiungo che è un peccato, perchè ne esistono - Michael e la Cina a parte - di veramente splendide, e sono sempre ottime idee-regalo per i mariti, soprattutto i mariti-delle-altre (è maleficamente gradevole vedergli addosso, in bella vista e vicino al cuore, qualcosa che viene da te e non da lei).
L'unico problema su Ebay può essere la scelta del colore, perchè se deve andarci sopra un quadro non mi basta sapere che sia "blu", devo VEDERE cosa intendi tu per "blu" (concetto complicatissimo per molte sane aziende del Nord), ma per fortuna abbiamo trovato un cravattificio vicino ad Enna che in quattro e quattr'otto ha prodotto apposta per noi e senza tanti sofismi dei bei cravattoni grossi in tinta unita, stile matrimonio gattopardesco, celeste, blu e un lieve rame, scelti su una tavolozza che se la sogna anche l'imbianchino che mi ha rinfrescato le pareti dell'ufficio quest'estate. Grandi i siciliani! In questo modo va a finire che, tra cravatte, spedizione, stampa e confezionamento, tutta la solfa ci costa di più che andare a comprarle da Marinella a piedi, ma ormai eravamo lanciatissimi.
Le porto da Michael e scarichiamo insieme le altre immagini. Sono proprio contenta.
Quando vado a ritirarle però Michael non c'è, è andato a tagliarsi i capelli perchè si sposa (in effetti è un buon motivo per tagliarsi i capelli) mi spiega la sua mamma mentre mi consegna le cravatte. Cravatte - per la cronaca - DEVASTATE da immagini stampate prima su gommina e poi appiccicate sopra con l'adesivo, neanche lontane parenti di quella dechirichiana, un lavoro immondo, addirittura con i bordi dei quadri sagomati a mano per farceli stare.
Io non sono il tipo che fa casino nei negozi, che fa chiamare il cuoco nei ristoranti, che chiede del Direttore allo sportello della Banca; solitamente la mia forma di protesta consiste nel non farmi più vedere nel posto in cui ritengo di aver subito un trattamento negativo, e magari un po' di cattiva pubblicità, ho pur sempre duemila e passa Clienti a cui mando duemila e passa avvisi di scadenza all'anno (duemila e passa scritte colorate "Occhio che la pizza nel Tal Posto fa schifo", non costa niente ed è estremamente più subdolo ed efficace).
Ma non stavolta, ci stava mandando all'aria tutta l'idea, ormai era una questione di principio. Ho pagato, perchè io pago sempre i debiti, ma ho preteso di parlare con lo sposo. Che a dire il vero è stato bravo, mi ha chiamato la sera stessa, dicendomi TESTUALMENTE: "Ciao! Hai visto che schifo sono venute fuori le tue cravatte?". Che dire, in certi casi ti cadono le braccia, le hai fatte tu, eh, mica io! Se provassi io a dare una risposta del genere ad un mio Cliente, magari uno che dopo vent'anni che paga una Polizza Vita (Mista!) non tira neanche la somma dei premi pagati, se io dicessi qualcosa del tipo "Che schifo di Polizza ti ho fatto firmare, vero?" penso che dovrei scappare in Nuova Guinea, alla svelta e cercando di cancellare le tracce.
Eh, sì, ho ribadito io, sono venute brutte rispetto alla prima che avevi fatto, non trovi; e lui non pago: "Bruttissime! Fanno proprio cagare!" Mi scuso per il francesismo, è di riporto. Insomma, io non capisco: hai visto che facevano schifo, che erano venute male, ma me le hai fatte pagare lo stesso come l'altra? Risposta: sì (monosillabo). Però lo ammette, e di questo - I suppose - dovremmo rendere grazie a Dio.
Me l'ha anche spiegato, come mai sono venute una vera m/da: lui in realtà non sapeva che il problema principale non è il supporto (poliestere, cotone, seta, legno o piombo a questo punto, come Umberto Mariani, che fa dei lavori a mio parere estremamente interessanti per quanto non adatti al mio momentaneo scopo) ma il COLORE del supporto, che deve essere solo e rigorosamente bianco, altrimenti la stampa sbava (come il baco). Ma come, non avevi detto che ne avevi anche di nere? No, solo bianche, la roba nera che aveva sotto il banco erano le magliette (ah!). Allora ha usato quest'altra tecnica gommosa, e ha ritagliato ed incollato le immagini sopra alla bava.
Capito come sono Alex, Michael, e tutta la loro generazione? Vedono che una cosa sta venendo male, perchè il più delle volte non sanno un accidente di quello che devono fare, e non pensano neanche per un secondo di fermarsi, di informarsi, di chiamare la persona che ha commissionato il lavoro (e che paga per questo), fare il punto della situazione, trovare soluzioni alternative eccetera eccetera. Macchè. Buttano su la prima schifezza possibile, e te la consegnano come niente fosse, a pagamento. Poi, SE TE ACCORGI tu da solo, al limite sono anche disposti a rifare il lavoro, ma posto che sia chiaro che non ti rimborseranno la parte ciofeca. In soldoni, me le sono fatte rifare tutte bianche, vorrà dire che il nostro amico farà a meno di portarle e le terrà appese in ingresso come complementi d'arredo un po' diversi dal solito (cioè esattamente come ho fatto io con quelle del Gattopardo, perchè mi piangeva il cuore a buttarle, per rispetto ai quadri: le ho annodate ai ganci per i cappotti, e nella penombra la gommina nemmeno si distingue), o magari le lascia così nel loro espositore, su una scrivania, tanto si vede anche da lì che la cosa da apprezzare era il pensiero dolce, non certo l'etichetta “Ottavio” piuttosto che “Domenico&Stefano” piuttosto che “Giorgio”, tanto quella uno se la compra da solo, se vuole.
Ma non è per questo che mi secca, e neanche per l'aspetto economico (che Michael ha faticato a capire, visto che non erano soldi suoi). Mi secca perchè se Michael, invece di stamparmi una cavolo di foto su una cavolo di cravatta, avesse dovuto verniciarmi la macchina, sarebbe stato lo stesso. Idem se avesse dovuto rifarmi il bagno di casa. Idem se fosse stato il Dottor Michael, ed avesse dovuto operarmi! Questo ra-gaz-zot-to (quattro sillabe) e tutti i suoi simili si alzano ogni mattina, vanno al lavoro, e non hanno la minima idea di come si faccia, il "lavoro". Pressappochismo in primis, e se poi li scoprono deresponsabilizzazione totale, io non lo sapevo, arrangiatevi. C'è davvero da meditare (visto che il futuro – per ovvie questioni d’anagrafe –  sta andando in mano a loro) su quel "fanno proprio cagare"... 

domenica 14 ottobre 2012

Rinascita (uno, due, tre compleanni)





(Non guardate la copertina del disco, Celentano come persona non è neanche che mi piaccia tutto questo granchè, nè lui nè le cose di cui tende a straparlare. Ma non si può mettere solo musica qui dentro, se scarico da Youtube la musica l'immagine viene fuori per forza. E qui c'è Mogol che ha come sempre una forza impressionante, c'è Bella che ha composto un'intera partitura tutta giocata su toni diminuiti e mi fa venire la pelle d'oca, oltre alle lacrime; io adoro il suono degli accordi in settima. E la voce di Celentano quando canta e basta, quella sì, a modo suo unica, a raccontare come, alla fine, si rinasca, sempre. Io pure.)

Oggi è il mio compleanno, ma tanto ho smesso di contarli da quando è arrivato davanti il quattro. Mi vedo allo specchio, e guardo oltre: ho imparato, sorridendo.
Tra un paio di mesi compirà un anno questo blog, e dovrò decidere cosa fare, se continuare a tenerlo aperto, continuare a postare raccontandomi al mio piccolo mondo, oppure no. Quando è iniziato tutto in realtà avevo due obiettivi: uno erano i famosi Primi Quaranta Giorni, che avevo pubblicamente condiviso. Dovevo/volevo postare ogni giorno qualcosa, per quaranta giorni consecutivi, possibilmente qualcosa di decente e MIO da leggere, senza troppe citazioni o foto o video (anche perchè all'epoca non avevo la più pallida idea di come fare a postare foto o video!), e senza farlo sapere a nessuno: solo se qualcuno avesse bussato alla mia porta, trovandomi per puro caso entro quaranta giorni, avrei continuato. E' successo, e difatti siamo ancora tutti qui. Ma sotto sotto avevo un altro obiettivo, un pelino più ambizioso: arrivare alla prima candelina. Mettermi davvero alla prova per un anno, un intero anno, perchè un anno può passare in un lampo o non passare mai, a seconda dell'occhio che lo guarda.
Esattamente un anno fa (meno un paio di giorni) ho stipulato Polizze che torno ad incassare ora, e con i Clienti sorridiamo nel commentare il battito di ciglia, perchè il tempo vola: i pessimisti mi parlano del piede ancora affossato nel pantano della crisi, gli ottimisti di quello che ne è fuori. Ogni volta ci sembra ieri. Era - effettivamente - solo IERI.
Esattamente un anno fa (meno un paio di giorni) la Persona-Che-Ho-Dimenticato mi aveva portato a mangiare filetto e patate al forno - l'ultima cena prima dell'Ultima Cena - ma sembra siano già passati secoli, per tutta la girandola di eventi ed emozioni che ha preso a vorticarmi intorno negli ultimi dieci mesi. Ogni tanto la parte razionale di me mi tira per la manica e mi costringe a fermarmi a pensare se sia davvero tutto accaduto, visto che è in edicola Arte con la pubblicità del catalogo di Scuffi, che ti butta lì come niente fosse il mio nome e cognome. Ho fatto un salto sulla sedia, vedendola: proprio io, non la mia già nota omonima studiosa di Brecht e di letteratura tedesca. Dieci miseri mesi, che sono sempre un po’ di più dei sette mesi di durata standard di un’infatuazione, secondo il tempario di Vista Lunga (Vista Lunga è una mia carissima ed argutissima amica, che, oltre a farmi da proto on-line quando il mio proto ufficiale dorme o è in ferie, mi tiene utilmente con i piedi per terra quando io parto per la tangente, cosa che succede spesso dal momento che sono una che tende ad infiammarsi, e purtroppo tra infiammarsi e scottarsi la differenza è un filo che può tagliare, lo stesso filo che separa i sogni dalle illusioni).
Forse un giorno finirò anche per ringraziarla, la Persona-Che-Ho-Dimenticato, per essere sparita così di colpo ed in modo tanto meschino, visto che i vuoti sono fatti per essere riempiti. Se sparisce una cosa grande vuol dire che lascia tanto posto, per tanta altra grandezza che faccia meno male.
Comunque, vedremo. Nel frattempo, visto che ormai il mio nome è noto, ed il mio cognome (per chi legge Arte e ama Scuffi) pure, e dove vivo, per chi lavoro, insomma sono caduti un sacco di muri che dovevano coprire una sorta di privacy che tendo a difendere quasi con cattiveria, oggi farò un altro strappo alla regola, perchè c'è qualcuno che si lamenta del fatto di non sapere che faccia ho. Posterò quindi una mia foto; ma visto che farmi vedere/notare è cosa che non amo, nel modo più assoluto, metterò una foto di me di qualche anno fa, giusto per essere riconoscibile ma non troppo. Questa sono proprio io, seduta su una seggiola rossa alta una trentina di centimetri che esiste ancora, da qualche parte, a casa dei miei genitori. Ho ancora quel modo di guardare un po' incantato, ho ancora i capelli più o meno con i boccoli (anche se la piastra mi aiuta a nasconderli sotto un liscio-liscio che fa tanto signora elegante), ho ancora sempre fame in una mano e bisogno di affetto vero nell'altra. Basta solo aggiungermi sopra un numero imprecisato di anni che comincia per quattro.




giovedì 4 ottobre 2012

Armodio

(Tornata dalle emozioni di Palermo ho scritto, scritto, scritto. Ed atteso, perché visto che oggi 04 Ottobre è il compleanno del Maestro Armodio, volevo che il post ci cadesse dentro, come una torta con le candeline. Curioso poi, così vicino al compleanno di Scuffi – ed al mio, tra l’altro. Tutti nati sotto ad una ramata foglia d’autunno. Auguri!)

Sono estremamente in imbarazzo. Ho dunque partecipato all'inaugurazione della Mostra di Armodio "La dimora delle verità silenti", all'interno del Palazzo Reale di Palermo, e sono rimasta senza parole. Io, a bocca aperta.
Sono seduta qui a scrivere, tassativamente convinta di fare come al solito: far fluire le mie emozioni, leggere i quadri con l'occhio del fruitore-che-per-lavoro-fa-altro, raccontare l'esperienza della "persona normale". E non mi viene in mente niente di "pratico"!
Perchè Armodio altri non è che LA PERFEZIONE. Non ci puoi girare intorno, non puoi fare paragoni con nessuno, non puoi farlo scendere dall'Olimpo, dove per diritto divino la sua abilità risiede, e mescolarlo ai comuni mortali; credetemi, non sono impazzita, se volete vi parlo un pochino di R.C. Auto così vedete che sono sempre io. E' Armodio che sta una spanna sopra, e mi rende la cosa davvero molto, molto difficile. Finisci per impostare il discorso con termini da critico professionista, ma anche in quel caso ci esci perdente, basta guardare il catalogo: all'inizio quasi quattro pagine - figure escluse - scritte fitte fitte dalla Somma Acidini (mai viste così tante da lei), e poi da Daniela Brignone, Giovanni Faccenda, e pure Stefano Zecchi, mica quelli dell'ultimo banco. Ed alla fine l'antologia critica: venti riassunti di esegesi dal 1970 in poi, di quindici critici diversi. Hanno fatto davvero le cose in grande, per questa Mostra, a cominciare dall'ambientazione (le Sale Duca di Montalto) davvero spettacolare, che si sposa a meraviglia con la pittura del Maestro, con i suoi tratti senza tempo e le sue cromìe. Penso a molti pittori contemporanei, anche ottimi, che pur "stonerebbero" come una pianola scordata in quelle sale, perchè usano colori troppo accesi, perchè hanno gestualità violente, perchè non sanno camminare in punta di piedi  (ma non Scuffi, Scuffi no, anche lui ci starebbe gran bene).
Venti quadri più qualche pezzo già visto al Chiostro del Bramante l'anno scorso (visto da altri, non da me). Non moltissimi, quindi, ma me ne sarebbero bastati anche metà per capire che Armodio è un genio. Parlo solo delle tempere, neanche sono riuscita a soffermarmi troppo sui disegni e sulle carte anticate, sui quali lui schizza il bozzetto e fa la prima lavorazione (allora lo vedi che la Perfezione, il Genio, partono puntualmente dal saper disegnare bene "sotto", come affermo sempre anche io! Sarò un'assicuratrice che si occupa di cose non sue ed ogni tanto straparla, ma non sono del tutto scema!); già solo con le tempere avevo il nodo in gola. Ci siamo anche temporaneamente separati, io e mio marito, cosa che di solito non facciamo mai nei Musei, nelle Fiere, nelle Mostre, perchè leggiamo l'emozione l'una negli occhi dell'altro, per comprenderla e viverla meglio, io con più razionalità e spirito di osservazione, e lui tutto istinto e spirito di rinnovamento. Non so perchè, forse ci vergognavamo pensando al rischio di beccarci reciprocamente ad asciugare una furtiva lacrima, oppure con la bocca aperta, se non direttamente svenuti alla Stendhal.
Tra l'altro, c'è da dire che non siamo propriamente una coppia mondana, le nostre serate fuori sono da tempo ridotte al lumicino (io, poi, sono per natura un po' orsa, piuttosto che discoteca o roba simile firmo con il sangue per una serata di chiacchiere a quattro, con pizza e libri in casa); le emozioni che ci aveva riservato la serata al Chiostro del Bramante per Balsamo, giusto la settimana prima, non erano ancora sopite. Non posso assimilare tutto troppo in fretta, rischio davvero di star male per aver fatto indigestione di bellezza; una serata come quella di Roma mi dà una carica che dura per un mese, e sovrapporci così presto qualcosa di altrettanto forte dal punto di vista emotivo mi sballa. Deve essere qualcosa del genere la sensazione di chi fa uso di sostanze strane; praticamente mi sono fatta un sorta di trip d'arte!
E mi stringe il cuore se penso a coloro che vivono questi eventi come "la normalità", magari per timbrare il cartellino, o per dire "io c'ero", o peggio ancora "mi hanno visto anche lì" (il vestito, le scarpe, chi sta con chi): quante perle gettate, quante. Per mantenere nell'anima a vita anche una sola goccia di certe emozioni, io sarei pronta a dare un braccio, non c'è paragone, tanto mi resterebbe sempre l'altro (cosa ce ne facciamo di braccia, gambe, occhi, bocca, se dentro siamo inariditi, o peggio ancora svuotati?).
Piccola nota da sociologo, su una curiosa differenza che è saltata al mio occhio molto provinciale comparando queste due serate, entrambe profondissime, in due città entrambe ricche di storia, cultura ed intelligenze: Roma patisce molto la “notorietà” (la fama, il vip), Palermo invece il “potere” (dato dalla politica, dal ruolo, dal denaro). Buffo. Meglio non scavare più a fondo, e continuare a far da parete.
ARMODIO: è proprio vero che non sbaglia mai, ogni tavoletta è un miracolo di eccellenza, non c'è un millimetro quadrato fuori posto, non puoi aggiungere o togliere niente, sono tutte un unico equilibrio di purezza. I soggetti sono strani: pentole, caffettiere, mele secche, uova, ma com'è facilmente immaginabile sono fatti perchè lo sguardo vada oltre (anche se a dire il vero pure il fermarsi lì basterebbe a riempirlo di bellezza assoluta). A prima vista mi ha dato la sensazione di veder scorrere cartoline e fotografie d'altri tempi, mi sono immaginata il Maestro accovacciato in una qualche soffitta polverosa, mentre estrae dal classico baule magico (è tipico di tutte le soffitte polverose avere almeno un baule magico nascosto da qualche parte) tante piccole meraviglie avvolte dalle ragnatele del tempo, mentre le lucida, le prepara una ad una per la gioia dei nostri occhi, ma in fondo anche dei suoi.
Poi ne abbiamo parlato con lui in persona, chiedendogli il perchè di queste scelte così singolari e minuziose, e ci ha raccontato il suo percorso (è tutto nel suo Sito Internet, di cui va molto fiero, e parliamo di un uomo nato nel 1938... come mi sono sentita impedita...), quando abbandona le prime esperienze surrealiste alla Dalì, ed approda ai cicli dei ritratti immaginari perchè "voleva inventarsi le facce dei suoi avi che non aveva mai visto" (parole sue); e visto che Armodio sotto sotto è uno che ti fa l'occhiolino, che si diverte ad interagire con chi guarderà la sua creatura, secondo me anche quando dipinge il ciclo delle scarpe, o delle librerie, continua in realtà a studiare facce, bocche, sguardi, e lo stesso fa con queste caffettiere: sono tutte dei ritratti (io ci vedo il bambino, il notabile, la coppia scoppiata, il militare, la ragazza innamorata, la nonna che fa la maglia...). Oserei dire addirittura che possono essere autoritratti, tante smorfie buffe di Armodio che gioca a fare il camaleonte con chi lo guarda, lo legge, lo cerca dietro ogni più piccolo particolare: la vite arrugginita, il filo rosso, la venatura del marmo, la piega della stoffa, la polvere. Tutto perfetto, come quegli sfondi da antiche pareti, ora sabbiose ora spugnose, dove appunta come con uno spillo da sartoria d'alta moda il cartellino con il suo nome, lasciandoci il dubbio se lui sia il brillante stilista, o piuttosto il rigoroso sarto dalle mani d'oro, o ancora sia lui, e non noi, il Cliente per cui quella meraviglia è stata commissionata, in attesa di un ritiro o di un ritorno a casa.
Ho scoperto da questo catalogo (perchè io li leggo, i saggi di esegesi, scritti da quelli bravi, e ne vale la pena, sempre) che la Somma Acidini ama definire ogni arte con il suo specifico linguaggio d'espressione, quindi in teoria mai mischiare pittura e letteratura o poesia o musica, come faccio puntualmente io. Che figura (lei in realtà parla dei termini da usare, ma l'ho vissuta interiormente come una penna blu). Proprio non ci riesco, per me il sentire è immediato, è un unico binario: come faccio a guardare le tempere di Armodio e a non sentirmi risuonare nelle orecchie Pascoli ed il suo Fanciullino? Quel fanciullino che vive ancora di stupore e meraviglia, di intuizione e di ricordi, e che "scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose". E' un furbacchione, Armodio, ci lancia sorridendo un'esca per vedere se sappiamo ancora "vedere", "guardare", "sognare"...
Gusto mio, assolutamente personale, ma già che ci sono assegno il mio podio, come Giovanni Faccenda quando fa gli Speciali da Orler: sono andata fuori di testa per i dipinti con lo sfondo scuro, rosso cupo, come di cuoio, sul quale le parti metalliche delle due caffettiere risaltano come venature nel pellame. Ergo, prendendo la copertina del catalogo come una ipotetica scacchiera, D1 e A2 a pari merito per l'oro (Re e Regina). L'argento alla D4, con la mela e la brocca accomunate dall'aleggiare della ruggine, con quel rametto che non sa da melo (ecco lo scherzo di Armodio) ma è più un tralcio di vite (o forse di vita?) che visto dal vivo e non sulla pagina patinata sembra sbucare fuori. E il bronzo in D2, un'opera talmente bianco latte che fa luce già sulla copertina rispetto alle altre, dal vivo è uno squarcio di meriggio, con quel ricciolo di metallo così solido che non puoi fare a meno di chiederti come l'abbia dipinto, se usando un pennello o spremendolo direttamente fuori dal cuore della tempera. Armodio muove e vince in quattro mosse!
Gli ho anche chiesto se potevo toccarle, le tavolette, perchè il polpastrello ha una sua voluttà che non sempre l'occhio soddisfa, e lui mi ha lasciato fare, spiegandomi come il suo uso tutto personale della tempera la fa sembrare come oli, con una densità che può ben rappresentare un gradino come un vero gradino, una piega come una vera piega, in rilievo addirittura. 
Una persona squisita, il Maestro Armodio, pensatore estremamente colto e raffinato con un aspetto da incredibile bonaccione, da locandiere che non diresti. Per me neanche lo immagina di essere un genio, quando glielo dici allarga le braccia come per dire "bravo forse, il resto chi lo sa". Bravo sa di esserlo, ad ogni modo, e con mio marito poi in hotel discutevamo di tanti artisti che si definiscono "concettuali" perchè sono in realtà vere frane a dipingere, e quindi è comodo buttare tutto sul significato, sull'"idea", per nascondere carenze tecniche paurose. Signore e Signori, esiste Armodio, scompaiono tutti: c'è l'idea, c'è il concetto, c'è il pensiero, c'è il messaggio (vogliamo prendere ad esempio la tavola con i due barattolini ciclopici, freschi di nozze, ancora con la mano nella mano, e già con una parte del loro "sì" che va a farsi benedire? Dice niente a nessuno?), e ci sono anche una perizia, una capacità, un risultato senza paragoni. Metafore umane dipinte da mani non umane.
Se usiamo il sistema più crudo ed antico, dividendo il mondo tra simpatici ed antipatici, è evidente che Armodio casca coi primi. Uno che scherza, che sorride, che se vai sul discorso quotazioni fa la battuta sul fatto di essere ancora "pittore vivente". E' ovvio ed immediato, per me, pensare a Marcello Scuffi e paragonare le due diverse forme di "umanità",  grande e fortissima in entrambi, in Marcello tutta toscana, in Armodio tipicamente emiliana fin dalla parlata. Che ne so, è come mettere in tavola il maialino di cinta (lo so che è senese, ma sempre Toscana è) ed i tortelli alla piacentina: son due portate totalmente diverse, ma entrambe ghiotte! Ti fai fuori primo e secondo, e lo vedi che parlare di locande non era poi così fuori luogo.
A dirla tutta il Maestro Armodio mi ha tanto ricordato una persona che vive dalle mie parti, un omone grande e grosso che è abbastanza conosciuto da noi indigeni perchè gestisce un agriturismo particolarissimo: ha un solo tavolo (mediamente per una decina di persone). Se vuoi andarci a mangiare devi prenotare anni prima; noi ci siamo riusciti una volta sola. La sua non è cucina: è passione, è follia, è arte. Ti porta in tavola i vari piatti spiegandoti come li prepara, cominciando dal tipo di pastone che fa mangiare all'oca, di come la vede crescere, fino a quando te la serve, con tutte le fasi intermedie. Lo stesso con la pasta, le verdure, tutta roba dei suoi orti, ed i vini. Lì non mangi: vivi un'esperienza palatale a tutto tondo.
Armodio uguale: parla dei suoi dipinti e si illumina. Li conosce uno per uno come figli, e non sono moltissimi, te li spiega pennellata per pennellata, particolare per particolare. Ti fa capire la ricerca che ci sta dietro. E' immenso, non so trovare altro termine. Mi sarebbe piaciuto tanto stare seduta vicino a lui a cena solo per  ascoltarlo, perchè poi ci hanno anche invitato con loro - gentilissimi - i signori della Casa d'Arte San Lorenzo, ma giustamente se lo sono coccolato i due curatori, Daniela Brignone e Giovanni Faccenda, uno alla sua destra e una alla sua sinistra come con Gesù - e come li capisco. Che poi io a cena stavo anche male, sarà stata l'emozione ma avevo lo stomaco bloccato, avrò fatto la figura di quella carina e muta, cioè il mio esatto contrario in verità! (anche se devo dire che mi ero preparata davvero bene per la serata: mi sentivo, dentro e fuori, bellissima – anche in confronto alle “bellissime” per tacito accordo – infatti chi ha rivisto il giorno dopo la mia versione “diurna” senza un filo di trucco e con le MBT incorporate da passeggio praticamente non mi ha riconosciuto).
Oppure era l'effetto dell'overdose di prima, visto che ho ormai definitivamente accettato l'idea di essere drogata d'arte, di bello e di chi lo predica. Troppo in una volta sola.
Già che ho nominato Gesù, gli chiedo scusa per il paragone ma mi viene a fagiolo una citazione evangelica che mi ha ronzato nella testa per tutta la sera, perchè io e mio marito siamo collezionisti recenti ed impulsivi, tendiamo a comprare tante piccole cose piuttosto che accantonare la grossa cifra che ci permetterebbe di avere in casa il nome importante/storicizzato. Lo facciamo con nomi ed opere che ci piacciono, senza guardare al valore sia in termini di denaro che di fama, e difatti abbiamo preso qualche cantonata, opere che resteranno - seppur piacevoli - pura e semplice decorazione, ma ci sta, uno non può arrivare ad Armodio dal nulla, neanche lui fosse un casello autostradale che fagocita centinaia di vetture all'ora, una dopo l'altra e via. Armodio è un rifugio montano isolato, di quelli che raggiungi con la fronte imperlata di sudore dopo ore ed ore di camminata in salita, ora sotto spuntoni di roccia, ora su per sentieri umidi, finchè lo vedi apparire lì davanti, che si staglia sull'enormità del cielo terso ed azzurro, immenso e desiderato quanto il cielo stesso. E' per pochi eletti, gente che lo sappia capire. "Il Regno di Dio è simile ad un tesoro nascosto in un campo. Un uomo lo trova, lo nasconde di nuovo, poi pieno di gioia corre a vendere tutto ciò che ha e compera quel campo. Il Regno di Dio è simile ad un mercante che va in cerca di pietre preziose; quando ha trovato una perla di grande valore, egli va a vendere tutto quel che ha e compera quella perla" (Matteo 13,44-45). Ecco, direi che Armodio, dopo che hai smesso di balbettare, ti fa capire come fare un primo salto verso un collezionismo di bellezza e valore più consapevole (ma consci che i nostri otto adorati Scuffi resteranno dove sono). Amen.

Gente di Palermo

Da Firenze in giù non ho visto molta Italia, giusto qualche volta a Roma (ma Roma e basta, mai oltre il Grande Raccordo Anulare, ed il più delle volte per specifiche occasioni, dal giuramento del morosetto alla Cecchignola alle odierne Mostre, quindi sempre senza rimanerci più di qualche giorno), un Luglio di molti secoli fa al Conero, e poi un fine settimana lungo in Salento.
Mi dispiace, perchè mi rendo conto che vivo in uno dei Paesi più belli del mondo in quanto a natura, piccoli borghi sconosciuti, e meravigliose città (ed il più bello in assoluto in quanto ad arte, storia e tradizioni), ma sono le classiche cose che si trascinano: prima hai gli amici con cui muoverti ma non hai un centesimo, poi guadagni qualcosina e ti sei persa di vista con gli amici, poi hai il moroso/marito e anche i soldini e non hai più tempo. O modo. O voglia. Fatto sta che fino a due mesi fa era assolutamente impensabile per me l'idea di prendere un aereo al volo per andare in Sicilia, ma quando l'artista in questione si chiama Armodio non solo deve essere pensabile: diventa obbligatorio.
Palermo solamente, a dire il vero, non certo vacanza in Sicilia, ma per me comunque con un particolare sapore da "ritorno alle origini", perchè io sono per un ottavo palermitana doc.
Sorpresa! Uno dei miei bisnonni da parte di madre, con tutti i suoi avi, era nato e cresciuto lì, e lo so per certo, vista la meticolosità della raccolta dati fatta per quel ramo del mio albero genealogico, come ho già avuto modo di scrivere in "Globalizzazione di inizio Novecento"; a proposito, ogni tanto cerco di citare i miei precedenti post perchè bene o male dalle Statistiche di Blogger vedo che vengono letti sempre e solo gli ultimi, il che non è cosa carina da parte vostra, perchè finite per perdervi il senso del discorso nella sua interezza. I miei post stanno tutti appesi ad un unico filo, come tante fotografie ad asciugare con le loro mollettine colorate, filo che va percorso insieme dall'inizio alla fine (se siete maniaci del digitale, e non avete mai provato a tenere carta fotografica fra le mani, leccandone un angolino al buio prima di immergerla, per sentire dove sa di sale, e distinguere il fronte dal retro, non sapete cosa vi siete persi. Oppure, più semplicemente, siete troppo giovani).
Il nonno della mia mamma, piccoletto e verace, faceva il comandante sulle navi mercantili; un bel giorno capita a Venezia ed approfitta, mentre la nave è attraccata a fare carico/scarico, per farsi un giretto, e sbatte contro questa giovane veneziana biondissima e bellissima (non lo dico perchè era la mia bisnonna, a cui peraltro io non assomiglio per niente a cominciare appunto dai capelli e dalla bellezza, tant'è vero che io sono sputata sputata - nell'aspetto e nel carattere, cocciutissimo - a sua nuora, la mia nonna che niente aveva a che fare con quel ramo dell'albero; lo riporto solo perchè lo diceva – sospirando dai balconi – mezza Venezia), alta una buona spanna più di lui, con due occhi chiari da brivido, e paf! si innamora come un pesce lesso.
Non mi è dato a sapere se il colpo di fulmine fu reciproco, anche se sono più propensa a credere ad un tenace lavoro di martello da parte del bisnonno innamorato, visto che a casa dei miei genitori è ancora conservato (da tempo rilegato in libretto) il pacchettino della moltitudine di lettere che lui le spediva costantemente, con frasi del tipo: "Gentile Signorina, da quando la vidi la prima volta non riuscii a pensare ad altro che a Lei", e dentro la lettera una dolce violetta pressata (secca ormai, ma che trasmette ancora adesso tutto quello che il bisnonno voleva dire). Amore di fine Ottocento, fa sorridere ma - sotto sotto - anche un pochino di invidia, visto che viviamo nell'era del tutto-e-subito (tutto e subito già a quattordici anni! Quali emozioni potrai riservarti di vivere quando ne avrai venti, o trenta?).
Insomma, il tosto siciliano l'ha avuta vinta, se l'è sposata e portata a Palermo (tra i mugugni dei giovanotti veneziani alti, biondi e delusi) dove poi è nato il mio nonno materno Gaetano detto Tano. Non che ci siano rimasti molto, giù in Sicilia, perchè tra il lavoro di lui che lo portava a girare parecchio le città di mare, tra la nostalgia di lei che voleva a tutti costi tornare su (chissà se lui le ha mai detto "miiii, hai proprio scassato la m/chia con questa Venezia e Venezia!"), dopo una quindicina d'anni il mio nonno era già ritornato in laguna, esibendo il suo nome-cognome non propriamente veneto. Nome che tra l'altro è appiccicato in terza battuta a mio fratello, perchè la mia famiglia è molto, molto legata alle tradizioni (potevo venir fuori diversamente, io?), e quindi alla prima figlia femmina viene dato un nome e poi, in sequenza, i nomi delle due nonne (prima la paterna, poi la materna). Al primo maschio viene dato un nome, e poi come secondo e terzo nome quelli dei due nonni (mio fratello non l'ha mai digerito bene, quel "Giuseppe Gaetano" a far da coda).
Per dovere di cronaca, io che sono la sfigata di mezzo avevo finito i nonni, e quindi mi è stato messo come secondo nome Maria, in onore della Beata Vergine. Ma poichè anche la mia nonna materna faceva di nome Maria, io alle elementari volevo precisare che il MIO Maria non era stato messo lì per via della nonna (come a mia sorella maggiore), ma per onori religiosi, e puntualmente a chi mi chiedeva dicevo di chiamarmi "Paola-Maria-Per-La-Madonna", cosa che suscitava sempre una qualche ilarità negli astanti. Poi col tempo ho capito, ed ora alla domanda fatidica mi limito al primo dei due, che tra l'altro è anche corto abbastanza da non venir storpiato da quelli che devono per forza creare i nomignoli.
Io e mio marito detestiamo cordialmente tutti quei "pucci-pucci", "micina-lupacchiotto", "patatina-cuccioletto" e chi più ne ha più ne metta, vomitando e via. Lui mai, è originalissimo, infatti in questo periodo in cui ha una fissa terribile per i tappeti (perchè li "sente" più dei quadri, li tocca, li pulisce, li vive, ha anche eretto un piccolo altarino a Nonno Catone Biasioli sopra ad una sella yomut), quando mi chiama di solito usa appellativi come Karatchop, Lori Pampak, Chondoresk, Hachlù. E io gli rispondo anche... Infatti mentre andavamo giù a Palermo l'ho pregato di darsi una ripassatina al mio nome di battesimo, qualora avesse dovuto richiamare la mia attenzione in una Sala strapiena di gente ad alto tasso istituzionale.
Volare verso Punta Raisi ha rappresentato quindi una piccola attesa in più per me, anche se - come dubitarne! - il giorno dell'inaugurazione della mostra di Armodio è venuto giù un diluvio tale che non ne vedevano così tanta da anni, lì a Palermo, e quindi - dopo un colpo d'occhio spettacolare all'atterraggio (mare gonfio di bianco, blu ed azzurro, ed improvvisi picchi di roccia e terra brulla, con qualche rara, aspra vegetazione testarda) - non ho potuto più di tanto gustarmi il tragitto fino a Palermo centro, che immaginavo ricco di odori e profumi particolari, ed invece è stata una normale oretta d'autobus, neanche fossi ancora pendolare all'Università. In mezzo a tanti cartelloni pro-elezioni tra l'altro (a fine ottobre i siciliani voteranno per la Regione), che come ogni cosa riguardi marketing e vendita io osservo con particolare interesse immaginando il lavoro che c'è dietro, visto che da una sola parola può dipendere la buona o la cattiva riuscita di ogni campagna (quanto di più con questi cartelli elettorali, nei quali sei lì a vendere la tua faccia, e non un prodotto qualsiasi). Ce n'era uno particolarmente simpatico: lo slogan di un candidato diceva "Una persona perbene", con il "perbene" sottolineato. Accidenti: vale la pena di dirlo? Non dovrebbe essere LA NORMA? O va da sè che gli altri non lo sono? Speriamo vinca questo qui, allora!
Palermo: non ho molto da dire, purtroppo. Anche se ammetto di averla visitata male e di corsa. Ma in mezzo a poche perle (l'esterno della Cattedrale, tutto il Palazzo Reale, un paio di vie con bei palazzi dagli interni alti e silenti, misteriosi, inaspettati), che stanno lì a ricordarti come doveva essere una volta - regale, ricca di storia, elegante ed orgogliosa - c'è solo tanta sporcizia, tanto caos indefinito, tante carenze, qualche pericolo. E tutti guidano come dei pazzi. Come a Roma, solo su strade molto, molto più strette, con marciapiedi inesistenti o dissestati. Tuttavia, visto che non sono una che ama il lamento e cerco sempre di trovare qualcosa di positivo ovunque io vada (e ci riesco, praticamente tutte le volte, cosa di cui vado anche un filino orgogliosa, perchè è solo così che il mondo migliora: tirando fuori e sottolineando forte la sua parte di bene, non di male), devo dire che c'è stata comunque una cosa che mi ha incantato. Parlo dei palermitani. Per carità, io evidentemente ho incontrato solo palermitani buoni (come il signore "perbene" delle elezioni), non ho fatto brutti incontri in vie malfamate, comunque va detto, davvero. Intanto le ragazze sono tutte belle; ci sono un sacco di sventole vere e proprie, roba da concorso, tranquille in jeans e maglietta per la strada, mentre da noi saranno a mala pena tre e si danno un sacco di arie. Ma a parte le fuori categoria, sono belle in generale: bei capelli, occhioni dolcissimi e profondi, bei sorrisi. Anche quelle non propriamente in forma smagliante (diciamo che la loro cucina non aiuta), che da noi escludi in partenza e lasci nel cassetto col cartellino "ciccione".
E poi tutti, maschi e femmine, sono proprio persone che conquistano, hanno una cortesia innata, un senso della premura incredibile, si vede che lì da loro c'è stato molto mondo arabo. Chi non ha vissuto la tipica cortesia araba sulla propria pelle può rivedere per capire meglio il tutto quel lieve film gradevolissimo che è "Lezioni di cioccolato", con Hassan Shapi/Kamal (attore keniota, ma che si becca sempre la parte dell'arabo) che non permette nemmeno l'inizio di ogni discorso all'affannato Luca Argentero/Mattia se prima non gli chiede notizie sulla salute di tutta la famiglia, fino alla terza generazione. Al cinema ridi, ma sotto sotto sono segnali di delicatezza che con la nostra fretta ci perdiamo sempre. Perchè noi quassù nasciamo con la fretta addosso, viviamo di fretta, mangiamo di fretta, lavoriamo di fretta (questo non sempre è un male, però, eh), e ci viene puntualmente l'ulcera.
I palermitani sono lentissimi, all'inizio la cosa dà un po' ai nervi perchè avverti che stai perdendo tempo: trenta secondi per dire una cosa che puoi dire in tre. Che significa trenta MINUTI per una cosa che puoi fare in tre. Come con il caffè: da noi vai al bar e c'è la scatoletta con le bustine dei vari tipi di zucchero, ti fanno il caffè e ti metti lo zucchero zitto e rapido, prendendoti la bustina che meglio ti comoda. A Palermo no: ti fanno il caffè e poi ti chiedono (sempre molto, molto lentamente) "E che ... lo zucchero ... ci vuole?" Sì, grazie "Normale ... o canna ... lo vuole?" Canna, grazie "Quante bustine ... una ... due?" Una, grazie Questo a mio marito; io uso lo zucchero normale (basta un salutista in famiglia), per cui la trafila si è ripetuta anche per me. Un nervoso allucinante, all'inizio, però a guardar bene in questo modo hai infilato nel discorso - lungo ed inutile, per carità - ben tre "grazie" (sei, con i miei tre), che è sempre una parolina che fa bene alla salute ed alle pubbliche relazioni, e che troppo spesso viene dimenticata. Allora ho cominciato ad osservare ed ascoltare bene questa calata strascicata, questi piccoli, adorabili bronci, questi nasetti arricciati in attesa della tua risposta, queste movenze lente, questi sguardi buttati di lato, ed ho capito una cosa: i palermitani sono dannatamente SEXY, caspita! Vuoi vedere che il segreto è quello? Come in albergo, c'era una signora in reception (e mica giovanissima era, avrà avuto la mia età o anche qualcosa di più), che con una grazia incredibile è riuscita a dirmi che gli assicuratori sono tutti ladri senza nemmeno che mi offendessi; anzi, ancora un pochino e mi convinceva. Una donna affascinante, che parlava della figlia di tredici anni che rifiutava di mettersi le scarpe col tacco (discorso venuto fuori dalle mie usuali difficoltà: alle Mostre io vado con i trampoli e tanta sofferenza, mi serve il taxi anche per fare cento metri), e diceva che la voleva vedere "femmina". Femmina, non "donna" (come diremmo noi), non so se mi spiego; in quel "femmina" c'è tutta l'essenza degli occhioni neri di Palermo. Il mio ottavo di sangue si è sentito dannatamente orgoglioso.