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giovedì 8 novembre 2012

Una storia

Ai più attenti non è sfuggito il mio accenno alla gomma-pane di Armodio. Perché mai un’assicuratrice per quanto infaticabile – al limite con una laurea in Lettere e Filosofia, ma nulla di artistico - dovrebbe aver dimestichezza con la gomma-pane? Sapere com’è fatta, conoscere la sua essenza modellabile, quasi come una piccola scultura che cambia forma nelle mani, trait d’union con il disegno, uso a cui nasce destinata? Sapere che nasce bianca, vive nutrendosi di grafite e carbone, senza consunzione alcuna, e muore nera, dopo una vita di segni, di chiaroscuri, di macchie assorbite o volutamente depositate?
La risposta a questo perché mi riporta bambina, ancora un volta sprofondata nei ricordi del mio ramo palermitano; perché a casa mia, carissimi, la gomma-pane c’era, assieme alle matite, quelle più morbide, con tantissime “B”, da appuntire - operazione quasi sacra, gesto tramandato e meticoloso - rigorosamente con il coltellino e la carta vetrata fine, misteriosi oggetti vietati ai più piccoli. 
Perché a casa mia SI AMA IL DISEGNO. Arte semplice e tuttavia inarrivabile ai più, istinto dalle radici millenarie, base solida per qualunque vetta di successiva pittura. Io, in seguito, ci ho aggiunto tutto il mio essere veneta sprofondando nell’amore più assoluto per il colore, ma se ci fermiamo alla generazione che mi precede leggiamo intere vite di matite nere e carboncino, o di sanguigna e grossa carta porosa: vediamo una bambina paffuta (proprio quella della foto di Ottobre, con gli occhi sgranati) in braccio ad una donna forte e volitiva, che diventa improvvisamente dolcissima quando traccia segni veloci con la mano, e da quei segni fa nascere infinite storie, di gatti, di fate, di alberi.
Questo è un disegno a mano libera fatto dalla mia mamma quando non aveva ancora sedici anni.




Soprattutto, a lei piaceva far rivivere nel grigio di mille sfumature di grafite famosi affreschi, quasi per riportarli ad un bianco/nero originario ed ancestrale, come questi particolari dall’Ultima Cena del Perugino e dal Trionfo della Gloria tra le Virtù del Tiepolo.




Ma non è questa la storia che voglio raccontare oggi.
La storia di oggi risale indietro di una generazione ancora, la generazione del mio nonno Gaetano detto Tano che vi ho presentato in “Gente di Palermo”, nato nel 1897, mente acutissima appassionata del vivere, innamorato della musica, dei violini (e anche dei gatti, come me), anche lui come sua figlia in grado di narrare cento fiabe solo con una mano ed una matita. Un uomo che, come molti della sua epoca, visse l’orrore di due guerre, combattute entrambe in prima persona, la prima ancora ragazzino ma già al comando di uomini fatti (e raccontava delle sue lacrime segrete, per dover impartire duri ordini ad occhi e mani semplici, dell’età del proprio padre), la seconda da adulto, con la maturità data dall’essere padre a sua volta.
Il 12 Settembre 1943 il mio nonno Tano cadde prigioniero delle truppe tedesche; ritornò a casa nel 1945, dopo aver vissuto sulla propria pelle l’esperienza di sette diversi campi di prigionia tra Croazia, Polonia e Germania, dei quali ho ascoltato negli anni i racconti. Storie di uomini spaventati ma non piegati, storie di fame e di atti di coraggio, racconti di fratellanza, racconti di viaggi eterni stipati in piedi nella promiscuità di un carro merci. E mai mi stancherei di ascoltarle anche ora, se ci fosse qualcuno a tramandare queste esperienze di vita, vita di appena un attimo fa ma che a molti sembra solo un vecchio film in bianco e nero. Mi arrabbio quando penso ai nuovi ragazzini, che non hanno un passato, che sono nati già con il cellulare in una mano ed internet nell’altra: che futuro vuoi costruirti se non conosci cos’è successo POCO PRIMA di te?
A parte questo (non voglio iniziare la mia polemica infinita sul valore della storia, dell’ascolto degli anziani eccetera eccetera, già lo faccio abbastanza fuori da Trecose), la cosa buffa e che pochi sanno è che i tedeschi consegnavano ad ogni prigioniero un grosso sacco di cartone telato, da conservare, che poi altro non era che il loro sudario, il sacco in cui sarebbero stati infilati una volta morti. Mio nonno evidentemente non era interessato tanto al futuro quanto al presente, preferì infischiarsene della sorte del proprio cadavere ed utilizzare il sacco, tagliato in tanti pezzi quadrati, per disegnare. Come ufficiale italiano aveva diritto a qualche piccolo privilegio tipo non vedersi requisire carta e penna, e ritornò in Italia portando con sé una sessantina di disegni, di schizzi, di abbozzi: vita di campi sorvegliati, baracche di legno, uomini sempre più magri, teste abbandonate allo sconforto ma con ancora addosso una divisa da rispettare. E orti. E pali. E terra.
E poi l’esterno, il mondo oltre la recinzione, così come lui vedeva da recluso la Polonia degli anni Quaranta: un cielo gonfio di nubi, alberi, vento, polvere e ciottoli. Sanguigna su cartone, matita su carta telata: due anni di vita da riportare alla moglie ed alle tre figlie - anche alla più piccola e più amata, che al ritorno nemmeno lo riconobbe - coinvolgendo per non sprofondare nell’abbrutimento i commilitoni più sensibili, raccogliendo anche delicate testimonianze ad acquerello.
Perché sto qui a dire queste cose: perché quando io e mio marito siamo andati a trovare Armodio a Piacenza (così chiudo il cerchio della gomma-pane), abbiamo approfittato per visitare una straordinaria esposizione di tavolette di Matteo Massagrande, pittore che adoro, anche lui senza dubbio alcuno tra quelli che fanno Pittura Vera, con i suoi interni decadenti falciati da livide albe.
Con l’assistente di Biffi Arte, parlando del più e del meno, è venuto fuori il discorso del nonno prigioniero, e questo signore, appassionato di quelle anonime storie di vita e grafite, mi ha chiesto di poter avere via mail un paio di disegni. Mentre scaricavo le immagini mi sono detta che non era giusto; se stavo condividendo una fetta del mio passato, del mio sangue, dell’intimità profonda del mio albero familiare con uno sconosciuto, volevo farlo anche con voi, che – mi pare il minimo – occupate nel mio cuore un posto ben più importante dell’assistente da Biffi. Attenzione, vi sto mettendo in mano un pezzetto di anima, ma non è solo la mia storia, la storia della mia famiglia, la tradizione che ha portato un’assicuratrice a sapere com’è fatta la gomma-pane: è la storia di un’Italia che è sopravvissuta, che grazie ai suoi valori si è rialzata, e che ancora vive nelle mani di chi sa ed ama disegnare.








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