Sabato scorso ho fatto un salto a Bologna, per Artefiera, in compagnia del mio inseparabile scudiero.
Siamo partiti guardinghi perché spulciando in giro qua e là on-line avevamo raccolto giudizi al limite del disastroso, ma poi fortunatamente abbiamo avuto conferma che il pessimismo e gli spari ad alzo zero sono solo l’ultimo grido in fatto di sport nazionali (forse anche comprensibili visto il periodo economico, ma mai – e sottolineo mai – giustificati, altrimenti è meglio che ci tagliamo le vene subito e la finiamo qui).
Che dire? A noi è piaciuta. Nella nostra ignoranza, ci è piaciuta. Nel nostro essere collezionisti piccoli, piccolissimi, direi quasi microscopici, ma ancora alla ricerca di un’emozione, ci è piaciuta. Per carità, devo aggiungere che per noi era la prima volta; da buoni provinciali, preferiamo per esempio l’ambiente più raccolto di Arte Padova, che resta la mia Fiera preferita per distacco. Per non parlare del ricordo della prima Artexpo di Arezzo due anni fa, che mi era sembrata un gioiellino fuori dal mondo. Ma quando ci si incammina per certi sentieri non ci si può voltare indietro, e vedere Bologna con i miei occhi diventava un obbligo (prima o poi arriveranno anche Torino e Milano, ma devo andare per gradi o mi spavento).
Per mia natura e anche un pochino per deformazione professionale, io cerco sempre di mettermi nei panni e nella testa di chi mi parla, per meglio comprendere i punti di vista altrui. In effetti, a giudicare dall’imponenza delle strutture, capisco i molti musi lunghi di chi dice di ricordarla immensa, fastosa, ricca (di proposte di ogni genere – nazionali e non - in primis, e di denaro anche, che non guasta mai), e ora la vede come una nobile matrona decaduta, alla quale noti solamente la ruga in più ogni anno che passa. Ma in fondo non è poi così male neanche adesso, la vecchietta: si sente che ha una storia dietro, l’organizzazione è ottima, e non si moriva neanche di freddo, aspetto non trascurabile.
Lo dico agli addetti ai lavori, lo dico ai galleristi, lo dico ai critici, lo dico alla stampa: a me piccolo collezionista innamorato del bello dell’arte sono piaciute molte cose. Guardate avanti, non indietro. Come me ce ne sono molti, e siamo ancora disposti a raschiare il fondo del barile per un’emozione in più. Non smontateci a prescindere, perché vi gira così, e non fate di ogni erba un fascio: non potete essere incazzati in ugual misura per la penuria di Gallerie presenti e perché i parcheggi costano. E’ vero, venti Euro a testa non sono proprio un nonnulla (trovare biglietti-invito per Bologna è impossibile per i comuni mortali, infatti il giro di Padova ci piace anche per questo…), più il parcheggio da oncia di platino, il pranzo, il gasolio e l’autostrada ti partono oltre cento Euro. Ma è una volta l’anno, e va bene così. Non rinuncio ai miei sogni per un pedaggio autostradale. E se c’è qualcuno che lo fa allora non potete di certo contare su di lui per rilanciare il settore, è evidente. Guardate agli altri. Guardate oltre!
Quali i sogni questa volta: un bel mix, ma davvero bello, tra le vecchie glorie ed il nuovo che avanza. Fotografia sì, ma non troppa, e tutta mediamente di ottima qualità e con intensa ricerca dietro (ho riscoperto Sandy Skoglund, ad esempio). Tanto pubblico (e non era ancora domenica!), dall’esperto con l’occhio lungo alla coppietta di ragazzini incantati con la macchinetta fotografica delle patatine, e questo fa stare bene per due motivi: promette bene per il futuro, perché l’interesse c’è e continua ad esserci, e soprattutto permette di godere della vista delle opere esposte in santa pace, perché quando sei l’unico essere umano presente in un raggio di venti metri i galleristi ti saltano addosso in cinque alla volta con la cartelletta dei prezzi in mano prima ancora che tu possa far finta di parlare solo l’olandese. Tra l’altro, pubblico in gamba, che non subisce per nulla la presenza del vip di turno (industriali famosi, politici ancor più noti): io odio quando la massa acefala si accalca attorno ad un essere vivente solo per via di un cognome, non ho mai patito la fama e detesto chi la patisce. Anche gli artisti presenti (e che artisti: il Maestro Licata, per esempio, o Tino Stefanoni, tanto per citarne due di quelli che conosco di persona, ed ai quali mi pregio di poter stringere la mano anno dopo anno), ben mescolati ad un’umanità viva, incuriosita ed attenta ma non uniformata a slogan di mercato.
Vedere finalmente, diamanti dal vivo, due opere di Julian Opie, e confermare a me stessa quanto è davvero interessante (del resto, se mi affascinano il tratto e la ricerca di Valerio Adami, Opie secondo me sta solo un pochino più in là da qualche parte nello stesso sentiero).
Ritrovarsi insieme con volti noti ed amici da Roma, tutti lì per lo stesso ideale; mi hanno anche presentato uno dei più attivi forumisti di Antonio Nunziante, e devo ancora capire se fa parte di quelli poco-fuori-di-testa o di quelli tanto-fuori-di-testa (ma visto che era interessato ad una bella carta di Paul Jenkins mi sa che sta tra i savi).
E ancora: lo stand di Mazzoleni di dimensione doppia rispetto al solito, così oltre ai suoi “classici da Fiera” (l’Afro sui toni di terra, Ettore e Andromaca di De Chirico, il Burri…) sono saltate fuori altre cose mai viste prima, tra le quali un Hartung spettacolare, da perderci veramente il fiato. Perché da Mazzoleni è così: non ci sono solo i nomi che contano, ma i pezzi davvero esplosivi dei nomi che contano, non le schifezzine che a volte ti vengono spacciate per il miracolo dell’anno solo perché hanno sopra una firma stanca, molto stanca. Io voglio emozioni, non firme.
Insomma, che Hartung. Da stare a bocca aperta per quindici minuti buoni. Io e un distinto signore (che ovviamente mi era sconosciuto e tale è rimasto) ci siamo avvicinati in silenzio e poi ci siamo scambiati uno sguardo d’intesa. Lui ha sospirato ed ha detto: “Adesso posso tornare a Genova contento”. Per me uguale, solo che vado a est. Ma questa è l’arte, questo è il miracolo del bello a prescindere: per un attimo, la condivisione di un qualcosa di superiore che ha unito me e un anonimo genovese. Questo non si compra, e questo è ancora ciò che tanti di noi cercano quando staccano il biglietto di una Fiera d’Arte. Poi, ovvio, io mi devo allontanare dall’Hartung museale per andare più prosaicamente a caccia di un affresco di Celiberti alla mia portata; e tutto sommato c’è chi comincia a capire che se l’economia riprenderà a girare non sarà per l’apporto del grosso fiume solitario, ma per quei tanti piccoli testardi rivoletti.
Lo spettacolo dell’Hartung è stato argomento di discussione a pranzo tra me e mio marito, che ha candidamente ammesso che non c’è più nulla al mondo che lo “riempia dentro” come un’opera d’arte; forse, ma proprio forse, qualche spettacolo naturale tra quelli più grandiosi (canyon o cascate). Io volo più basso, mi bastano anche le Tre Cime di Lavaredo contro il cielo più terso, oppure l’immensità del grigio orizzonte del mare a Capodanno, a sovrastare una spiaggia finalmente selvatica e muta.
Lui intende “arte” in ogni senso, dal quadro 20 x 20 alla cattedrale: il concetto è che le bavette che una volta perdeva davanti ad una bella donna adesso la perde davanti ad una tavoletta di Armodio, e indietro non si torna, mi sa. Più passa il tempo, più odia il genere femminile ed ama i pittori. Devo ancora capire se ho contribuito a creare un santo o un mostro.
Infine, lo stand dove ho trovato l’arretrato di Arte In che mi mancava (quello su Armodio, a me mancava proprio quello con Armodio in copertina!), e dove ho acquistato in anteprima il numero che in edicola non c’è ancora, con buona pace del mio fornitore ufficiale che si rifarà vendendo qualche giornalino di gossip in più (tanto con quelli ci guadagna tanto quanto l’intero PIL del Burkina Faso).
Su Arte In ho avuto due gradevoli sorprese: un omaggio al Maestro Possenti con Luciano Caprile che lo accomuna a Bosch, come avevo fatto io (senza aver mai letto o approfondito alcunchè su Possenti) nel mio post su Lisbona del Luglio 2012, scusandomi nel timore di attirarmi le ire dei critici di professione per l’accostamento troppo ardito. Evidentemente comincio ad affinarmi, allora, vorrà dire che se mi salta l’Agenzia ho speranze di riciclo. Come l'alluminio.
E poi, l’Editoriale della Santa Lorella che punzecchia la nuova Generazione di Fenomeni: i “curators”, ancora una volta da sottoscrivere parola per parola con il poco sangue che mi resta (visto che non riesco a mettermi un freno). Vi-prego-vi-prego-vi-prego: leggetelo! E’ un condensato di Via, Verità e Vita. Quanto adoro quella donna!
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