Parresia
dal greco ”pan” (tutto) e “rhema” (discorso):
libertà di parola
Mi capita ancora, a volte, mentre sto leggendo un libro o sfogliando un articolo di una rivista, di incontrare una parola che non conosco, ed è una cosa che mi piace per svariati motivi.
Il più banale è che l’articolo, o il libro stesso, magari un libro qualunque che non ti sta trasmettendo nulla di particolare, che stai solo “vedendo” distrattamente, improvvisamente diventa un valore aggiunto: basta una parola nuova, mai sentita prima, affinchè valga la pena di continuare a leggere, come una lampadina nel buio.
Ma ce ne sono altri: alzarmi ed aprire il vocabolario, ad esempio, per cercare QUELLA parola, e puntualmente soffermarsi su altre che la circondano, e poi saltellare da una lettera all’altra – anche a caso – solo per trovarne ancora, e ancora, e ancora. Ho sempre amato i vocabolari, veicoli di linguaggio e conoscenza, di tradizione e di nuovi saperi; ho sempre ammirato l’abilità con cui, in due righe, un significato prende forma. Perché non è per niente facile! Tutti sappiamo – per esempio – cos’è una macchia: bene, provate a definirla con non più di quindici parole. Fin da bambina ne ero affascinata, e scorrazzavo volentieri giornate intere su e giù per l'alfabeto.
Ma ce ne sono altri: alzarmi ed aprire il vocabolario, ad esempio, per cercare QUELLA parola, e puntualmente soffermarsi su altre che la circondano, e poi saltellare da una lettera all’altra – anche a caso – solo per trovarne ancora, e ancora, e ancora. Ho sempre amato i vocabolari, veicoli di linguaggio e conoscenza, di tradizione e di nuovi saperi; ho sempre ammirato l’abilità con cui, in due righe, un significato prende forma. Perché non è per niente facile! Tutti sappiamo – per esempio – cos’è una macchia: bene, provate a definirla con non più di quindici parole. Fin da bambina ne ero affascinata, e scorrazzavo volentieri giornate intere su e giù per l'alfabeto.
Quando ero adolescente in famiglia facevamo un gioco tutti insieme (noi eravamo in cinque, ma più si è meglio viene) che consisteva esattamente in questo: a turno ognuno di noi sceglieva un termine dal vocabolario di riferimento (che per noi era l’enorme, immenso, doppio Devoto-Oli, che pesava quanto una cassapanca), ovviamente appurando prima che nessuno degli altri quattro ne conoscesse il significato. Poi, mentre colui che conduceva la mano del gioco trascriveva su un foglietto la definizione del vocabolario, quella vera e corretta, gli altri dovevano scriverne sui loro foglietti una propria (ipotizzata, inventata!), cercando di renderla plausibile per terminologia, lunghezza, chiarezza eccetera. I foglietti chiusi venivano poi passati al conduttore del giro, che solennemente ne declamava il contenuto; io di solito a questo punto mi nascondevo sotto al tavolo, perché quando attaccavano con la definizione scritta da me puntualmente diventavo viola (ebbene sì, io sono una di quelle che arrossiscono, siamo in via d’estinzione ma non del tutto scomparse) e quindi mi beccavano subito.
A quel punto ognuno dei quattro scrittori doveva votare la definizione secondo lui esatta (il gioco lo vince chi prende più voti con le definizioni inventate, ovviamente): escludendo la propria, che ciascuno di noi sapeva essere falsa, ne rimanevano pur sempre quattro, una vera e tre inventate, ed era ogni volta una bella lotta, perché a parte mio fratello che era ancora piccolo (e la scrittura ne risentiva), noi altri ce la giocavamo alla pari. No, a dire il vero alla pari no, io e la mia mamma (le due Bilance) tendevamo a stracciare i due Sagittari. Come a Scarabeo, quando si tratta di parole e lettere io giganteggio. Perché è amore vero.
A quel punto ognuno dei quattro scrittori doveva votare la definizione secondo lui esatta (il gioco lo vince chi prende più voti con le definizioni inventate, ovviamente): escludendo la propria, che ciascuno di noi sapeva essere falsa, ne rimanevano pur sempre quattro, una vera e tre inventate, ed era ogni volta una bella lotta, perché a parte mio fratello che era ancora piccolo (e la scrittura ne risentiva), noi altri ce la giocavamo alla pari. No, a dire il vero alla pari no, io e la mia mamma (le due Bilance) tendevamo a stracciare i due Sagittari. Come a Scarabeo, quando si tratta di parole e lettere io giganteggio. Perché è amore vero.
L’ultimo, e più importante, piacere nell’incontrare parole sconosciute sta tutto in quel “mi capita ancora” con cui ho iniziato questo post. Perché in effetti una certa proprietà di linguaggio ce l’ho, maturata in anni di studi, di lettura alla luce del sole e di scrittura nascosta, e spesso anche se non conosco l’esatto significato di una parola all’interno di uno scritto va da sé che lo desumo dal contesto (il fatto che io mi sforzi, per lavoro, di parlare e scrivere in modo estremamente semplice, ordinato e a volte basico, non significa che il mio scibile si fermi lì). Però il SAPERE è infinito, e questo mi stimola da morire: ogni volta che trovo una parola nuova è, ogni volta, un ammettere di “non sapere”, è come una ripartenza.
Trovo sempre strano quando incontro persone con menti interessanti, con cui puoi dialogare davvero (oltre a parlare del tempo, delle vacanze e dell’aumento della benzina), che si vergognano di quello che NON sanno: se si affronta un argomento su cui sono poco ferrati cercano di deviare il discorso, di riportarlo su binari in cui si sentono più sicuri. E a quel punto, per me, perdono di interesse. Perché è il “non sapere” che apre alla conoscenza, intesa anche come conoscenza reciproca! Conosci il tal poeta? No, parlamene tu! Hai mai letto il tal libro? No, raccontami! Non è solo scambio di cultura, è scambio emozionale, mentale (e io sempre là torno, alle emozioni, prima o poi mi dovrò scusare pubblicamente per quanto vi annoio in merito, ma sono le emozioni il succo del vivere, ciò che ci distingue dall’animale, ciò che ci permette di sognare, approfondire, andare “oltre”). Possiamo anche essere più prosaici, se vogliamo, perché per riempire il “non sapere” della persona che hai vicino a volte bastano anche i più bei sentieri delle Dolomiti, o una spiegazione su come si usa un trapano a percussione. L’importante è non pensare mai, neanche per un momento, che sapere qualcosa sia più importante di non sapere tutto il resto.
Quando ho scelto il titolo del mio blog (a parte il fatto che l’ho impostato in dieci minuti, quindi non ho riflettuto granchè) inconsciamente ho travasato questo mio sentire: Tre Cose Che So è un titolo nato per gioco. Una Cosa che so di conoscere bene con la testa, una Cosa che sento tantissimo con il cuore, una terza Cosa di cui è sempre divertente parlare (perché alla mia età, quando stringi migliaia di mani all’anno, qualche buffo aneddoto – quando non qualche amara considerazione – ce l’hai sempre pronto). Ma sottolinea quante altre potenzialmente sono le cose che NON so: mi piace compiacermi (mi scuso per il gioco di parole) del mio “non sapere”, affinchè e purchè sia da stimolo per una nuova conoscenza, chiaro, non certo per crogiolarsi nell’ignoranza.
“Parresia” mi è arrivato così, in greco, da un testo che col greco non c’entrava, e ho sorriso ancora una volta pensando agli sguardi di superiorità che i ragazzi del Liceo Classico lanciavano a noi ragazze del Liceo Scientifico (solitamente noi rispondevamo per le rime “sai dove te lo puoi attaccare il tuo greco, caro saputello, vuoi che parliamo un pochino di termodinamica?”). E’ una parola bella, importante, che cercherò di usare perché ha un significato forte per me, per come sono, per come sento il mondo, per come lo vivo. Libertà di parlare ma anche CORAGGIO di parlare, quando serve. Cerca e ricerca in rete, ho trovato un sito che si chiama Una Parola Al Giorno, e permette di “adottare” parole sconosciute, o bistrattate, o che fanno un po’ paura perché sono troppo importanti, come questa; “parresia” è già stata adottata da un’altra persona, ma vedremo di dividercela salomonicamente, appena riuscirò a capire come fare per donare un solo Euro e non dieci. Un Euro glielo do volentieri, sono i siti come questo che mi commuovono, quando capisci che la rete, se ben usata, può davvero essere un validissimo strumento che va oltre a tutto il tetteculi imperante (e lo dice una fiera, naturale portatrice sia di queste che di quello).
Trascrivo da Una Parola Al Giorno:
“Nell’antica Grecia fu individuata questa virtù. Si tratta del diritto e del dovere attribuito al cittadino, e specie all’uomo pubblico, di dire tutto, di non frapporre filtri o deformazioni o censure fra ciò che pensa e ciò che dice: dire tutto, e, quindi, dire la verità. Questo non sempre è conveniente, anzi, impone rischi e quindi richiede coraggio. Rinunciare ad incatenare – quindi a compiacere, ad irretire, a dover esiliare il furbesco e il desiderabile – può mettere in pericolo il proprio guadagno, la propria adulata soddisfazione, il proprio consenso e la stabilità conquistata. E questo vale tanto nel rapporto con gli altri che con se stessi. Si tratta di una scelta che non è mai gratuita: esprimere la verità chiede sempre un costo – in amicizia, in soldi, in voti elettorali; si tratta però anche di una scelta da cui dipende la libertà. In un mondo in cui le falsità sottili ed accomodanti – di etichetta, di amor della pace, di ragion di Stato – regnano sulla società democratica, tanto chi trama quanto chi beve la menzogna è schiavo (anche chi tiene la catena è incatenato). La parresia è una virtù civile, trasparente, luminosa, modesta e priva di cerimonie – in una parola, socratica – che purga gli ascessi della civile società.”
Il tutto in una parola sola! Che bello. Ascoltarli, la prossima volta, i saputelli del Classico.
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