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venerdì 28 dicembre 2012

Duemilatredici

Mi viene naturale guardare il più delle volte il bicchiere mezzo pieno; forse quando ero piccola mi ci sforzavo anche, affinchè diventasse un modus vivendi. Ed in effetti col tempo ho capito che non c'era più bisogno che mi sforzassi: si vive molto meglio cercando di evidenziare la positività delle cose, a discapito dell'altra parte. Certo, questo non comporta che io non veda e non sappia analizzare i problemi e i crucci che inevitabilmente la vita mi presenta: semplicemente, provo un senso di fastidio quando tendono a farmeli vedere più grossi ed insormontabili di quanto siano realmente.
Appare chiaro che questa è una delle mie solite premesse per affrontare un discorso diverso, e il discorso nella fattispecie riguarda LA CRISI e ME. "La Crisi" c'è, ed è innegabile, ha ormai toccato tutti ad ogni livello sociale ed economico. Nel mio lavoro l'ho vista arrivare dapprima colpendo le aziende produttrici, con decrementi violenti di fatturato, quando non chiusure totali, e parliamo ormai di due-tre annetti fa. Poi, a catena, ha addentato e dilaniato la distribuzione, il commercio (ormai nella mia città ci sono intere strade di negozi tutti chiusi con il cartello "Cessata attività", nemmeno si prova più ad attaccare quello con "Cedesi").
Infine, come un castello di carte che cade in sequenza, è arrivata a mordere noi, che siamo la coda di tutto, gli uffici dei servizi (io lo ammetto, ho cominciato a soffrire da quest'anno, fino all'anno scorso si stava ancora bene, seppure con le dita incrociate, anche quelle dei piedi). In mezzo a tutto ciò, ad ogni passo, l'ho vista travolgere le famiglie, le persone che in queste realtà aziendali vivono, dai titolari ai dipendenti. Ma non è certo di questo aspetto della crisi che voglio parlare: parlo di quello che la crisi ha fatto a ME come persona, e ci vedo comunque un bicchiere mezzo pieno.
Molti conoscono il famoso discorsetto di Albert Einstein in proposito; per chi ancora non lo conosce, seppure inflazionatissimo, lo riporto:
"Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L' inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla."
Io per natura sono portata a programmare, ad organizzare, a pianificare. Del resto, ho già raccontato come sia cresciuta praticamente in una sorta di clima da caserma; non poteva essere altrimenti, con una adorabile mamma universalmente soprannominata "Il Colonnello". Valori familiari molto forti, un senso del dovere estremamente sviluppato, un rigore estremo in ogni approccio (studio, lavoro, vita). Tutte cose molto belle, che tra l'altro da grande ti renderanno una persona appetibilissima per qualunque azienda.
Ma che magari - da piccola - fanno sì che se non ti piacciono i cavoletti di Bruxelles (ma diciamoci la verità, c'è davvero qualcuno al mondo a cui piacciono?) e li rifiuti a cena, non solo non mangerai niente per cena, ma ti ritroverai quegli stessi cavoletti di Bruxelles (ormai freddi) per colazione il giorno dopo. Con o senza caffelatte, a tua scelta. E meglio farteli piacere, perchè va da sè che se rinunci alla colazione te li ritrovi per pranzo, e saranno anche duri come sassi, oltre che freddi.
Da adolescente, invece, fanno sì che tu debba rientrare a casa assolutamente prima delle otto di sera, perchè alle otto di sera si cena tutti assieme, che in sè è bello, vedere una famiglia riunita che parla in una sala senza la televisione, ma se diventa un obbligo e non puoi neanche salutare come si deve il fidanzatino sotto casa perchè sai che ci sono quattro persone che ti aspettano per cominciare a mangiare fa un po' l'ansia. E dovevano aspettare per forza! Tu salivi le scale sognante con il sapore dei primi baci sulle labbra, e ti trovavi la famiglia a tavola con le posate in mano ed il cibo lì nei piatti, a fissarti (sia famiglia che cibo fissavano, anche se in modi diversi). Quindi ti beccavi i rimproveri dalla mamma ("Sei in ritardo di sei minuti"), e gli insulti dei fratelli ("Per colpa tua mangiamo il purè freddo").
Mai stata in discoteca una volta in vita mia, anzi, una volta sola sì, perchè c'era la festa di compleanno di una mia compagna di classe del Liceo - la mitica Tatiana, e sarei stata l'unica a non andarci, ma tassativamente dovevo rientrare a mezzanotte: praticamente il papà mi aspettava con la macchina fuori mentre tutti gli altri entravano. Anche in piena estate, coprifuoco alle dieci. Libera uscita senza limiti solo due giorni l'anno: martedì grasso - ho pur sempre genitori veneziani - e Capodanno. Ma tanto, a qualunque ora si tornava a casa, estate o inverno, a sedici anni o a ventidue, la domenica mattina la mamma entrava ad aprirti luce e finestre alle otto in punto: "In questa casa alle otto ci si alza, se siete stanchi andate a dormire prima; le regole vostre ve le farete quando avrete una casa vostra". Heil!
Comunque io ci ho messo molto del mio, sopra: ambizione, applicazione, intuizione, acume, lealtà, coerenza, volontà ferrea e testardaggine all'ennesima potenza. E, negli anni, sono diventata quello che sono.
Ebbene, mi sono resa conto che questa crisi mi sta cambiando, dentro. E' evidente che non posso più programmare un tubo: dalle campagne di vendita agli investimenti aziendali (persone, strutture, attrezzature), dalle ferie estive al cambiare la Delta che ormai veleggia ben oltre i 100.000 Km nonostante abbia due anni di vita e la pelle dei sedili che sa ancora odore da nuovo. Oggi non sai più cosa farai domani; non sai  se quel grossissimo Cliente che, per anni, ti ha garantito quel tot di entrate domani sarà ancora in piedi o avrà chiuso. O magari avrà dovuto far entrare un socio con soldi freschi, che però oltre a quelli ha anche un amico assicuratore, nè più nè meno di come sei tu per il grossissimo Cliente momentaneamente in bolletta, e quindi detta legge lui. Non sai quanti Clienti perderai, tra tutti coloro che, a loro volta, hanno perso il lavoro. Non sai nemmeno se la Compagnia per cui lavori sarà ancora così, visto che sono arrivati i nuovi nomi, e a prima vista non sembrano molto ben disposti. Non sai se la Banca che ti presta i soldi continuerà a far finta di niente, o se improvvisamente ti chiederà di fare il punto della situazione. Non sai cosa si userà, domani. Non sai nemmeno di che colore sarà, il domani.
Questo è l'oggi, per tutti come per me. Ma io, in un "oggi" fatto così, mi sto sbucciando come un'arancia, perchè sotto sotto (chi mi vuole bene e sa vedere "oltre" lo sa) io sono una sognatrice. Ho fantasia, curiosità, inventiva, stelle negli occhi e vento forte nel cuore. E nuvole bianche e gonfie. So amare, tanto, e sorrido, spesso. Solo che per abitudine e per lavoro tendo a castrarmi, a soffocarmi giusto un po', perchè è necessario, è fondamentale per preparare il terreno solido su cui camminare domani (e un pelino anche fa scena, in un ambiente maschilista come il mio, che accetta una donna solo se è stronza).
Ma non più, ora. Mi sto gustando una sorta di volo libero, tanto qualunque cosa io programmi va sballata, non c'è più alcuna certezza. Cammino, non corro, e scopro un'infinità di cose nuove: è come fare a piedi o in bicicletta un tragitto che normalmente fai in treno. Scopri i sentieri alternativi, e le osterie dove trovare formaggio e crostini caldi, e vino buono. Non dico che non me ne freghi più niente, sarei una pazza incosciente, ho pur sempre un'attività che dà da mangiare a sei persone me compresa, e io certo non gioco con le vite altrui; tuttavia mi sento meno... "inquadrata". Più modellabile, meno spaventata se, per una volta, non rispetto i soliti schemi. Se per una volta non dico i miei ponderatissimi "ma" davanti ad ogni scelta, anzi: in molte mi tuffo di pancia senza soppesare più di tanto. Con le cose. Con le persone. Con la vita.
E, tutto sommato, mi sono scoperta un intuito incredibile, un istinto non da poco. Voli da brivido senza paracadute che si sono rivelati interi mondi di bellezza. Bicchiere mezzo pieno per il mio carattere, quindi, questa crisi, nonostante tutto. Infatti molti Colleghi e molti Clienti, incontrati negli ultimi “giri” natalizi, mi hanno chiesto cosa avrò mai da sorridere, visto come butta qui fuori (mica mi taglierò le vene per far piacere a voi!!). E quello che mi fa divertire da matti è che, se continua così ancora per un po', non sarà più un qualcosa di temporaneo, un adattamento momentaneo al periodo economico, un cambiar pelle per qualche minuto come fanno i camaleonti, solo finchè stanno fermi nello stesso posto: io cambierò davvero DENTRO. Diventerò entrambe le cose: saprò essere volo e treno, bicicletta e passeggiata insieme, perchè avrò sperimentato tutto ai massimi livelli. Avrò il rigore e la fermezza di una vita, ma mischiati ai miei sogni, ed alla consapevolezza che le incognite non sono da temersi. Voglio proprio vedere chi mi ferma, poi.





P.S. Un brano che non c'entra niente con i bicchieri pieni, le passeggiate e le arance che si sbucciano. Però mi piace, ogni volta che lo sento, delicato come un bacio ben dato (io finisco sempre per innamorarmi di quelli che bacio, oppure per baciare quelli di cui mi innamoro...).
Così lascio che mi giri attorno mentre ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato fin qui. Anonimi e non anonimi, juventini ed interisti, messaggi amichevoli, commenti brevi e commenti lunghissimi, critiche costruttive (che aiutano a crescere) e distruttive (che aiutano la consapevolezza di essere dalla parte giusta, e magari anche un pelo meno scemi e scontati di altri). Non so ancora se per il 2013 arriveranno nuovi post, o se lascerò Trecose fermo com'è oggi, giusto per ricordarmi la strada che ho fatto per arrivare fino a qui.
Mi piacerebbe scrivere meno e meglio, come fa l'amico Tra Cenere e Terra, che stimola una riflessione con una frase di quattro parole; mi piacerebbe, in sostanza, imparare a scrivere poesie oltre che a viverle, ma mi sa tanto che poeti non si può diventare, bisogna nascerci.
Per imparare a parlare meno è fondamantale imparare a tacere. Il silenzio è un grande dono, apprenderlo, e soprattutto desiderarlo ed amarlo, non è da tutti. Oggi stringo in un abbraccio silenzioso, forte e profumato come pane, avvolgente come una coperta di cielo, chiunque capisca cosa voglio dire. Sempre.

domenica 23 dicembre 2012

Evoluzione/involuzione

Il 18 Gennaio scorso, cioè praticamente nella mia vita precedente, avevo postato una riflessione riguardo a Facebook. Vorrei davvero che, prima di continuare la lettura di questo post, venisse riletto quello; è stringato e forse meno gradevole degli ultimi, ma del resto in quel periodo stavo ancora risalendo la china della mia Quaresima (un post al giorno per quaranta giorni...) e buttavo giù le idee man mano che mi venivano, senza tanta attenzione alla forma. E poi all'epoca non mi filava ancora nessuno (il primo lettore fisso è arrivato in Maggio, a resurrezione avvenuta), potevo anche permettermi di non fare la splendida e di chiacchierare solo con e per me stessa. Il fatto è che dopo quasi un anno di scrittura on-line, di contatti con gente più abituata di me a "vivere" on-line, di confronti con il mondo di Internet (che per me è un mistero, e tale resterà), ho capito una cosa fondamentale ed ho cambiato totalmente idea sull'argomento.
Attenzione: non ho cambiato idea su Facebook, continuo a detestarlo, lui e l'uso che se ne fa. Continuo a non volermici iscrivere, non mi interessa e non lo farò. Non mi piace apparire, non mi fa impazzire l'idea di essere cercata e trovata da chiunque, non amo le ammucchiate di amici, preferisco sempre e comunque il basso profilo; non potendo evitare che sia pubblico l'indirizzo del mio ufficio, che ha funzione pubblica ed è in qualunque registro, quanto meno mantengo dove abito un luogo misterioso e sconosciuto (e mi pare di non aver mai chiamato per nome la mia dolce metà interista e sfigata).
Però mi sono accorta di aver commesso un errore madornale di interpretazione.
Io criticavo chi fa un uso smodato e un po' sciocchino (mi si passi l'eufemismo) dei social networks, soprattutto se trattasi di persone di età superiore ad anni quindici, perchè il Grande Web ha una memoria infinita: lodavo la grande ruota del tempo, rimpiangevo il diritto all'oblio. Trovavo assurdo il voler comunicare a tutti i costi, da parte della gente "normale" (quindi escludendo chi fa vita pubblica e usa questi strumenti per raggiungere, appunto, il suo pubblico), pensieri e momenti assolutamente privi di qualunque giovamento, solo perchè ora è facile ed immediato farlo. Mi spaventava l'idea di rendere eterni attimi di inutilità senza valore: "sto stirando e mi annoio", "mi piacciono i cani beige", "beviamoci una birra insieme a tutti i nati nel 1965 con il nome che comincia per S".
E invece non è così... oserei dire che è esattamente l'opposto! Un opposto subdolo, malefico, e che mi spaventa ancora di più della semplice superficialità umana di coloro che, a quaranta, cinquant'anni fatti (o giù di lì), si divertono a contare chi ha più amici virtuali.
Dopo quasi un anno di esperienza di blog ho realizzato che la gente, probabilmente, DIMENTICA IN FRETTA. Forse lo vuole. Siamo arrivati al punto che si legge e si passa via. Ci si infervora follemente (anche troppo, a volte) su una cosa, e poi la si azzera, come se non fosse mai stata. Oggi non vediamo più "ieri" come un passato prossimo, o "l'altro ieri" come un passato remoto (ma comunque un passato che è esistito, che ha contribuito a crearlo, quell'"oggi", perchè non ci può essere un oggi senza un ieri). "Ieri" non esiste più, esiste solo e sempre un eterno "oggi". Si vive solo nel momento presente, si fa tutto in modo iperefficiente ed iperattivo, ma poi durante la notte - evidentemente - si cancella tutto e si ricomincia, negando qualunque esperienza. A dire il vero dovevo arrivarci prima, per esempio quando parlavo della differenza tra i Surfisti e i Palombari (nel post del 6 Aprile "Generazione di fenomeni"). L'ho anche letto di recente in un interessante articolo su come le nuove tecnologie stanno cambiando il cervello della specie umana: tra i vari aspetti toccati - devo dire in modo assolutamente imparziale, con pregi e difetti - sottolineava come i bambini che imparano a leggere utilizzando strumenti come Internet imparino molto più in fretta rispetto agli altri bambini. Ma occhio: imparano a LEGGERE velocemente, in realtà sono molto più lenti e disabituati alla COMPRENSIONE del testo. Scivolano veloci, ma non sono capaci di scavare in profondità. E se continuano così, Dio solo sa quanta bellezza e quanta poesia si perderanno nella vita. Sono certa che sapranno fare una valanga di cose meglio di me, ma se un giorno prenderò uno di loro, lo farò sedere con in mano un libro (un libro di CARTA, di carta che profumi di carta, di carta che sotto le dita sappia da carta!!) e lo costringerò a leggere, per esempio, questo:

Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle

Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore del cielo

Mi riconosco
immagine
passeggera

Presa in un giro
Immortale

(che è Ungaretti, per chi non l'avesse riconosciuto), lo leggerà in un nanosecondo e la cosa finirà lì! Magari se gli chiederò cosa vuol dire davvero, se gli domanderò di andare "oltre", sarà costretto a correre su Internet, e digitare su Yahoo Answer "Chi-mi-spiega-Sereno-di-Ungaretti-dieci-punti-al-più-veloce"; perchè questi bambini cresceranno multimediali, saranno come schegge nel web-surfing, ma non proveranno mai cosa significa sentirsi "immagini passeggere". Per non parlare di fermarsi un attimo per respirare "il colore del cielo". E mi sa che è già tardi anche per tanti adulti (ma non per me, io so bene come respirare il colore del cielo, io alcuni giorni SONO cielo, ne porto dentro l'immenso, mi sento totalmente cielo, e stelle insieme, e sole, e luna!).
Altro che la Grande Memoria del Web! Il web sta appiattendo tutto, sta azzerando tutto. E' come con i blog (e mica solo il mio): la gente guarda sempre e solo l'ultimo post utile, il resto è incenerito per sempre, come mai esistito. Beh, mi spiace, io non sono così! Io vivo la storia, io SONO una storia, c'è un filo conduttore che è partito da un punto ics e non so ancora bene dove sta andando, ma c'è, ed è fatto di tanti tasselli. Tasselli di ricordi, di emozioni, gradini di una scala di eventi. E tutti questi gradini fanno "me" come sono, non solo un post o due. Ho un passato remoto e un passato prossimo, fatto di visi e occhi, di abbracci e di parole, di persone che ci sono ancora e di persone che non ci sono più (perchè hanno lasciato questo mondo, o perchè hanno lasciato questa "me", volontariamente, in modo improvviso e doloroso, o perchè la vita ha voluto così, in modo lento e graduale), e io CI PENSO. Io NON DIMENTICO.
E' ovvio che la ruota gira, e quindi sta bene che il passato resti passato (come appunto sottolineavo nel famoso commento troppo acerbo sull'argomento "Facebook"), ma senza cancellare la nostra memoria storica, senza bruciarne le radici.
Allora - mi interrogo - forse la mania per Facebook nasce da qui. Persone che si sentono svuotate, che non avvertono la solidità del proprio passato, che non hanno ricordi perchè non hanno capito l'importanza di custodirli, e che quindi ricorrono a questo strumento per lasciare una qualche traccia di se stessi, visto che il Web la conserva. Magari per sentirsi più utili al loro presente (senza riflettere sul fatto che in questo modo non è una scia luminosa, è più una bava di lumaca). Confermerebbe anche perchè tanti, troppi adulti ne hanno una vera e propria ossessione, rispetto ai giovanissimi, che lo usano ma poi si stufano presto (anche di questo!). E mi chiedo: perchè lui? Ci sono i libri, quelli veri, non solo con le facce. Ci sono le fotografie dei nostri nonni. Ci sono gli anziani da ascoltare. Ci sono i musei. C'è la letteratura, c'è l'arte. Le voci. Gli abbracci. Le risate a cena. Le esperienze da raccontare e da scambiare. Perchè lui?

P.S. In questi giorni raggiungo i miei picchi massimi annuali di stress e negatività. Chiedo venia. A breve, brevissimo, la positività tornerà a rompere gli argini, come solo lei sa fare. Nel frattempo, mi sa che è meglio se metto su "The one" a manetta. 

giovedì 20 dicembre 2012

I love Mankind, it's People I can't stand

Vale a dire "Amo l'umanità, è la gente che non sopporto". Correva l'anno 1985, e con enormi sforzi (complice qualche nonno morto) i miei genitori erano riusciti a mettere da parte una cifra ics con cui mandare me e mia sorella in vacanza-studio in Inghilterra, per quattro settimane. Quattro settimane incredibili, una vera full-immersion, anche perchè non si trattava solo delle ore di scuola alla mattina, delle gite, delle escursioni, di Londra (ancora senza Ruota e senza Pigna, o Cetriolo che sia, ma sempre incomparabilmente lei), ma anche e soprattutto della famiglia che ci ospitava, ed in questo eravamo state fortunate rispetto ad altri del gruppo: alloggiavamo da due Autentici Anziani Inglesi (capelli bianchi bianchi, pelle rosa rosa, occhi azzurri azzurri), di quelli che quando scendi le scale cascasse il mondo invece di darti il buongiorno ti dicono "Good weather today" o "Bad weather today", a seconda, e potevamo fare conversazione come si deve. Dotati di grosso-nero-cane, Bertie, che rispondeva a comandi tipo "Out" e "Down", ma solo se pronunciati con la giusta intonazione. Amanti delle vere tradizioni inglesi, come mangiare spaghetti collosi al posto del contorno a pranzo, da una ciotola piena di salsa dal colore indefinito. Oppure fare una pre-cena con stuzzichini vari verso le cinque del pomeriggio, e poi cenare di nuovo ed abbondantemente prima di andare a letto (la variante serale all'apprezzamento sul tempo, invece della buonanotte, era sempre "Would you like anything to eat or drink?", sembrava un disco registrato ma simpaticissimo. Yessssplease, Noooothankyou). Oppure avere la moquette anche in bagno, e la vasca senza soffione (così te lo sogni, di risciacquarti, ed esci ricoperto da una strana mucillagine). O tenere chiusa a chiave una stanza dove non ci era permesso entrare, che ovviamente è stata la prima cosa che abbiamo violato il giorno in cui siamo rimaste a casa da sole, scoprendo un vero e proprio santuario dedicato alla Principessa Diana, all'epoca ancora viva e vegeta, ma che probabilmente già toccava ferro perchè era roba da C.S.I., da serial killer, da pazzi psicopatici: tende, tazzine, piatti, cuscini, libri, bicchieri, penne, specchi, asciugamani, statuette... tutto con lei stampata sopra, ammassato in un'unica stanza. Ho dormito con un occhio mezzo aperto e guardingo come i gatti per il resto della vacanza. Povera Diana, tutto sommato ancora qualche anno e poteva fare una fine peggiore.
Eppure la cosa che mi è rimasta più impressa di quelle quattro settimane (che già sapevo sarebbero rimaste uniche nel loro genere, e non solo per una questione economica - per i miei si trattava di uno sforzo non ripetibile, ed anche per il nonno, evidentemente - quanto perchè come vivi certe emozioni alla soglia dei diciotto anni è impensabile a qualunque altra età) era stata quella scritta, su una maglietta con stampato sopra Snoopy. E l'avrei capito col tempo, quanto vera e profonda fosse, mentre all'epoca mi sembrava solo una frase buffa su una tipica t-shirt inglese, di quelle che qui ancora non si usavano, perchè noi d'estate andavamo tutti in giro in tinta unita o al massimo a fiorellini o righette.
Qualche anno dopo, finita anche l'Università, alla ricerca di lavoro, avevo ben chiara solo una cosa: che volevo lavorare a contatto con le persone, che non volevo chiudermi in una celletta dove avrei avuto come unico compagno una sorta di grosso televisore grigio e cubico con tanti cavi (così erano i computer nel '90). O libri. O entrambe le cose. Avrei voluto insegnare, ma mi sono laureata esattamente tre mesi dopo il concorso, ed il concorso successivo arrivò dopo una decina d'anni. Per non infilarmi nel buco infinito delle supplenze, qualunque cosa andava bene, purchè a contatto con "la gente". Ricordo bene che pensavo con terrore all'idea di professioni che non mi permettessero di relazionarmi con gli altri, di dialogare, di scambiare opinioni. Santa ingenuità! Come si cambia, in poco più di vent'anni...
Solo la filosofia di Snoopy è sempre uguale, lei con la sua maglietta così profondamente acuta. Nessuno odia l'umanità, come potremmo? L'umanità siamo noi, "umanità" è una parola generica che sa di buono, ci fa sentire migliori, tutti fratelli. Protesi verso il domani, un domani migliore, ci mancherebbe. Col cavolo! C'è anche la GENTE, ed attenzione che "gente" non è per niente parola generica: gente è quella che ti abita in condominio e sporca le scale, gente è quella che ti dà appuntamento e poi non si presenta, gente è quella falsa, gente è quella ipocrita o vanesia, gente è quella che si vanta di meriti non suoi, gente è quella che ti chiede favori assurdi, gente è quella che si lamenta a prescindere, gente è quella che alla fine è sempre metà di quanto avevamo pattuito, gente è quella dalle facili promesse sempre disattese, gente è quella che ti adula e non le riesce neanche tanto bene, gente è quella che ti cerca per quello che rappresenti, ma mai per quello che sei (anche perché non lo sa, come sei, sempre che le importi davvero), gente è quella che sa sempre tutto mentre tu non sai niente.
Gente sono le persone che mi ripetono riempiendosi la bocca “io sono un ottimo Cliente perché ho un sacco di Polizze con te”; ma se tu quelle Polizze non me le paghi, caro il mio “ottimo Cliente”, non sei proprio nessuno. Preferisco mille volte il pensionato con la RCA nuda e cruda, che mi viene con il sacchettino pieno di Euro di moneta, perché se li mette via come elemosine, ma arriva puntuale e fiero di aver pagato le sue pendenze senza un giorno di mora. Lui sì, lui con la sua mitezza, la sua storia sulle spalle curve e le sue tristezze quotidiane, ha tutta la mia ammirazione. Non tu. E non mi venire a dire che hai problemi (soprattutto se i tuoi problemi sono che quest’anno ti salta la settimana bianca a Cortina), perché io i miei non te li racconto, ma non vuol dire che non ne abbia. Il buon Cliente, di questi tempi, è uno solo: quello che paga.  
It's People I can't stand. ANYMORE, aggiungerei. Potessi scegliere adesso (ed è evidente che non posso), prenderei un'altra strada. Mio marito è tenero, lui, e ride ogni volta che mi sente brontolare "Non voglio più fare questo lavoro" (cioè la mia abituale Litania di fine Dicembre, quando la anche la Stanchezza pretende la maiuscola), perchè lo sa che poi mi passa, infatti non è il lavoro, è la gente. Datemi una celletta monacale, vi prego, voglio passare due anni ad inserire dati in un computer; voglio chiudermi in una biblioteca a microfilmare testi antichi; voglio dialogare con poeti morti! Fatemi solo studiare, che era cosa che mi veniva così bene e non mi costava mai fatica, mai: era bellissimo, come volare. Io scuotevo la testa quando, ai tempi che furono, sentivo le lamentele dei compagni che non amavano i libri; e pensavo “Come siamo fortunati, noi che possiamo, e mi sa che lo capiremo molto presto”. Che bello sarebbe, a parte gli scherzi e le utopie, essere pagati solo per studiare: arricchirsi lo spirito con nuova cultura e nuova conoscenza, e prenderci pure uno stipendio! Non voglio vedere nessuno, non voglio ascoltare gli stessi discorsi, basta facce, basta frasi, basta sorrisi finti. Basta gente, al limite solo umanità.

lunedì 17 dicembre 2012

Avrei voluto scriverla io

(…e invece l’ha scritta Paulo Coelho, questa singolare lista di aforismi che vuole essere poesia. Anzi, si dice che non tutti siano suoi, che alcuni siano antichi proverbi indiani, ma è un dato di fatto che sia stato lui a radunarli insieme ed a metterli in rete, affinchè si diffondessero a macchia d’olio – tradotti solo dalla buona volontà, ogni volta che oltrepassavano un confine non scritto - senza essere in realtà mai stati riportati in alcun libro.
Ma non importa, la sento mia questa lista, integralmente, fino alla fine dell’anima. Anni fa, quando una persona che non c’è più me l’ha fatta conoscere, ho cominciato a dire “Anche per me è così” su alcune di queste affermazioni, ma non su tutte. Poi gli eventi si succedevano l'uno all'altro, e la lista degli “Anche io” si allungava. Conoscevo persone, vivevo momenti, chiudevo nuovi cassetti della memoria, e aggiungevo un “anche”. Sono cresciuta sul serio, evidentemente, ora. E la divido con chi, ancora, non la conosce, e può cominciare da qui e da oggi a segnare i suoi “anche”).

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:
Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. E, per questo, bisognerà che tu la perdoni.
Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
Che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
Che o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
Che la pazienza richiede molta pratica.
Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.
Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma aspettando che tu lo ripari.
Forse Dio vuole che incontriamo un po' di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così, quando finalmente la incontriamo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
La miglior specie d'amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico o camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se sia stata la miglior conversazione mai avuta.
È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un'ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
Non cercare le apparenze, possono ingannare.
Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante una giornataccia.
Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.
Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
La felicità è ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l'importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.
L'amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un the.
Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e tuoi dolori.
Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride e ognuno intorno a te pianga.

giovedì 13 dicembre 2012

Critici e critiche

Questa settimana è successa una cosa diversa dal solito: ho ricevuto nel blog dei commenti (nella fattispecie, due) astiosi ed al limite dell’insulto. La cosa mi ha incuriosito perché ritengo possa rappresentare un punto di svolta: a quanto pare Trecose non è più solo la mia personale ora d’aria, in cui metto per iscritto (perché è quello che mi piace fare) i pensieri che mi passano per la testa. E non è più solo un piccolo, semisconosciuto blog di frontiera in cui qualcuno passa per caso cercando il filone delle pepite d’oro e, forse, lascia la mancia se gli faccio tenerezza. Qui siamo di fronte a gente che fa riferimento a persone e fatti specifici, e quindi mi considera – in un certo qual modo – una voce con un “peso”. Minimo minimo, magari, ma abbastanza per farmi riflettere, perché io non voglio assolutamente risultare quella che non sono: non sono un’opinionista d’arte, sia chiaro oggi e per sempre. Ma qui siamo a casa mia, e vorrà pur dire qualcosa.
Il primo serpentello non l’avevo né badato né pubblicato, perché era anonimo, e io non prendo in considerazione MAI, neanche nella vita, l’insulto anonimo (troppo comodo). Ho pubblicato più volte commenti anonimi ai miei post, ma erano più che altro frasi di circostanza, oppure commenti belli, in cui il mittente aveva aperto una parte della sua anima, e il rispetto dell’anonimato in questi casi è doveroso. Tuttavia, se ci devi andare giù pesante, non pretendo che tu mi dica dove abiti, ma uno straccio di nome di battesimo sì (al limite inventato, ma fai più bella figura). Quando poi è arrivato il secondo, che magari era dello stesso utente, ma questo io non posso saperlo (e comunque era un commento ad un post diverso dal primo), mi sono fatta venire un dubbio: qui si punzecchia troppo. Perché lo sanno tutti che io ho il cuore tenero verso gli Orler in generale e Giovanni Faccenda in particolare, e venirmi a dire che si può perdere la faccia o rovinarsi la carriera – quando non peggio - solo per una trasmissione televisiva andata a vuoto significa una cosa sola: questo qui vuole la guerra. E guerra sia, non solo una rapida e stringata risposta ad un commento, caro Anonimo: ti ci faccio sopra un post intero. Ma ti avverto: io perdo raramente le guerre (soprattutto se ci vai giù pesante con persone a cui tengo, molto).
Erano palesi i riferimenti alla trasmissione che si è tenuta domenica scorsa dagli Orler, che presentavano uno Speciale su Pierluigi de Lutti, e che non è andata esattamente bene. Anzi, è andata veramente da schifo, non è stato venduto praticamente (quasi) niente. A qualcuno non è andata giù - ma perché poi - che Giovanni Faccenda fosse lì, ed ha quindi goduto dell’insuccesso. Oppure, come spesso succede alle brave persone molto amate, l’invidia che ti misura i passi è sempre in agguato.
Visto che il blog è mio, vorrei esaminare le cose dal mio punto di vista, che è al di fuori delle logiche di mercato. Ragiono da fruitore e da collezionista, e cerco innanzitutto di darmi una spiegazione al fatto che questi quadri di de Lutti non vanno. E’ il nuovo ciclo (“Doppie Ferite” a parte, quello è stato un cerchio chiuso e fine a se stesso), un ciclo in cui de Lutti chiude con i gesti forti e materici “ispirati a”, e realizza qualcosa di diverso, che nasce dalla sua permanenza nel continente americano, sotto al Grande Nord: natura mescolata alla sua passata astrazione, orsi, laghi e fiumi stemperati in materia e colore. Su qualche tela, anche una storia diversa nel supporto (tele ricavate dalle tende dei terremotati, non dimentichiamo che de Lutti è friulano, e il 6 Maggio 1976 è una data che nessuno può dimenticare).
A mio parere, assolutamente personale, sono… carini. Ma dire “carini” è come quando a sedici anni mandi la tua migliore amica dal ragazzino per cui sbavi a chiedere se ti trova bella, se gli piaci, e lui risponde che sei tanto simpatica. Ti taglieresti le vene, se hai un carattere debole. Io ero la simpatica per eccellenza, al Liceo, ma credo dipendesse anche dal fatto che riuscivo, nelle tre normali ore destinate al compito di italiano in classe, a scriverne tre interi anziché uno solo (il mio, più quello di altri due “simpatizzanti” a turno, tanto per restare in tema). Avendo un carattere diciamo non debole, io più che tagliarmi le vene tendevo a monetizzare le mie capacità.
C’era già stata una presentazione di questi nuovi lavori deluttiani, da Orler, l’anno scorso, e non ho ricordi particolari di bottiglie stappate neanche in quel caso. Io apprezzo Pierluigi de Lutti come persona, è un uomo gentile e serio (come donna potrei anche aggiungere qualche altra particolare lode, ma non è il caso, anche se il brizzolato colpisce sempre). Io e mio marito avevamo parlato con lui in occasione della collettiva “Il tempo dell’attesa”, e si diceva un po’ triste perché aveva faticato a trovare questa nuova strada dopo un periodo in cui la voglia di rinnovamento era stata forte, ma sentiva di non essere “compreso”. Ricordo che avevo provato una sorta di stretta al cuore, perché non doveva essere facile per lui accettare questo, come artista e come uomo. Mi chiedevo come mai anche a me, in effetti, queste nature fredde ed oniriche non facessero impazzire: magari è il soggetto, che non è propriamente tipico della nostra tradizione, oppure la dimensione molto “americana”, o ancora uno stacco troppo netto rispetto al precedente de Lutti. Capivo che per lui era fondamentale una “rinascita”, ma a me tutto sommato il de Lutti di prima non dispiaceva! Più degli orsacchiotti, purtroppo.
E poi il punto è che, sia che tu sia un artista o chi ti vende, è importante saper identificare il target del tuo papabile compratore. E’ evidente che i grossi collezionisti, quelli che ti spendono centinaia di migliaia di Euro d’un botto per un’opera, non comprano Pierluigi de Lutti. Lui tocca di più la fascia del collezionista medio o medio-piccolo (tipo me!), quello che ogni anno si compra quel quadro o quel paio di quadri (diciamo tre, cinque, settemila Euro proprio al massimo?), con solo un quarto di occhio alla possibile rivalutazione, e tre quarti al fatto che gli piacciono e basta. Ed in primis questi qui, ora come ora, non hanno più tanti soldi da spendere (abbiamo fatto da poco il Funerale del Ceto Medio). In secondo luogo, qualora li avessero, rimane il problema che de Lutti tende a fare, appunto, opere GRANDI (questo intendevo prima con formato “americano”, lì è tutto immenso: le strade, gli appartamenti, le automobili, i tramonti, il cielo, le idee, gli spazi aperti), e quindi la media dei suoi lavori COSTA. Prima di spendere sei-settemila Euro per un quadro carino, ben fatto, evocativo finchè vuoi, io ci penso su, e controllo cosa altro, all’occorrenza, mi viene (sono soldi veri, non so se ci rendiamo conto, non sono i trecento Euro del quadretto di Tonino Caputo comprato su Ebay che tutto sommato non mi costa tanta fatica tirare fuori).
Infine, nota stupida ma non trascurabile, il collezionista medio o medio-piccolo tende ad avere la casa parametrata a lui, e vedo difficile piazzare un quadro di tre metri per due in un appartamento di quattro vani! Anche mio marito, infatti, che pure ammira molto tra gli ultimi soggetti i suoi treni (per lui, reminiscenze scuffiane?), presenze reali ma indefinite che attraversano uno spazio fatto di neve astratta, di buio d’anima, di solitudine interiore che all’esterno diventa ghiaccio, questa volta non ci ha neanche provato, a farmi gli occhi dolci. 
Comunque, queste sono – ribadisco – considerazioni personali.
Torniamo al nocciolo della questione, che è: uh, guarda, Faccenda è andato a parlare di de Lutti (a), e (b) non hanno venduto niente lo stesso. Brucerete all’inferno solo per averlo pensato, e ve lo dice una che ha un Angelo Custode col turbo (ve lo mando a tagliarvi le gomme della macchina, Lui sì che sa dove abitate). Prima di arrivare a denigrare Faccenda su Trecose dovrete passare sul mio cadavere, o quanto meno essere certi di avere un Angelo più cazzuto del mio.
Io non parlo per sentito dire: ERO LA’ (mi sono pure beccata della zanzara da Giuseppe De Luca), e per giunta avevo programmato la registrazione su Sky per cui me la sono riguardata un paio di volte (una per ogni commento anonimo). Giovanni Faccenda non ha MAI detto che de Lutti è il pittore vivente più grande al mondo (questo lo dice di Armodio, se qualcuno se lo fosse dimenticato, e non è solo Vangelo secondo Giovanni, è l’intera Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse). Non ha nemmeno detto che varrà un patrimonio, perché questo non lo dice mai, né lui né gli altri venditori Orler, che sono persone serie. Non ha mai usato la parola “capolavoro” né altri suoi sinonimi. Ha solo sottolineato tre concetti fondamentali (che io, a scanso di equivoci, parafraso con parole mie):
1)      Spesso ci dimentichiamo che la spinta principale nell’acquistare un’opera d’arte dovrebbe essere l’emozione che ci dà. Il fatto che, per noi, sia bella. Poi se non ti piacciono gli orsetti e le aurore boreali non comprerai de Lutti, magari compri Scuffi e il suo mare d’inverno, ma il concetto è sempre quello. Pensare con il cuore e non con il conto corrente bancario.
2)      Visto che di de Lutti si parlava, non nascondiamoci dietro a un dito ed affrontiamo subito il problema legato agli errori del passato (il famoso “ispirato a”). Errori di de Lutti, che li ha pagati tutti quanti, ed errori di molta famosa critica, che su certi paragoni ci marciava con intere cartelle, obbligandoci quasi a continui (cito testualmente) “accostamenti soverchianti” senza possibilità di guardare oltre. Ma se torniamo al punto 1) ed ascoltiamo cosa l’opera ci suscita, non dovrebbe fregarcene più di tanto della sua effettiva originalità. Altrimenti, perché non mettiamo al muro tutti i cantanti di cover invece di osannarli?
3)      Una persona che ha il coraggio di mettersi a nudo e voltare pagina ha il sacrosanto diritto di avere una seconda opportunità, di potersela giocare. Parere mio: non si mette al muro il coniuge traditore e fedifrago quando torna pentito e volonteroso (e, aggiungerei, con in mano un bel paio di orecchini di diamanti River da un carato). Per lo meno, mai la prima volta. Poi, si sa, perseverare è diabolico.
Cosa c’è di tanto spaventoso in questi tre assunti? Giovanni Faccenda ne ha parlato con la sua usuale schiettezza, dicendo pane al pane e vino al vino, senza agitarsi. E, più o meno in questi termini, ne ha scritto nel saggio che corredava il Catalogo (mi sono letta pure quello, visto che detesto parlare senza cognizione di causa, io): un saggio asciutto, pulito, garbato ed onesto, come era giusto fosse e come Giovanni sa fare, perché è uno che difficilmente sbrodola. A uno che sbrodola sempre a prescindere, prima o poi finisci per non credere più.
Il mio giudizio – ancora personalissimo, e quindi spudoratamente di parte – sulla trasmissione di domenica è che ha rappresentato, pur nell’indiscutibile flop di vendita, un gesto forte di correttezza ed onestà da parte di de Lutti, degli Orler e di Giovanni Faccenda.
Per quanto riguarda de Lutti, che ci ha provato a testa alta e già questo gli fa onore, vorrà dire che venderà i quadri in Canada, in Olanda o chissà dove, perché li venderà di sicuro, prima o poi, in luoghi imbevuti di cultura che non sia la nostra, e dove magari vive gente meno rancorosa. O gli basterà attendere l’anno prossimo, nella cui primavera – pare – esporrà al Chiostro del Bramante a Roma, e solo per questo a molti occhi risulterà improvvisamente interessante. Ha dimostrato coraggio (perché è troppo facile campare sessant’anni facendo sempre la stessa roba!), e questo alla lunga paga.
Per quanto riguarda Giuseppe Orler, per me resta il Numero Uno tra i mercanti, perché ha la lealtà nel sangue: è un grande imprenditore, ma prima di questo è un grandissimo uomo, e sa che tre ore di diretta non sono niente, se paragonate ad una vita (e con la vita non si gioca). E poi è un signore davvero, perché nonostante ci fosse poco da festeggiare ci ha portato comunque a far festa, perché i Clienti degli Orler sono sempre di famiglia, nella buona e nella cattiva sorte.
Per quanto riguarda Giovanni Faccenda, non serve che dica niente, mi pare, ancora un po’ e mi arriva la fattura del marmo del monumento. I critici che parlano, solo ed esclusivamente, degli artisti super-mega-vincenti, e non degnano mai di uno sguardo, con umiltà ma senza per questo sentirsi sminuiti, tutta la marea degli “altri”, per me non sono critici. Sono, solo ed esclusivamente, dei LECCHINI. Faccenda è uno vero, e i lecchini li guarda dall’azzurro infinito dalla stratosfera.

lunedì 10 dicembre 2012

Semaforo verde

Ho fatto il Redditest, il primo giorno che è uscito on-line sul sito dell’Agenzia delle Entrate (ero curiosa da morire dopo tutto il gran parlare che c’era stato). Mi ha sparato fuori subito una luce verde da paura, del resto il mio Modello Unico suscita spesso notevole simpatia, anche quando lo porto in Banca per rinnovare i fidi.
Poi come sempre ci ho pensato su, e mi sono venute in mente alcune cosette.
Sono d’accordo sul fatto che l’evasione fiscale in Italia sia una piaga devastante, che vada combattuta e sradicata, anche perché le tasse che non pagano gli evasori le paghiamo tutti noi altri fessi, cornuti e mazziati. Ma ho dubbi sullo strumento, dipinto come un innovativo modo per stanare i furbi, ma che tutto sommato non mi convince.
E’ evidente che se c’è gente che dichiara cinquemila Euro l’anno di reddito, e poi si intesta tre Porsche, due barche, o cinque case, va controllata, verificata e, se del caso, punita. Ma a mio modesto parere – l’ho già detto in altri post – non solo perché sono evasori: perché sono evasori IDIOTI. E se c’è una cosa che io, con il passar degli anni, sopporto sempre meno, è la stupidità umana. Quel credersi sempre più furbetti di tutti, quel pensare di poterla fare sempre franca, o anche più semplicemente la stupidità terra-terra di non considerare che viviamo in una società fatta di regole che vanno rispettate altrimenti salta il palco: tutte cose che mi fanno travasare bile, e desiderare di chiudermi in un eremo per il resto dei miei giorni.
In generale potrei anche, al limite, tollerare sarcasticamente i maghi della frode, quelli che davvero sanno pensarle e costruirle in modo da non essere mai beccati: mi danno fastidio anche loro, perché creano un danno che ricade sulla collettività, ma almeno ne ammiri l’inventiva o la sagacia. Ma gli idioti proprio no, e io ne vedo, nel mio lavoro (come pretendi che io mi beva che tu sei stato tamponato, se la tua macchina ha palesemente il segno di un paletto che la segna in due per lungo? Ma pensi che sia scema?).  
Tuttavia, nella mia ingenuità, io credevo che controllare, verificare e, se del caso, punire questa gente qui – gli evasori idioti - fosse abbastanza semplice anche prima, ad esempio tramite il PRA (per le auto), o l’Agenzia del Territorio (per le case): siamo uno tra i Paesi più burocratizzati al mondo, servirà a qualcosa avere trecentomilioni di registri e schedari, o no?
Invece il Redditest parte da un concetto diverso, e secondo me andrà a colpire proprio la povera gente, con il risultato che ingolferà, ancora di più, gli uffici addetti ai controlli, ed esaspererà, ancora di più, gli animi dei contribuenti già al limite della sopportazione.
Parto da me: ho un reddito lordo che non fa propriamente schifo. Sotto sotto non nego che a volte mi piacerebbe barare e non pagare le tasse su tutto, ma (oltre al fatto che so che è sbagliato, e quindi non lo farei a prescindere) io non posso, perché i miei guadagni sono costi per la Compagnia che mi paga, e mi vengono certificati ogni anno fino all’ultima virgola. Del resto è normale, altrimenti ci pagherebbe sopra le tasse lei. E sono tutti puliti e bianchissimi, perché vengono scorporati dal premio che ogni assicurato paga: un assicuratore non può e non potrà mai avere entrate “a nero”. E io di questi soldi pulitissimi che arrivano alla me “Persona giuridica” che ci faccio: beh, in primis ovviamente ci pago tutti i costi aziendali. Affitti, utenze, commercialista, stipendi, contributi, i pieni di gasolio milionari della Delta, nell’immaginario collettivo. In realtà anche tantissime altre cose, perché io faccio emettere fattura per qualunque centesimo io spenda: devo pagare le tasse, assolutamente, ma voglio pagarne legalmente MENO possibile, quindi come la mia Compagnia fa con me, anch’io pretendo di veder certificare ogni spillo di Euro che esce dalla mia cassa. Anche i trentanove Euro della casetta del Presepe che ho messo sul bancone alle Ragazze. Anche i sei Euro del parcheggio (tra i mugugni sbuffanti – ogni volta – degli addetti nelle varie città, che mi odiano). Anche la beneficenza! La beneficenza si deduce dal reddito d’impresa, ed è una bella cosa perché puoi evitare di pagare un po’ di tasse mentre fai anche del bene: una figata. Io credo sia moralmente obbligatorio destinare una parte dei propri guadagni a chi si trova nel bisogno, ma non perché me l’hanno insegnato i miei o perché l’ho sentito a catechismo: trovo assolutamente amorale spendere soldi per il SUPERFLUO se non si pensa a chi sta peggio. Se non hai neanche i soldi per mangiare capisco, ma se hai un capitale appeso alle pareti, o in garage, o nell’armadio, o nella cassetta di sicurezza in Banca, non venire a dirmi che sono tempi magri (e io qualcosa alle pareti, poco o tanto, ce l’ho).
Quando ho aperto la mia attività ho deciso che ad ogni Natale avrei destinato un Euro in beneficenza per ogni mio Cliente in portafoglio, e abbiamo anche fatto una sorta di intervista a campione per capire a quali Enti i Clienti avrebbero gradito fossero destinati questi soldi; per la cronaca, e per fare un po’ di pubblicità “buona”, sono stati scelti Amnesty International, Medici Senza Frontiere ed il CESVI di Bergamo, tutte organizzazioni con bilanci a posto e tanta chiarezza nel far capire dove vanno a finire i nostri soldi (perché la beneficenza va bene, ma non da cretini).
Poi, anche se il portafoglio Clienti sta calando da un po’, bene o male versiamo sempre le stesse cifre, così ogni Natale è come se fossero ancora con me tanti visi che ci hanno lasciato, magari perché tramite una Compagnia on-line spendono un Euro in meno. Quell’Euro. Mi piace pensare che, per ogni mio Cliente che è davvero in difficoltà e mi lascia, qualcuno in simili difficoltà riceverà qualcosa. Cose che fanno stare bene, e non ci paghi neanche le tasse sopra, quindi fanno bene due volte.
Tanti miei colleghi non sono così attenti e precisini, e spesso mi prendono anche in giro; ma io ribadisco: per ogni cento Euro che tu spendi senza ricevere fattura, sappi che l’anno prossimo ne lascerai giù più o meno sessanta in tasse. Se non ti crea problemi, fatti tuoi. Io la fattura la pretendo. Soprattutto di questi tempi, in cui il lavoro langue e la concorrenza è fratricida: bisogna sapersi fare bene i conti. E’ inutile impazzire per mille Euro di produzione in più o in meno, se non si ha un occhio vigile su come funzionano le uscite. Io sono una che legge anche le note in calce dei regolamenti (insomma, lo facevano anche Schumacher e la Ferrari, ci hanno vinto pure sopra, studiando le pieghe dei  regolamenti!), e può capitare che mi accorga di aver messo da parte i soldi per pagare le tasse, ma che mi servano per qualcos’altro, qualcosa della tipica serie “ora o mai più”. Non ha senso pagarle lo stesso alle giuste scadenze usando il fido bancario che mi costa l’8,2%: esiste una cosa carinissima che si chiama “ravvedimento operoso” (praticamente dopo qualche mese ti “accorgi” di non averle versate, e rimedi) che ti permette di pagare le tasse con un poco di ritardo pagandoci sopra una mora del 3,75% (6,25% con gli interessi legali). Aspetto un mese che sia buono per le entrate, e le pago quel mese lì: ho comprato quello che mi andava di comprare, non sono sotto in Banca (quindi meno spese), e pago le tasse come è comunque permesso fare: con calma.   
Fatte queste operazioni, rimane una cifra ics di soldini che io posso considerare spendibili dalla me “Persona fisica”, e quindi ci pago il mutuo, la spesa, le vacanze quando capita, i vestiti, tutte le mie cose insomma (tante cose, perché io adoro fare girare l’economia!), e le mie famose buone tasse: Inps, Irpef, IMU, un sacco di sigle assurde che vogliono solo dire “paga”.
Di tutto quello che spendo potrà rimanere traccia oppure no, dipende (con i privati per certo no, con gli altri a seconda di come butta). Ma pare che all’Agenzia delle Entrate non gliene freghi più di tanto: se a monte c’è abbastanza da spendere, nessuno dice niente, c’è luce verde. E invece non andrebbe bene, perché io posso fare un sacco di loschi acquisti nel nero più totale, in questo modo, senza che nessuno lo scopra o lo sappia! Come la mettiamo? Posso sempre dire che i miei soldi li presto o li regalo, ma siamo sicuri che lo spirito del controllo sia questo?
Prendiamo invece il caso di una famiglia standard, di quelle che adesso sono davvero tante: quattro persone, due redditi da lavoro dipendente per un totale di più o meno duemila Euro netti, quando va bene. Mutuo da pagare, figli da far studiare. Spese infinite di casa. Spese FISSE, inevitabili, anche se la fabbrica ti riduce l’orario, o ti mette in cassa integrazione. Non esci più, non fai ferie, ma ancora non ti bastano. Allora, di norma, ti fai dare una mano, magari dai tuoi genitori, se sei fortunato e li hai ancora (se sei doppiamente fortunato sono pensionati entrambi, loro, che hanno avuto la certezza di arrivarci). Oppure razioni il cibo. Ma questo all’Agenzia delle Entrate non interessa: con il Redditest si vede che tu spendi più di quanto guadagni, e non importa se il mutuo te lo paga la mamma, o se scegli di non mangiare quando ti devi comprare le medicine. Hai la luce rossa, e devi andare a giustificarti, ad umiliarti, a raccontare la tua disperazione, sentendoti magari anche fuorilegge perché in effetti due soldi in nero li prendi, facendo piccoli lavori di sartoria o di giardinaggio per il quartiere o la parrocchia, ma sono gli unici che ti permettono di tirare avanti.
E, se io sto più o meno in mezzo, all’altro capo del filo rispetto a questi poveracci c’è l’altro caso-limite: quello che, invece, a nero fa tutto. Nel senso che riceve soldi a nero ma a nero li spende, e vi assicuro che si può. Costruttori, ad esempio (non che io abbia qualcosa in particolare contro questi signori, ma mi agito quando li sento piangere miseria), che centomila Euro li mettono nel rogito ed altri centomila in un sacchetto del pane. Ma mica ci si comprano la Mercedes, perché non sono idioti (la Mercedes se la comprano con quelli del rogito, e quindi possono ed è tutto normale). Sempre a nero li fanno girare, pagando a nero operai che risultano lavorare otto ore al giorno invece delle dodici che fanno. Oppure con regali giusti dove sta bene. O ancora in sontuosi conti bancari fuori Italia. E questi soldi qua il Redditest mica li sgama: non sono mai entrati, non sono mai usciti.
Mi spiegate, allora, a cosa serve esattamente?

venerdì 7 dicembre 2012

Serata di stelle

Ogni mattina, quando arrivo in ufficio, le prime due cose che faccio sono, nell’ordine: controllarmi la posta elettronica, e dare un’occhiata a cosa c’è di nuovo nel blog di Roberto Milani, che oltre ad essere uno dei miei stoici e coraggiosi Lettori Fissi detiene questa sorta di Bibbia per gli amanti (ma anche per i semplici curiosi simpatizzanti) dell’arte contemporanea “La stanza privata dell’arte”.
Roberto deve avere probabilmente giornate di 78 ore (come lo invidio), perché oltre a tutto quello che normalmente fa riesce anche a postare sul blog in maniera totalmente bulimica, per nostra fortuna, segnalandoci tutti i vari eventi d’arte presenti in tempo reale in Italia e a volte in giro per il mondo. Uno non perde nemmeno tempo a cercare: legge il blog di Roberto e ha l’ispirazione su come impegnare il weekend. Non ho mai fatto caso, realmente, se le notizie che segnala a noi  appassionati & malati siano solo quelle riguardanti artisti del “giro” di Casa d’Arte San Lorenzo e dintorni, ma a dire il vero mi pare di no, ed ho spesso apprezzato questa onestà intellettuale di fondo: l’amore per l’arte non può avere un marchio. Poi chiaramente parli bene dei tuoi cavalli vincenti, ma una presentazione non la neghi a nessuno.
Posto questo, stavolta lo devo bacchettare. Perché si è lasciato scappare la segnalazione dell’ultima mostra di Cesare Berlingeri “Andar per stelle”, che si è inaugurata ieri a Padova (magari me la mette oggi, ma mentre sto scrivendo sono le 7.20 del mattino e vi assicuro che non c’è).
Io comunque lo sapevo lo stesso, dal momento che ho comprato qualcosina dalla Galleria Vecchiato, e ci sono andata con mio marito; siamo rimasti in forse fino all’ultimo, perché lui era bloccato dai dolori cervicali fin dal risveglio (sotto Natale non si fa mancare niente) ed io avevo il tecnico dei computer che mi stava buttando all’aria l’ufficio, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Ci siamo anche, credo, gustati la mostra più di tutti i presenti, dal momento che ci siamo andati con quello che avevamo addosso dalla mattina (dopo una giornata di lavoro e sudore, i vestiti, i capelli ed il trucco di una signora non stanno esattamente come quando esce di casa…), e per non farci notare in mezzo a tutti i convenuti elegantissimi e tiratissimi abbiamo evitato i fotografi come la peste, facendo tappezzeria alle pareti. Insieme alle opere, quindi, che erano davvero ottima compagnia, rispetto a quelli che si ostinavano a fare mucchio su Rabarama/Paola o Cinzia Pellin, presenti ma che nemmeno potevano muovere un passo, poverine.
Io la racconto a modo mio, la mostra, senza grandi discorsi. Del resto, Berlingeri non ha bisogno di chissà quali presentazioni visto che crea arte da quarant’anni. E’ una bella persona, e un artista straordinario. Una bella persona perché è vero, di poche parole, e sa commuoversi (gli si è rotta la voce mentre, al microfono, ha ricordato l’amico Dante Vecchiato), e per me un uomo che sa piangere vale il doppio. Non ho mai sopportato quelli che dicono che l’uomo (inteso come “maschio”) deve essere forte, non deve mostrare emozioni, o, peggio ancora, non deve piangere mai. In quale Trattato della Demenza c’è scritta una roba simile? Io ammiro gli uomini che non si vergognano a mostrarsi Uomini, con la U maiuscola. Esseri umani. Fatti di carne. Fatti di spirito e sogni. Fatti di gioie e dolori. Anche io del resto (che sono biologicamente donna ma sotto sotto sono un maschiaccio, per come mi comporto, per il lavoro che faccio, per il carattere che ho) quando mi scappa la lacrima emotiva non la trattengo. Mica dico che stia qui a frignare in continuazione, anzi, ma non lo considero – davanti ad un quadro, davanti ad una poesia, davanti all’amore o alla morte - un segno di debolezza (casomai la debolezza è volerlo nascondere).
E poi è un artista straordinario, perché ha inventato qualcosa di unico, e sa farlo evolvere. Le sue piegature mi affascinano, giusto per ribadire alla mia dolce metà che io sarò anche una talebana dell’arte che non ammette certe avanguardie (il famoso insulto ricorrente “tu sei una da Cascella”), ma riesco a farmi toccare dentro da qualcosa che non sia solo pittura. Purchè sia fatta con criterio. Purchè ci sia un concetto dietro, e un percorso davanti, e in Berlingeri ci sono entrambi.
Lui prende questi immensi cieli stellati e te li accartoccia sotto il naso, così puoi non temerne l’immensità, e farteli entrare tutti nell’anima. Non usa solo il colore, spesso usa il pigmento puro, che rende la tela come un delicato velluto, un panno morbido dalla superficie pelosa come un gatto acciambellato. La guardi e la senti tiepida con gli occhi. E poi non è solo il cielo che si appallottola, è il fuoco, è la terra nera come il metallo, sono i prati, sono i sassi, oppure è la scrittura: grandi tele chiare con misteriosi segni neri. Io ci vedo fogli scritti, ci vedo una lettera, ma arrivata da un amore ormai finito, e allora non la vuoi più vedere aperta perché ogni riga fa male dentro, e quindi la pieghi su se stessa, in modo che il suo contenuto resti invisibile per sempre. E’ lì dentro, tu lo sai, ma chi guarda da fuori non lo può capire (mentre tu butti via la chiave del tuo cuore). Oppure l’inizio di una lettera venuta male e subito appallottolata, scacciata dalla mente e gettata via. E’ curioso questo gesto dell’appallottolare; io, ad esempio, non appallottolo i fogli. Quando devo buttare via della carta la piego in due, poi ancora in due, poi ancora in due, e la rompo a metà. E’ un gesto istintivo; il cestino del mio ufficio infatti, al venerdì, è pieno di piccoli rettangoli sul fondo. Non mi viene naturale accartocciare, chissà perché, di sicuro qualche psicologo scafato ci leggerebbe qualcosa. Magari è solo il rigore e l’ordine da caserma con cui sono cresciuta, e magari è proprio per quello che, nonostante razionalmente mi piacciano di più le tele piegate “squadrate” di Cesare (come tante buste), io sono in realtà inconsciamente attratta dalle pallottole di cielo e dalle loro linee sinuose, a rilievo. Perché rappresentano la mia parte nascosta. Come mio marito, che è tutto puro istinto, e voleva portarsene a casa almeno un paio, di quelle.
L’esposizione è strutturata in una sequenza di sale secondo un ordine che un po’ è cronologico (con all’inizio i primi lavori in cui lo spazio è diviso solo dai colori e non dalle pieghe, e i primi violenti abbozzi di piega, pesanti e fitti, quasi rabbiosi; poi i lavori più recenti, gonfi e maturi, e gli ultimissimi che ancora si appiattiscono, quasi in un ritorno all’origine), e un po’ è cromatico (ora mille blu, ora mille rossi).
Questo è possibile grazie alla sede espositiva – il Centro Culturale Altinate San Gaetano – che non avevo mai sentito nominare, e che è sbalorditivo. Recentissimo e polifunzionale, sembra fatto apposta per esporre arte contemporanea, con i suoi spazi lunghi, vetrati, i suoi tubi, i suoi percorsi di  ferro per le luci che ti seguono dall’alto, in un continuo open space che fa tanto New York. Il fatto che io non lo conoscessi conta niente, del resto fa tutto parte del sottile odio provinciale che ogni regione ha, e se sei da fuori non lo puoi capire. Venezia, Padova e Treviso si detestano cordialmente tra loro, sono in perenne competizione, ogni cosa diventa un derby. Per non parlare del fatto che poi, in genere, tutte e tre detestano Mestre, che di Venezia è la cugina brutta e povera, senza una sua storia e senza una sua identità, così noi mestrini cresciamo arrabbiati con chiunque ci circondi (anche se spesso andiamo a passeggiare in incognito nei vicoletti romantici della concorrenza).
L’attività di questo Centro è un bellissimo esempio di cosa può venir fuori con intelligenti sinergie tra pubblico e privato, come ha ben spiegato l’Assessore alla Cultura, che mi è proprio piaciuto, ha fatto un discorsetto chiaro e preciso su questa enorme piaga che affligge l’Italia, il Paese con più cultura al mondo che sta volontariamente decidendo di non volerne più sentir parlare (tra tagli assurdi e scelte sbagliate). Non è stato per niente “politichese”, anzi, forse gira e rigira è stato più politichese Luca Beatrice, dandy come sempre ma per una volta senza l’inseparabile ascot, che è tanto bravo ma spesso riesce a parlare senza dire, in realtà, niente di concreto. Gli tirerei le orecchie, come quando l’anno scorso a Firenze, in occasione della mostra AntiConforme di Rabarama, ha preso il microfono solo per dire che preferiva lasciar parlare le opere (e grazie!). Ma si sa che sui critici io sono un po’ di parte, perché ho il mio occhio dritto, e quindi forse pecco in obiettività. In ogni caso c’era un bel clima, ho apprezzato la presenza dei vari artisti della "scuderia" Vecchiato, tutti lì a sostenere un Cesare emozionatissimo; è sempre bello vedere quando si riesce a mantenere uno spirito di squadra anche in realtà lavorative in cui la spinta di affermazione personale è la base di ogni cosa.
Ho avuto anche la bellissima sorpresa di trovare uno dei miei tre Berlingeri pubblicato nel catalogo! Noi compriamo ciò che ci piace, ciò che ci “parla”, ciò che ci trasmette qualcosa: non guardiamo mai all’eventuale pubblicazione. Cosa penso sul fatto delle opere pubblicate o meno l’ho già scritto a chiare lettere in “Chi è causa del suo mal” (Luglio), per me sono solo fregnacce. Prendiamo ad esempio il caso dei Fiori di Gastone Biggi, che noi abbiamo comprato perché Franco Boni ha detto cose che ci avevano convinto, sull’artista e sulla sua forza, solo che non li abbiamo comprati da lui, che all'epoca era ancora da Corbelli. In seguito abbiamo mandato una mail tanto gentile ad ArteInvestimenti per sapere quali erano le modalità per l’eventuale pubblicazione, sempre che fosse possibile (del resto è tutto in mano alla famiglia), e loro ci hanno risposto con una mail altrettanto gentile che diceva che pubblicano solo i quadri che vendono loro (e fin qui ci poteva stare, uno del resto a casa sua fa quello che vuole), MA, attenzione attenzione, perché sono solo quelli gli unici di vera qualità. Ho riso due giorni. E visto che mi invitavano a rivolgermi a chi mi aveva venduto il quadro, l’ho fatto, e mi sono sentita rispondere “Chiamo subito Boni e te lo faccio pubblicare”, così i giorni di risa sono diventati tre. Un passettino falso del Terzo Polo, che comunque continuo a seguire con gran piacere, cataloghi di Biggi a parte.
Chiarito questo aspetto, non nego che vedere una delle nostre tele bianconere (perché, scusate, ma solo così sono potute entrare in casa mia, o così o niente) in mezzo a tanta bellezza ci ha un pochino inorgoglito. E’ stato come vedere un figlio che si laurea. Perché dopo vari anni di Musei, Mostre, Fiere, e quant’altro riguardi l’arte, un pochino di gusto lo maturi. Li becchi subito i quadri “di qualità”, i gioiellini, piccoli o grandi che siano; infatti a me personalmente capita spesso, quando guardo le trasmissioni di Dario Olivi, di pensare “quella lì mi piace” tra tutte le opere che stanno appese in tre pareti, e puntualmente Dario, tra tutte, va da quella. E non parliamo mica di un bischero qualunque.
Concludendo, oggi rompo anche un tabù. C’è una persona, tra tutti i miei lettori nascosti, al cui giudizio tengo visceralmente. Questa persona una volta mi ha chiesto perché non posto mai foto delle inaugurazioni delle mostre a cui vado, ed io a tal domanda avevo risposto mugugnando, perché come idea non mi andava. C’è il fotografo ufficiale, guardatevi quelle. Invece questa volta lo faccio, magari per me sola, per potermele riguardare quando accedo a Trecose: due vite intere, accartocciate, forti, con dentro tutta una storia. Le due più belle di tutta la mostra, acqua e fuoco, cielo e terra. Piccole, perché non serve essere grandi fuori per essere grandi dentro. Cesare Berlingeri, in effetti, in questo stravince.


martedì 4 dicembre 2012

Tears

Il post di oggi è anomalo, e breve (cosa che già basterebbe a renderlo anomalo).
Il fatto è che è iniziato Dicembre, che per me è ogni volta un mese anomalo – brevissimo ed infinito insieme - e difficile. Un mese in cui per lavoro sono costretta a trottare come una matta, si devono tirare le fila del lavoro di un intero anno, e i conti devono tornare sempre e con puntualità (tredicesime comprese) perchè altrimenti sono guai, già il pensiero ti stanca prima ancora di cominciare. Poi tutto torna, a dire il vero, ogni volta, ma è come pedalare in salita, e ogni anno che passa mi sento come se mi avessero taroccato il cambio della bici. Tu scatti e spingi, e corona e pignone tirano indietro.
E poi è un mese in cui tutti sembrano obbligati a fare i felici per forza, obbligati a vedere un sacco di gente ed a sorridere, anche se non ne hanno assolutamente voglia, in un sorta di Sagra Annuale dell'Ipocrisia che mi ha sempre messo addosso un tremendo senso di depressione, per così dire, una sorta di paludosa tristezza. Perchè io vorrei sentirmi libera di essere felice oppure no, senza l'imposizione di un calendario. E a proposito di depressione (quella vera), pare scientificamente assodato che chi in passato ne ha sofferto, poco o tanto che sia, in Dicembre - verso la fine soprattutto - tenda a sentirsi particolarmente isolato e triste, e questo rende tutto, per me, più complicato. Ti dicono che è normale che succeda, ma non ti mostrano come combattere questa cosa, così ti trovi una volta ancora a cercare di riempire d'amore una solitudine voluta, e ti senti inerme.
E poi è… già passato un anno. Come dimentichiamo in fretta. Oppure no.
Non so se avrò voglia di scrivere qualcosa per me in Dicembre, magari mi limiterò a svuotare il file delle idee già scritte, che ha sempre qualcosa di fermo da pescare all'amo. Oggi però scrivo, anzi riscrivo, riporto, una frase che ho letto per caso un paio di settimane fa, senza cercarla; è stata lei che mi è scivolata addosso all’improvviso. Era una domenica sera qualunque, avevo anche una mezza febbre e quindi me ne stavo buona buona in divano a leggiucchiare senza particolari pensieri, e soprattutto senza la minima voglia di affrontare la pila di roba asciutta da stirare che mi aspettava. Questo perché io, di solito, riservo allo stirare la domenica sera, la conclusione del weekend, visto che è la cosa - tra tutti i lavori casalinghi - che più detesto fare in assoluto; in questo modo riesco a rendere particolarmente interessante il fatto che il giorno dopo riprenderà una nuova settimana d'ufficio, di telefono che squilla, di rogne da risolvere e di giri da Clienti non sempre amichevoli. Ma tutto comunque più gradevole rispetto a stirare complicate camicie da uomo o eterne lenzuola. In questo modo non vedo l'ora che arrivi lunedì mattina, quindi (se domenica sera andassi a cena fuori o a divertirmi penso che alzarmi il lunedì sarebbe un trauma).
Mi è arrivato sotto le mani l'ennesimo articolo sugli ultra-centenari, solo che questa volta non raccontava dei mitici sardi ma di un bel gruppetto che vive dalle parti di La Spezia, complice buon clima, uno stile di vita sano, buona integrazione sociale e ottime e sicure strutture di accoglienza e controllo. Ne intervistavano anche alcuni; il solito articolo, le solite storie: anni, nomi, rughe, nipoti...
Ma questa volta, tra una storia e un nome, ho letto questo:
"Gli anziani vogliono essere ascoltati. E toccati. E' difficile toccare un anziano. Loro chiedono rispetto, non compassione, e non amano essere chiamati nonnini. Hanno una storia alle spalle che non può essere ridotta ad un vezzeggiativo. (...) In effetti non è facile toccare un anziano, ma quando lo fanno loro, il loro tocco ti entra nella pelle e va ad accarezzarti l'anima".
Non lo so perchè, forse è stata la febbre. Forse sono stati ricordi lontani ma non troppo, oppure il pensiero dell’inesorabilità del tempo. O degli occhi di una persona che possiede la chiave della mia anima, e che diventano laghi d’inverno, limpidi ed irraggiungibili, quando gli anziani si allontanano.
Forse l'ho vissuta come una poesia.
Ma ho chiuso le pagine, e ho pianto in silenzio.

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte - eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
(Emily Dickinson)