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martedì 4 dicembre 2012

Tears

Il post di oggi è anomalo, e breve (cosa che già basterebbe a renderlo anomalo).
Il fatto è che è iniziato Dicembre, che per me è ogni volta un mese anomalo – brevissimo ed infinito insieme - e difficile. Un mese in cui per lavoro sono costretta a trottare come una matta, si devono tirare le fila del lavoro di un intero anno, e i conti devono tornare sempre e con puntualità (tredicesime comprese) perchè altrimenti sono guai, già il pensiero ti stanca prima ancora di cominciare. Poi tutto torna, a dire il vero, ogni volta, ma è come pedalare in salita, e ogni anno che passa mi sento come se mi avessero taroccato il cambio della bici. Tu scatti e spingi, e corona e pignone tirano indietro.
E poi è un mese in cui tutti sembrano obbligati a fare i felici per forza, obbligati a vedere un sacco di gente ed a sorridere, anche se non ne hanno assolutamente voglia, in un sorta di Sagra Annuale dell'Ipocrisia che mi ha sempre messo addosso un tremendo senso di depressione, per così dire, una sorta di paludosa tristezza. Perchè io vorrei sentirmi libera di essere felice oppure no, senza l'imposizione di un calendario. E a proposito di depressione (quella vera), pare scientificamente assodato che chi in passato ne ha sofferto, poco o tanto che sia, in Dicembre - verso la fine soprattutto - tenda a sentirsi particolarmente isolato e triste, e questo rende tutto, per me, più complicato. Ti dicono che è normale che succeda, ma non ti mostrano come combattere questa cosa, così ti trovi una volta ancora a cercare di riempire d'amore una solitudine voluta, e ti senti inerme.
E poi è… già passato un anno. Come dimentichiamo in fretta. Oppure no.
Non so se avrò voglia di scrivere qualcosa per me in Dicembre, magari mi limiterò a svuotare il file delle idee già scritte, che ha sempre qualcosa di fermo da pescare all'amo. Oggi però scrivo, anzi riscrivo, riporto, una frase che ho letto per caso un paio di settimane fa, senza cercarla; è stata lei che mi è scivolata addosso all’improvviso. Era una domenica sera qualunque, avevo anche una mezza febbre e quindi me ne stavo buona buona in divano a leggiucchiare senza particolari pensieri, e soprattutto senza la minima voglia di affrontare la pila di roba asciutta da stirare che mi aspettava. Questo perché io, di solito, riservo allo stirare la domenica sera, la conclusione del weekend, visto che è la cosa - tra tutti i lavori casalinghi - che più detesto fare in assoluto; in questo modo riesco a rendere particolarmente interessante il fatto che il giorno dopo riprenderà una nuova settimana d'ufficio, di telefono che squilla, di rogne da risolvere e di giri da Clienti non sempre amichevoli. Ma tutto comunque più gradevole rispetto a stirare complicate camicie da uomo o eterne lenzuola. In questo modo non vedo l'ora che arrivi lunedì mattina, quindi (se domenica sera andassi a cena fuori o a divertirmi penso che alzarmi il lunedì sarebbe un trauma).
Mi è arrivato sotto le mani l'ennesimo articolo sugli ultra-centenari, solo che questa volta non raccontava dei mitici sardi ma di un bel gruppetto che vive dalle parti di La Spezia, complice buon clima, uno stile di vita sano, buona integrazione sociale e ottime e sicure strutture di accoglienza e controllo. Ne intervistavano anche alcuni; il solito articolo, le solite storie: anni, nomi, rughe, nipoti...
Ma questa volta, tra una storia e un nome, ho letto questo:
"Gli anziani vogliono essere ascoltati. E toccati. E' difficile toccare un anziano. Loro chiedono rispetto, non compassione, e non amano essere chiamati nonnini. Hanno una storia alle spalle che non può essere ridotta ad un vezzeggiativo. (...) In effetti non è facile toccare un anziano, ma quando lo fanno loro, il loro tocco ti entra nella pelle e va ad accarezzarti l'anima".
Non lo so perchè, forse è stata la febbre. Forse sono stati ricordi lontani ma non troppo, oppure il pensiero dell’inesorabilità del tempo. O degli occhi di una persona che possiede la chiave della mia anima, e che diventano laghi d’inverno, limpidi ed irraggiungibili, quando gli anziani si allontanano.
Forse l'ho vissuta come una poesia.
Ma ho chiuso le pagine, e ho pianto in silenzio.

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte - eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
(Emily Dickinson)

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