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sabato 26 ottobre 2013

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Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo. 
Ma andiamo con calma con le spiegazioni; intanto, non ho più tempo di fare niente di tutto quello che solitamente mi piace fare. Ottobre è un mese molto denso del suo, e visto il momento non è il caso di trascurare nessun Cliente, proprio nessuno, neanche quelli più piccoli e apparentemente meno interessanti - quindi se bisogna fare qualche chilometro in più per incassare la RCA di una Panda da una nonna di campagna ci si va, vuoi mai che ti si apra tutto un mondo intorno di nipoti pieni di soldi, nella speranza ovviamente che siano anche desiderosi di darli a te (assicurativamente parlando, certo), altrimenti il fatto che ne abbiano non è assolutamente rilevante. 
Aggiungiamoci il famoso trasloco, che ormai quasi mezza Italia attende affinchè io smetta di parlarne; siamo praticamente in vista dell'arrivo. Passo dopo passo, nell'ufficetto nuovo sono arrivati i mobili (in tante scatole con kit di montaggio, ma il mio angelo della manualità vede e provvede), le tende, la corrente elettrica, l'insegna esterna, le vetrofanie. Bisogna svuotare centoquaranta metri quadri e ridurli a settantacinque, del resto i traslochi servono esattamente a questo: a ripulire le case, a ripulire gli uffici, a ripulire i cuori, a ripulire le vite di ciascuno. Io vorrei tenere tutto, ogni foglio, ogni cartellina mi ricorda un volto, una voce, una storia. Impaccare tutto nella campana della carta, o direttamente nel container del macero, è doloroso, sento quasi lo strappo dell'abbandono. 
Il mio angelo della manualità non ha mai lavorato in un ufficio, e mi deride un pochino, ma è così. Un sinistro particolarmente difficile gestito bene, con il Cliente che ti dice grazie e ti porta i cioccolatini. Una famiglia che ha subito un lutto e si è divisa, alcune Polizze sono rimaste ed altre no. Quella grossa flotta aziendale, un parto allucinante sia la trattativa che la stampa. La mia procura per il vecchio Agente. Gli attestati dei corsi di formazione, quelli fatti negli anni Novanta che dicevano quasi il contrario di quelli degli anni Duemila, ma uno di questi l'avevo fatto a Milano da un docente universitario, e lui durante la simulazione di vendita in aula mi aveva riempito la scheda di valutazione con tanti "più", dicendomi che forse era il caso che pensassi a qualcosa di "oltre" (ero capoufficio, all'epoca; tutto doveva ancora cominciare). 
Via, via tutto, in pacchi ben confezionati, perchè l'angelo della manualità è una scheggia con lo scotch. Sto buttando nel container del macero tre quarti dei miei ricordi, del resto anche il Modello Unico lo puoi buttare dopo cinque anni (con l'Agenzia delle Entrate che scandisce la legalità del tempo che passa). Va bene, è così che sto vivendo questo trasferimento: voglio un ufficio vergine. Lo riempirò di nuovi volti, di nuove storie, di nuovi ricordi. Sarà un punto a capo umano. 
La prossima settimana staccheranno le linee telefoniche qui e le riattaccheranno tre chilometri più in là. Staremo quattro giorni come nel Limbo tra color che son sospesi, con i computer attivi qui ed i telefoni attivi di là, ma viste le evoluzioni necessarie per ottenere appuntamenti certi con i tecnici non era il caso di lamentarsi più di tanto. Però si corre un sacco, in questo mese. Affari da concludere, scatoloni da spostare. Penso solo al lavoro, a chiudere bene i conti, non ai visi e ai ricordi; e non scrivo più, non leggo più, non ho tempo, il mio cuore non si apre. 
Faccio foto. 
Eccomi arrivata a bomba, dopo uno dei miei soliti voli per spiegare il battito. Quand'ero ragazzina mi piaceva fotografare, devo averlo anche raccontato in un post di un secolo fa, più o meno. Avevo smesso per due motivi: uno, l'avvento del digitale, perchè per me fotografare non poteva prescindere dal rullino e dalla carta. Estrarre il rullino dal cilindretto di plastica, assaporare appena quel tipico odore sgradevole ma ogni volta eccitante, perchè avevi davanti trentasei opportunità di VEDERE solo tue, infilarlo, alla fine riavvolgerlo. Portarlo a sviluppare. Attendere qualche giorno prima di poter verificare se quello che avevi visto tu attraverso l'obiettivo si era davvero fissato sulla carta in QUEL modo, il modo in cui lo ricordavi. Quelle ombre, quelle luci. Ci ho messo un po' a farmi coinvolgere dall'aspetto positivo del "se-è-venuta-male-la-cancelli-subito-e-via", oppure "puoi-scattarne-centocinquanta-tanto-non-costa-niente". Indubbiamente positivo, ma che all'inizio rendeva tutto così piatto, troppo semplice. Sembrava non servisse più applicarsi per studiare la luce, il tempo, l'inquadratura. Ero entrata nell'era del tutto e subito, soprattutto del tutto-e-subito facile, e non mi piaceva per niente; non perchè a me piaccia far fatica, mica sono masochista. Ma ho sempre sentito molto più "mie" le cose che ho ottenuto con un minimo di sforzo, di impegno (dalle foto a molto altro, nella vita, anche perchè in effetti di roba facile facile non me ne ha riservata poi tanta).
Secondo motivo, l'angelo della manualità odia le foto e tutto ciò che ci gira intorno. Odia l'idea di tornare in un posto visto la mattina perchè al pomeriggio la luce sarà diversa e più "giusta". Odia fermarsi per respirare attraverso un rettangolo. Quindi la mia reflex era finita, all'epoca, dentro l'armadio dov'è tuttora (perchè il trasloco di casa l'ha protetta, dentro l'armadio, perchè certe cose non si possono buttare via anche se non si usano più, sarebbe come tagliarsi via un piede).
Un paio di settimane fa ho compiuto di nuovo gli anni. Capita, tra un post e l'altro, lo sapete. E ci ho riprovato con l'idea dello Smartphone, perchè qualcuno di molto importante me ne ha regalato uno di molto importante, praticamente è una macchina fotografica che, tra le altre cose, ti permette di telefonare. Così puoi scambiarti infiniti mms di scatti di mostre, di quadri, di arte, e sentirti più vicino. Ed è per questo che mi sembra di essere tornata indietro nel tempo. Non mi si apre il cuore per scrivere, leggere, comunicare, ma faccio un sacco di foto, e rivedo in queste (nuove, immediate, incredibilmente definite) com'ero, cos'ero da ragazzina. Cosa cercavo, cosa vedevo attraverso il rettangolo. Mi piaceva l'idea di entrare nelle cose, non ho mai amato scattare ai paesaggi, ai tramonti, alle immensità. Io ero una da piccoli particolari, cercavo la simbiosi con il primissimo piano, quando non addirittura col dettaglio: le venature del legno, il colore di un occhio, uno solo. Un pezzo di animale, non l'animale intero. Sembra che questa volta l'angelo della manualità apprezzi, visto che non coinvolgo lui in prima persona (però gli ho fotografato i piedi mentre dormiva). Nelle mie ore di stanchezza la casa diventa un immenso tempio di particolari da fotografare, senza sforzo e a mente vuota. Il mio cuore e la mia mente fluiscono all'interno delle cose, della carta, della ceramica, del bronzo, e lì si fermano, in attesa di protezione. Direi che quasi si nascondono, perchè sta per arrivare un cambiamento, una nuova maturazione. Ancora poche settimane e uscirò dal bozzolo, ancora una volta.











domenica 6 ottobre 2013

Furto d'anime

In un post precedente - parecchio tempo fa, ormai - avevo accennato al fatto che mi spaventa quanto l'attuale "crisi" (e lo metto virgolettato perchè mi dà sempre più fastidio usare questo termine, diventato un modo di dire, assunto a capro espiatorio per giustificare tutto ciò che una volta ci saremmo vergognati di fare, degradando noi stessi, le nostre abitudini, i nostri rapporti umani sempre più aggressivi e basici) stia eliminando dalla nostra quotidianità tutto ciò che è superfluo. L'effettiva mancanza di liquidità in circolazione - e questo è un dato di fatto - unita ad una pressione mediatica fuori da ogni grazia divina mai vista prima, sta portando lentamente l'italiano medio, quello che io chiamo "l'uomo della strada", io, te, noi insomma, a realizzare che forse-tutto-sommato se ho una pagnotta in tavola (rafferma, magari), e due tute da ginnastica da intercambiare (quando ne lavo una, uso l'altra) posso sopravvivere comunque. So che c'è chi inorridisce a sentire certe cose, ma io sono e resto una consumista convinta, nel senso che credo fortemente che far girare l'economia (spendere, comprare, consumare) apporti benessere generale a tutti. Non mi piace sopravvivere e basta, proprio per niente. 
Ne parlavo qualche giorno fa con un mio Cliente, beh, diciamo che adesso è un mio Cliente, ma fino a quel giorno lì era Cliente di un Broker, il quale appoggiava a me le Polizze di questo signore. C'è la crisi anche per i Broker, evidentemente; non dico tutti, di sicuro ce ne sono ancora in giro di bravi ed onesti, ma molti finiscono per fregarsene degli interessi del proprio Cliente ed appoggiare le Polizze alle Agenzie che retrocedono aliquote provvigionali più alte, o, detto volgarmente, che sganciano più soldi, indipendentemente dalla bontà del contratto. E che il Cliente si arrangi, tanto se sceglie di andare da un Broker è evidente che non si leggerà mai le Condizioni contrattuali, perchè non ha tempo, o voglia, o perchè non ne è capace, e quindi in caso di dubbi io Broker posso sempre girargliela come mi pare. 
Questo Cliente invece non è poi così sprovveduto (o quanto meno ha delle impiegate in gamba, che sanno capire che se hai una Polizza degli anni Novanta quando la normativa relativa ai danni subiti dai dipendenti è già cambiata tre volte, forse è il caso di preoccuparsi), per cui ha buttato fuori a calci il Broker lavativo, e ha mandato tutte le disdette a me, incavolato come una bestia. Perso per perso, io sono andata a trovarlo (e l'appuntamento me l'ha dato, perchè sa chi sono e come lavoro), con il risultato che ci siamo professionalmente piaciuti un sacco, e probabilmente alla scadenza non solo manterrò tutte le Polizze, ma mi andrò a prendere anche quelle poche che il Broker aveva appoggiato a colleghi della concorrenza che scucivano più di me. Ma non abbiamo parlato delle sue coperture assicurative, proprio per niente: quelle andavano rifatte come si deve, alla svelta, e basta. Mica c'era tanto da discutere. Noi abbiamo parlato di arte, di artisti locali o meno, delle cose che ci piacciono, e di quel benedetto superfluo che fa muovere il mondo, visto che questo signore è un grosso, grossissimo imprenditore (molto noto dalle mie parti) nel settore dell'illuminazione e dell'oggettistica in vetro. Figuriamoci se non la pensa come me. Del resto c'è la crisi, possiamo stare anche con la lampadina che penzola giù dal soffitto direttamente dal filo, ma se ci attacco un bel lampadario di design mi si allarga il cuore e sono più contenta. E vado anche a lavorare più contenta, e sorrido, e non aggredisco la gente che mi rivolge la parola, solo perchè la frustrazione di un domani che non esiste sta prendendo il sopravvento. 
Io, poi, vado matta per i vasi di questo signore qui. Fa oggettistica che è una meraviglia, mille sfumature di ogni colore e dimensione in un'unica forma tutt'attorno nello show-room, un colpo d'occhio da fermarsi ore a fare foto. Io vado matta per i vasi in generale, devo dire, a casa ne ho sparsi dappertutto. Di ferro battuto, di terracotta, di vetro, smaltati, rivestiti di corda, addirittura di quelli fatti dai peruviani con le foglie masticate, pressate e poi verniciate. Alti e stretti, bassi e larghi. Chissà quale strano significato ci troverebbe un freudiano. Soprattutto perchè me li tengo là vuoti, quasi sospesi, pronti per accogliere, sostenere, esibire qualcosa che non arriva mai. Vasi superflui, bellissimi. Famiglie di vasi. Vite di vasi.
Perchè poi il punto è esattamente questo: la differenza tra sopravvivere e vivere. La differenza fra cibarsi, nutrirsi, o invece piuttosto assaporare, gustare. La differenza tra coprire il proprio corpo dal freddo e indossare un bel vestito. La differenza tra guidare la defunta Trabant celeste - che, poverina, a dirla tutta ti portava pure lei dal punto a al punto b - oppure una macchina vera (e neanche parlo delle super-auto di lusso, me ne basta una che abbia un bel suono quando la metti in moto, con le portiere che, chiudendosi, facciano un bel solido "floc" invece che un rumore di ferraglia; poi se dentro è un trionfo di pelle e radica mica mi fa schifo, eh). 
La differenza fra addormentarsi fissando una parete vuota oppure con un quadro appeso, un quadro bello, che ti piaccia, ti trasmetta qualcosa, ti emozioni, e ti faccia fare bei sogni. Questo sta facendo la "crisi" e, credo, purtroppo, chi la sta manovrando: sta uccidendo i nostri sogni! E io, per quanto mi riguarda, non ho alcuna intenzione di permetterlo. Perchè se lasciamo che muoiano i sogni, allora è finita, siamo destinati ad essere come le immagini dei cinesi di cinquant'anni fa: tante piccole marionette tutte uguali, vestite uguali, taglio di capelli uguale, stessi gesti, stessi percorsi, casa-lavoro-casa. Orribile. Io lo faccio spesso, il casa-lavoro-casa, mi stanco, mi sfibro, ma mai fine a se stesso. Lo faccio perchè ho dei sogni da realizzare, e finchè starò in questo mondo qui saranno i sogni da realizzare a muovermi, a spingermi, ad appassionarmi. Non voglio appiattirmi. Poi, nell'altro mondo, si vedrà.
Rimuginavo questa cosa della crisi e del superfluo giovedì sera, perchè siamo andati a Milano, alla Fondazione Matalon, dove il carissimo Marcello Scuffi inaugurava la sua nuova Mostra "Una questione di impegno". Per la prima volta, non ho avvertito la magia. Non è stata la solita festa. Eppure (ribadisco, vedendola ora per la seconda volta dopo la prima, quella di Armodio) la Fondazione è proprio uno spazio gradevole, tutta bianca, raffinata, minimalista, luminosa, così la puoi riempire come vuoi, di tanto colore oppure di non-colore, perchè si adatta a qualunque gesto. La parte al piano terra accogliente, fronte strada ma riservata, mai sfacciata come ci si potrebbe aspettare dalla Milano più modaiola; e poi il piccolo soppalco, intimo, vetro e travi in legno, fatto apposta per un mondo d'acquerello. 
La Mostra è bellissima, cos'altro potrei dire di più su Marcello che non abbia già detto... 
Sono sempre loro, i suoi soggetti, tanto mare, molte notti e molte lune stavolta, tante darsene rispetto ai treni o ai circhi, per mia gioia perchè adoro i suoi silenzi d'acque, comunque mai uguali; e qui posso tranquillamente bacchettare chiunque dica che dipinge sempre le stesse cose. Non scherziamo, per favore (vogliamo parlare un pochino di un tizio che di nome faceva Giorgio Morandi?). Io, un po' per caso e un po' per scelta, ho tra i suoi dipinti i vari soggetti, ma non fa differenza; potrebbero essere tutte darsene, tutte spiagge, e andrebbe bene lo stesso. Quelle dei primi anni Duemila, intense nel blu, con le vele molli a baluginare colori fortissimi - aranci, verdi, rossi - non sono certo uguali a quelle portate al Chiostro del Bramante, monocromi di grigio, pura grafite soffiata su lastre di marmo. O a certe, nuove, di Fiesole, con lampi di mattone e terra. Accantonato l'arcobaleno, mi sembra che negli ultimi mesi di ricerca pittorica Marcello si sia concentrato ancor di più sul supporto: queste tele milanesi sono particolarmente lavorate, graffiate, con tratti rapidi e scuri che ricordano macchie, o screpolature, ma sono solo errori nell'occhio di chi guarda, perchè la superficie è sempre lei, inconfondibile, liscia, unica. Si potrebbe comprare un quadro di Marcello Scuffi ogni anno, per avere una serie di anime diverse, tutte racchiuse sotto quella carezza di vetro, puro vetro soffiato senza mai asperità alcuna. E poi adesso ogni tanto ci fa spuntare qualche albero, cipressi solitari, verde intenso, nuovi colori che ritornano, prodromi di qualcosa che sta per mutare. 
Belli come sempre i suoi dipinti (di Marcello mi piace davvero quasi tutto, è rarissimo che un suo dipinto non mi coinvolga), eppure c'era questa tristezza che ci volteggiava sopra, e che ci portava dentro un po' di freddo. Gente che è arrivata alla chetichella, e che alla chetichella è andata via. Tanti astanti singoli, ma non un vero gruppo legato da amicizia o condivisione. Visi pensierosi, incupiti. Discorsi volanti colti qua e là, monoargomento: crisi e soldi, soldi e crisi. Non facciamoci rubare i sogni! Siamo nel tempio del superfluo, per i predicatori della crisi (cosa te ne fai di un quadro: non si mangia, non ti copre, non ti paga il mutuo, non ti fa andare la lavatrice), ma siamo nello scrigno della vita, per me! Lo scrigno della bellezza, l'attimo sospeso, il respiro del vivere, quel qualcosa che ci tiene uniti, che ci differenzia dall'animale, la capacità di nutrirsi - ma per davvero - di armonia, di piacevolezza. Nutrire l'anima, non solo la carne! Elevarsi da quel "livello zero" da marionette, perchè possiamo rinunciare ad una pastasciutta, per una volta, e non cambierà niente, ma non possiamo rinunciare alla serenità interiore, alla musica del silenzio, al bello, quello vero. 
Qua sul bello vero apro una parentesi, perchè non so se è per via della crisi o meno, ma stavolta Marcello non ha fatto incorniciare i quadri a Ristori, come a Roma e Fiesole, e si vede lontano chilometri. Mi è venuta una fissa pazzesca per le cornici, del resto vado perdonata perchè è una passione scoperta di recente, sono ancora nella fase tutta luccicosa come una quindicenne al primo amore (quando arriverò alla maturità romperò molto meno, promesso). Però sfido chiunque a fare un confronto: l'alluminio coi graffietti finti non è e non sarà mai argento mille, neanche al buio. Ce n'erano alcune che, da molto ma molto lontano, ricordavano quelle "pietrose" create per la Mostra al Bramante, e poi più da vicino, accarezzandole (bisogna accarezzarle, le cornici, con le dita! Sentire che cosa diventa il legno quando viene brunito a mano, con la pietra!), sembrava avessero sopra una pellicola di plastica, come una stampa adesiva. Va bene la crisi, ma scopiazzare è sbagliato, come a scuola. Io, che personalmente a scuola ero un tantino bravina, lasciavo anche che mi copiassero, purchè lo facessero bene: della serie, vi do qualche spunto, ma poi metteteci qualcosa di vostro. Già è una copia, perchè farla anche brutta? Non puoi copiare una giacca di Armani (sempre lì torno, del resto come fa le giacche Armani non c'è nessuno) e pretendere di rifare il modello con un tessuto acrilico triste, con le cuciture storte, o le finiture sbavacchiate a macchina; piuttosto vado in giro con un anonimo ma decoroso maglioncino. Infatti, dei quadri di Marcello, ho preferito quelli con il semplice listello bianco, e basta. Vestitino semplice semplice, come il grembiulino dell'asilo. Mancava l'abbraccio della cornice, ma andava bene, era come se il quadro chiedesse il tuo, di abbraccio: un quadro solitario e bisognoso di coccole. Proprio così: ognuno di noi poteva scegliere un quadro nudo, e abbracciarlo. Era un invito all'affetto. Alla faccia della crisi.

Ciak si gira

Io vi ho mentito, parzialmente. Anzi, più che una bugia è stata una voluta omissione, quando ho raccontato della mia esperienza romana alla Mostra di Claudio Cionini, del mio discorsetto tappabuchi davanti a tutti  i presenti, e ho detto che era andata meglio rispetto all'intervista con microfono sotto la faccia alla Mostra di Vincenzo Balsamo. In realtà, c'era stato un episodio intermedio: Giovanni Faccenda mi aveva intervistato con microfono sotto la faccia una seconda volta, anche alla Mostra di Armando Cheri, sempre al Bramante (si vede che è la location che crea un certo movimento); e io, memore della volta di prima, avevo evitato di farmi riprendere dal basso, ero stata infinitamente più sciolta, ormai il microfono non mi frega, ho capito come fare per evitare di mangiarmi mezze frasi. 
Indubbiamente aveva aiutato anche il fatto che tra il Chiostro di Balsamo e il Chiostro di Cheri fossero passati sette mesi, e quella sorta di soggezione-tremarella che mi prendeva quando avevo vicino il Professore dall'Occhio Blu, all'inizio della nostra conoscenza, ormai si era tranquillamente trasformata  in un rapporto tra due fratelli gemelli che si vogliono un bene infinito, e che se da un lato non prendono sul serio quasi nulla di quello che l'altro dice, dall'altro lato non riescono a fare a meno del suo parere. Ci canzoniamo a vicenda, a volte. Ci raccontiamo segreti inenarrabili. Ci copriamo le marachelle. Abbiamo bisogno di sapere, sempre, che l'altro sta bene, senza tanti altri inutili discorsi. Bene e basta. Gladiatori combattivi. Iper perfezionisti. Non lo so se siamo amici nel senso più profondo del termine, per certo siamo qualcosa, qualcosa che mi permette di mandarlo a quel paese se mi fa riprendere in video in un modo che a me non va, e di riderci poi assieme.
Comunque, c'è questo pezzettino di me tra le ore di girato per Cheri, e tra l'altro avevo addosso un gran bel vestitino, un tubino nero di maglina che fa vedere bene quanto ero dimagrita nell'ultimo periodo, con le curve al posto giusto (di solito non sono così vanesia, ma la sofferenza della dieta merita un minimo di ostentazione, a risultato raggiunto). Un pezzettino che ho solo io, un file nel mio computer, e basta.
Perchè su Cheri è successa una cosa curiosa. Eravamo negli studi Orler per non mi ricordo cosa, e parlavamo io, Giovanni Faccenda e Giuseppe De Luca, che definire il regista degli Orler è riduttivo: lui è l'anima tecnica di quegli studi. Aleggia ovunque, ma non in spirito, riesce a farlo in carne ed ossa, e poi tiene calmo Giuseppe Orler, cosa da non sottovalutare. Si parlava di questo dischetto della Mostra di Cheri al Bramante che andava fatto, e io ho buttato lì come niente fosse che tutto sommato si poteva provare qualcosa di diverso dal solito schema: Professore-che-parla, intervista-al-personaggio-famoso, intervista-al-personaggio-sconosciuto già vista nei video degli altri artisti targati Orler. Magari si poteva mettere il Professore in coda, ecco, e magari lasciare più spazio agli sconosciuti. Ma non con la classica intervista a microfono e la domandina "che emozioni ti suscita" che mi sa tanto da candidata a Miss Italia contro la povertà e la fame nel mondo. Un susseguirsi di visi, senza domande, solo impressioni, rapide, continue. E poi io ne avevo di roba pronta scritta, su Cheri, già usata per Trecose e altro, ma mai in video. Ora come ora non saprei dire se è stato perchè Giovanni aveva altro da fare, tra il C.A.M. e tutto il resto di quello che già fa (e quindi non gli è parso vero evitare un nuovo impegno), oppure perchè ha letto nei miei occhi la voglia di provare qualcosa di nuovo e diverso e l'ha fatto per farmi un regalo, oppure perchè l'aleggiante De Luca aveva già previsto tutto, fatto sta che il dischetto di Cheri l'abbiamo fatto io e Giuseppe, mandando in panchina il Professore.
Lo ammetto: era un'esperienza che mi mancava, ed è stato divertente, parecchio. Giuseppe è venuto a casa nostra (perchè con la scusa del video ci sono scappate un paio di seratine con pizza e risate che male non fanno, mai) per farmi incidere i testi, sulla base della scaletta che avevo preparato, ed è stato fantastico, soprattutto quando ha detto che erano scritti bene, e gli piacevano, tranne forse la parte iniziale in cui non si capiva cosa volevo dire realmente (peccato che la parte iniziale fosse una citazione papale papale dal testo di Giovanni pubblicato nel Catalogo della Mostra). Dopodichè, una volta scaricato e ripulito tutto il girato - operazione che si è sobbarcata tutta lui, che aveva fatto le riprese, e sapeva quindi come ridurre a una mezz'oretta abbondante le iniziali tre ore di misto Roma - ci siamo chiusi in cabina di regia un'intera mattinata per il montaggio. Non so cosa pensasse di me Giuseppe De Luca prima di quella mattinata; di certo so che, dopo, si era guadagnato un posto in prima fila in Paradiso. Mio marito mi aveva accompagnato, e mi ha lasciato lì con un mezzo sogghigno, invece delle solite battutine che di solito si presume si scambino due maschietti quando uno dei due consegna l'unica donna presente all'altro. Lui mi conosce bene, e ha guardato Giuseppe con una faccia che era tutto un programma, prima di allontanarsi sognante e felice di aver ceduto l'aureola della sopportazione, foss'anche per una sola misera mezza giornata (lasciare mio marito libero di scorrazzare in un giorno feriale nel magazzino incustodito degli Orler è estremamente pericoloso per i nostri conti correnti bancari; devo dire però che adesso abbiamo una carta di Licata del 1974 da far invidia). 
E' stato bellissimo. Non ero mai stata dentro una VERA cabina di regia, lo dico volutamente in modo infantile, con tutti quei pulsanti, quelle levette e quelle lucine. Praticamente hai davanti un grosso computer su cui metti giù le varie tracce: il video, l'audio di sottofondo (le musiche) e l'audio normale (i miei brani e la gente che parla), e ci smanetti sopra in modo che tutto combaci. Giuseppe De Luca fa questo lavoro da una vita, ed è una persona dolcissima: mi voleva spiegare i vari trucchetti, dove è meglio fare le dissolvenze, come usare i fotogrammi bianchi, ma io avevo già in mente come volevo venisse fuori, e ho cominciato a stressarlo fin dai titoli di testa, con una precisione e una meticolosità che - dopo qualche ora - nemmeno il mio miglior sorriso riusciva a mascherare. Infatti adesso Giuseppe ha qualche capello bianco in più di prima. Ci eravamo ritagliati mezza giornata dai rispettivi lavori per l'intero dischetto, e dopo mezza giornata eravamo esattamente a metà, infatti la seconda parte l'ha montata da solo, peccato. Mi sarebbe piaciuto finirlo insieme, ma mi rendo conto che mettevo a repentaglio la mia sopravvivenza, in cabina di regia ci sono anche oggetti acuminati. Però ho scelto tutte le musiche! Che poi sono due brani di George Harrison, che io adoro (lui e i brani); mi piace questa idea di associare l'opera di Cheri, che si fonda su qualcosa dato dalla terra, profondamente intriso di Madre Natura, alla musica ed al messaggio di un artista che, nell'ultima parte della vita, aveva riscoperto esattamente quel messaggio. Brani che parlano di amore, di bellezza, di fiducia e di divino. Quando il video è stato mandato in onda, durante l'ultimo Speciale dedicato a Cheri, Dario Olivi ha chiesto chi avesse scelto le musiche, e mi è parso che l'accezione della domanda non fosse positiva (a me dispiacerebbe, perchè tengo visceralmente al parere di Dario), ma io insisto: c'era tutto un ragionamento dietro. E poi è stata una prima volta, ci affineremo se ci saranno altre opportunità. L'unico neo è che o leggo i miei testi o appaio nel video: non entrambe le cose, altrimenti si crea una sovraesposizione fastidiosa, qualcuno potrebbe pensare male, come minimo mi becco della prezzemolina come le ospiti di Mediaset. La mia intervista quindi, con il mio pensiero sulle mani di chi lavora il legno, sul flusso di "storia-pietra-legno", sui colori caldi, sulle resine, e tutte le altre cose che avevo detto sbattendo gli occhioni davanti alla telecamera, rimane in quel piccolo file nel mio computer. Giusto un ricordo privato. Per il pubblico, invece, sta già andando in onda su Orler TV il primo figlioletto mio e di Giuseppe De Luca, che se mai riuscirò a capire come si fa inserirò anche qui su Trecose, per quella condivisione che resta pilastro fondamentale di tutto ciò che amo in questo mondo.

sabato 28 settembre 2013

Oggi parla.../15

... Oscar Wilde:

"In questo mondo ci sono soltanto due tragedie. Una, non ottenere ciò che si desidera. L'altra, ottenerlo"


Di solito non mi entusiasma l'idea di mettere due "Oggi parla" uno dietro l'altro; intendo, è il mio blog, preferisco essere io a parlare, e poi, occasionalmente, saccheggiare il web per dare arguti spazi a pochi selezionatissimi eletti. Però ieri ho riflettuto per tutto il giorno su una conversazione che era iniziata alla mattina con una persona a me particolarmente cara, una conversazione che - tra le altre cose - riguardava esattamente questo: la mia naturale calamita per le delusioni emotive. Normali, tra l'altro, se si pensa che io sono sempre quella del post "Six weeks ago" (ed è passato già un anno!), quella che brucia, corre e travolge. 
Alla sera, quindi, mi sono seduta davanti a Trecose cercando una citazione che riguardasse le delusioni, la fiducia malriposta o qualcosa del genere, e sono stata incerta fino all'ultimo perchè Maslow è Maslow, che diamine, non esiste una sola professione che abbia a che fare con la vendita e la gestione di persone (figuriamoci quando la professione in questione riguarda molto da vicino entrambe queste cose) in cui prima o poi non ti arrivi un corso di formazione con la sua piramidona schiaffata in bella mostra sulla lavagna a fogli mobili. O luminosa, per i più evoluti. Maslow e la sua simpatica faccia tonda, che in fondo su molte cose aveva ed ha tuttora ragione da vendere, anche se come sempre una cosa è la teoria e altra cosa è la pratica, attraverso i secoli. 
Quando, una decina di anni fa, è finita una delle mie più importanti amicizie maschili recenti, quindi diciamo non finalizzata allo scambio di figurine ma di idee, di sensazioni, di condivisione del mondo, ed io proprio perchè parliamo di gente dotata di un notevole cervello ho anche avuto la bella pensata di esternare la mia delusione al soggetto in questione, mi sono sentita rispondere che era colpa mia, perchè forse-diciamo-forse "me ne ero costruita un'immagine troppo alta". Ah, Maslow e le sue illusioni! 
Tuttavia, Oscar Wilde giganteggia tra gli amanti delle citazioni, ed averlo scartato mi ha fatto dormire sonni agitati. Quando Wilde sentenzia io mi inchino, a prescindere. Perchè se nove volte su dieci la delusione viene effettivamente, come dice Maslow, da un nostro modo errato di rapportarci all'"altro" (filtrandolo attraverso il nostro essere, e quindi non comprendendolo come realmente è, nei pregi e nei difetti), è pur sempre vero che una volta, una sola volta ogni mai l'"altro", quando ci arrivi, è davvero un completo idiota. Oppure un gran bugiardo. O un opportunista, e tu ci hai perso dietro mesi di affetto e fiducia, senza colpa.
Allora, ecco, un nuovo "Oggi parla", anche se troppo vicino e troppo simile al precedente, evidentemente l'argomento mi tocca davvero dentro, chissà se sono la sola. La sola che, puntualmente, ogni sei o dodici mesi si becca il pugno nello stomaco, perchè si fida troppo della gente, o, come dice Maslow, dell'idea che lei si fa della gente, un'idea che le impedisce - a volte - di "vedere" le cose come stanno. La sola che, anche se lo sa, ogni volta riparte da zero e si butta, perchè il solo pensiero di essere finta, calcolatrice, o peggio ancora costantemente prevenuta e sospettosa la ripugna. Meglio essere considerata ingenua, dopo tutto, e dare, dare, dare, senza aspettarsi di ricevere e basta. La sola che, a causa di questo, ha una piccola, piccolissima e nascosta "zona d'ombra" che è sua, solo sua, dove si rifugia con quei medesimi occhi stralunati e lo stesso broncio quando qualcuno sta arrivando troppo vicino alla parte più sensibile del cuore. Che poi è un po' un controsenso, perchè di solito chi fa finta o è superficiale non ci tiene per niente ad arrivare fino a lì; e a chi ci tiene davvero sarebbe il caso, invece, di credere sempre. 
Mio marito ha visto la mia "foto arrabbiata", e da gran uomo di mondo qual è ha mi detto che, sotto sotto, la smorfia delle labbra sembra sì, arrabbiata, ma gli occhi no. La bocca è una bocca da bambina, imbronciata e basta, ma lo sguardo fulmina. Lo sguardo è adulto, è una sfida, non trasmette rabbia, trasmette grinta. Perchè all'epoca non mi ero ancora riempita delle (pur giuste) teorie di guida e motivazione, di selezione e formazione, di piramidi dritte e rovesce; all'epoca c'era solo l'istinto primigenio, quello che ti trasmette una cosa sola: che sia nel lavoro o nella vita, se qualcuno delude, se qualcuno tradisce, dopo anni, la tua fiducia e la tua sincera amicizia, chi sbaglia è lui.  

venerdì 27 settembre 2013

Oggi parla.../14

... Abraham Maslow:

"Per non soffrire delusioni nei riguardi della natura umana, dobbiamo cominciare col rinunciare alle nostre illusioni rispetto ad essa"













Arrabbiata.
Eraclea Mare (VE), 23/06/1969

Elettricità nell'aria

11/09/2013
Benvenuto nel Servizio Clienti Enel Servizio Elettrico, che opera sul mercato di maggior tutela.
Buongiorno, devo far attivare un nuovo contatore.
Buongiorno a Lei, è un privato o una Società?
Sono una Ditta individuale.
A cosa è adibito l’immobile?
Ad Agenzia di assicurazioni.
Benissimo Signora, guardi: in caso di Cliente con Partita IVA non è possibile attivare il contatore automaticamente con la sola telefonata come con i privati. E’ necessario che ci invii un fax al Numero Verde 800.900.150 indicando il numero riportato sul contatore da attivare, l’ubicazione del contatore, la tensione di cui necessita, la potenza in KW di cui necessita, l’indirizzo dove spedire la documentazione (contratto, fatture e quant’altro) unitamente ad un documento di identità del Titolare.
Tutto qui?
Certamente; nell’arco di 4-5 giorni lavorativi verrà contattata per l’allaccio.
Allora grazie.
Grazie a Lei e buona giornata.
19/09/2013 - mattina
Benvenuto nel Servizio Clienti Enel Servizio Elettrico, che opera sul mercato di maggior tutela.
Buongiorno, vorrei per cortesia verificare lo stato di una pratica relativa ad una nuova utenza, perché ho inviato il fax di richiesta otto giorni fa ma non ho ancora la corrente, mentre la sua gentile collega mi parlava di 4-5 giorni.
Certo, controlliamo subito, mi dà cortesemente il numero di istanza?
Scusi? Io non ho nessun numero di istanza, mi è stato solo detto di fare un fax…
Mi dia allora il numero Cliente.
Non credo di avere neanche quello, visto che è una pratica nuova…
Il numero Cliente è il numero che sta scritto sul contatore.
Ah! Bastava dirlo. Allora quello ce l’ho.
Guardi, a questo numero non corrisponde nessuna pratica aperta.
Ma scherza? Ho fatto il fax oltre una settimana fa.
Ma quale fax? Se mi ha detto di non avere il numero di istanza!
Infatti, io non ho numeri di istanze. Ho telefonato a questo stesso Numero Verde, e mi è stato detto di fare un fax all’800.900.150 scrivendo il numero del contatore, la potenza, la tensione, gli indirizzi di…
No, guardi, la procedura non è questa, assolutamente.
Ma cos’ho parlato, con uno che vi stava consegnando le pizze? Lasciate i telefoni incustoditi?
Non saprei dirle Signora, magari con uno che stava facendo le pulizie… No, davvero, mi scuso moltissimo, ma le sono state date informazioni errate. La pratica gliela apro io al telefono, poi le invio via mail l’istanza che Lei mi deve rimandare compilata e firmata al Numero Verde 800.900.899, e non a quello che ha detto Lei, e poi da quel momento partono i 4-5 giorni per l’attivazione. Mi dispiace moltissimo se le abbiamo fatto perdere tempo.
Beh, anche a me a dire il vero, visto che ho la corrente del cantiere e il proprietario mi rompe le scatole tutti i giorni per sapere quando la può staccare; e poi mica mi sarò sognata l’altro numero di fax, o no? Comunque non importa, procediamo come dice Lei.
Bene, mi dia allora i dati del contatore, numero e ubicazione, la potenza, la tensione, il Suo codice fiscale, la Sua Partita IVA, e un indirizzo mail. Guardi, in teoria avrei 24 ore di tempo per farle avere la mail, ma visto il disagio che le abbiamo arrecato gliela mando subito.
Lei è molto gentile. Speriamo bene. Grazie e arrivederci.
19/09/2013 – tardo pomeriggio
Benvenuto nel Servizio Clienti Enel Servizio Elettrico, che opera sul mercato di maggior tutela.
Buonasera a Lei, questa mattina ho inviato via fax un’istanza per l’allacciamento di una nuova fornitura uso ufficio. Ho appena ricevuto una mail in cui mi si dice che ci sono delle incongruenze, potete verificare per cortesia?
Certamente Signora, verifichiamo subito. Sì, in effetti ci sono due incongruenze: una riguarda l’ubicazione del contatore, che a noi risulta in una via diversa da quella che ci ha indicato Lei nell’istanza.
Perché a Voi risulta la via di quando l’area era un enorme spiazzo deserto in mezzo ai campi, adesso è stata tutta lottizzata, c’è la stazione della metropolitana di superficie, dodici condomini, quattro supermercati… Sono state rinominate un sacco di vie nuove.
Però Lei mi doveva scrivere quella vecchia; la modifica si potrà fare solo dopo un mesetto, con una verifica comunale.
Magari se la sua gentile collega me l’avesse detto, l’avrei fatto! Sull’istanza c’è scritto solo “immobile sito in via…” ed è ovvio che io metto la via attuale, cosa ne so delle vostre cose… E il secondo problema?
Qui mi scuso, Signora, ma ha sbagliato la collega che ha inserito l’istanza, Signora. Può capitare a tutti, Signora, di sbagliare. Ha messo la Partita IVA al posto del Codice fiscale e viceversa, così non si è agganciata al suo fax ed è andata scartata.
Va bene, ma non potete correggere adesso?
No, mi dispiace, Signora, non si può. Questa istanza qui verrà automaticamente rigettata, gliene devo aprire un’altra con i dati giusti, così mi sistema anche l’incongruenza della via, si ricordi di indicarmi il nome della via vecchia.
Ma sono le sei di sera, abbiamo perso un altro giorno!
Mi dispiace, Signora, ma per la Carta Servizi abbiamo tempo 24 ore per inoltrarle la nuova istanza, e poi 4-5 giorni dal  ricevimento dell’istanza compilata.
Lo so, purtroppo, lo so a memoria. E’ che ho sentito dire cose folli sui disservizi e sui tempi di attesa dei traslochi delle linee Telecom, mentre con l’Enel non pensavo, tra l’altro una nuova apertura, già tutto pronto… Adesso comincio ad avere un po’ di paura.
Io intanto le auguro una buona serata, Signora; se vuole cortesemente rispondere al questionario di gradimento, ha parlato con Giusy.
24/09/2013
Buongiorno, siamo i Tecnici di Enel. Volevamo avvisarla che il suo contatore è stato attivato.
Davvero? Benissimo, grazie, adesso avviso subito il proprietario dello stabile così scollega quel suo stramaledetto ponte e la smette di pensare che stia facendo apposta a temporeggiare solo per fregare la corrente a lui.
26/09/2013
Pronto Dottoressa buongiorno, mi scusi se la disturbo, sono l’Architetto del Centro Direzionale. Abbiamo controllato i contatori. Non so con chi abbia parlato Lei, ma volevo avvisarla che al suo contatore la corrente non c’è.

domenica 22 settembre 2013

Roma, esordio




E così, alla fine non me la sono bruciata per niente, anzi. 
La pubblicazione sul Catalogo della Mostra di Claudio Cionini, parlo di quella, della quale avevo accennato proprio qui su Trecose il 28 Giugno scorso ( http://trecose.blogspot.it/2013/06/anime-dacqua-e-cemento.html ), tutta presa com'ero dalla fibrillazione di aver incontrato un nome nuovo tra quelli di cui io sono perennemente alla ricerca: pittori che ancora sappiano dipingere, e dipingere bene, con i colori ed un qualche supporto (che sia tela, tavola o carta a me non importa) purchè non contempli l'uso di strane plastiche, fili, luci o qualsiasi altra cosa iper-contemporanea, concettuale e/o intellettualoide. Pittori degni di questo nome in quanto Maestri-di-Pittura. Persone senza età - ne ho conosciuti di giovani, di vecchi e di mezze vie - che ancora si emozionano quando ti spiegano cosa "vedono", cosa "sentono" quando passano il pennello, intriso del loro colore e della loro anima. Cosa sentono prima di iniziare e cosa sentono dopo aver finito. A chi pensano durante, magari. Come nell'amore, perchè dipingere è esattamente questo, per loro: un gesto d'amore. 
Cionini, poi, tra questi, è doppiamente interessante perchè lavora con Franco Ristori, che è una persona straordinaria dentro e fuori: uno che, quando me ne parla (cosa che avviene spesso), insiste affinchè io capisca che il "suo" ragazzo è bravo, ma proprio bravo, perchè è quello l'importante, e non quanto vale il quadro. O quanto varrà. O peggio ancora, quanto varrà la misura di quel quadro. Uno che ancora adesso, dopo anni e anni di quadri acquistati e venduti, potrebbe strafregarsene del soggetto, della tonalità di fondo, del grumo di materia che cola piuttosto che della superficie liscia, perchè in fondo l'importante è che le opere "vadano", e invece ancora mi confida che vorrebbe chiedere a Claudio di dipingere più quadri con il cielo, perchè il cielo di Cionini è così vasto e così libero, e a lui piace tanto (magari non sa scrivere esattamente con le parole PERCHE' quei cieli così immensi e tersi gli piacciano tanto, ma glielo si legge negli occhi e nell'entusiasmo che ci mette, e nella maniera disarmante con cui lo dice, cioè esattamente così: "mi piace tanto"). Investe una barca di soldi, e poi pensa solo al respiro del cielo. E' un poeta, un poeta coi calli alle mani, ma per me lo è, e mi commuove.
Insomma, ieri c'è stata l'inaugurazione della Mostra di Roma, prima esposizione per il talentuoso toscano al di fuori della sua regione; esordio direttamente nella Capitale, diciamo che è un bel passo, di quelli da fare trattenendo il fiato, come quando sei fuori dell'aula d'esame e ti chiamano. Respiri a fondo, vai e ti giochi tutto. 
Ho detto che l'inaugurazione è stata ieri, per cui è evidente che per un po' sarà aperta al pubblico, quindi ecco bell'e pronto un messaggio neanche tanto subliminale per chi fosse nelle vicinanze di Roma: andateci, punto. E' anche gratis (un utile inciso per i meno spendaccioni, anche se prezzare l'arte è cosa che mi fa un pochino di ribrezzo e mal di stomaco). 
La location mi ha sorpreso da morire perchè non sapevo nemmeno che esistesse: la Biblioteca Angelica è un piccolo scrigno semisconosciuto di tradizione e cultura giusto in un angolino a nordest di Piazza Navona. A parte la zona adibita a Galleria per esposizioni, è davvero una Biblioteca (e dirò di più, una delle più antiche d'Italia, la prima in Europa ad aver aperto al pubblico, come recitano orgogliosamente nel sito), non un modo di dire. Biblioteca, quindi LIBRI, libri antichi, con il loro polveroso sapere tramandato, le legature di una volta, i dorsi affiancati stretti uno all'altro per metri, metri e metri all'insù, sotto un'unica volta a perdita d'occhio di scaffali, e scale, ed eleganti etichette, e storia. 
Silenzio e libri. Fruscii e libri. Sospiri e libri. 
Mappamondi sferici artigianali, di quelli che si chiamavano ancora così e non - come adesso - "globi digitali" che mi fa una pena da purè di ospedale (un'altra volta, forse, racconterò della mia smodata e viscerale passione per i mappamondi, soprattutto quelli sferici, e dei miei voli infiniti con la mente con cui occupavo ore ed ore da bambina per immaginare Paesi sconosciuti e nuove culture), e libri. Tutto quello che basta, quindi, per far andare fuori di testa ME. Un libraio mi dovevo sposare, non un idraulico. Al limite un tipografo, di quelli bravi.
Sotto alla Biblioteca, in pieno viavai pedonale caciaroso-turistico-romano, c'è la Galleria. Bianca. Illuminata. Nè grande, nè piccola: giusta, a misura d'uomo. Ti vien voglia di buttare l'occhio dentro anche se non sai con esattezza cosa sta succedendo, infatti parecchi turisti sono entrati a curiosare. Io ho fatto carognamente un paragone mentale con le esposizioni viste al Chiostro del Bramante (parlo dei miei amici viventi, non delle Mega-Mostre istituzionali, eh, siamo su due pianeti diversi), dove devi chiedere un mutuo in Banca anche per affittare solo l'Umida Cripta, non parliamo dei piani alti. Per carità, il Chiostro è il Chiostro, non voglio sembrare pazza con paragoni azzardati, ci mancherebbe. Però lì l'ingresso o lo conosci o lo eviti, mentre qui ti entrano a frotte volenti o nolenti, tanto è di passaggio (è il ragionamento che ho fatto io quando mi sono decisa a cambiare Ufficio: se Maometto non va alla montagna è la montagna che deve mettersi sulla strada di 'sto benedetto Maometto, soprattutto se la montagna grazie ai soldi di Maometto ci campa, non so se rendo il concetto). E tutto sommato costa molto meno di un appartamentino per sei a Jesolo in piena stagione, pur essendo esattamente a quattro minuti a piedi dal Bianchissimo Bramante.
Sapevo già cos'avrei trovato, sapevo del nuovo ciclo di opere dell'artista dedicato per l'occasione a Roma, alle sue Vie, alle sue Piazze, ai suoi verdi improvvisi, ai suoi giochi di bianco e di mattone. Sapevo dell'imponente Catalogo, visto che, appunto, uno degli scritti pubblicati è il mio "Anime d'acqua e cemento". Un Catalogo che non si limita alla Mostra in corso, ma che - giustamente, visto che stiamo parlando del famoso bel passo, quello con il respiro trattenuto - ripercorre l'evoluzione dei lavori di Cionini, le prime città che ha amato, quelle dei suoi viaggi, le sue prime fabbriche, gli altiforni, con quelle pennellate dense e scure, diverse dalle odierne, diventate più eteree, più libere. E la sezione con i disegni su carta, bellissimi, inaspettati. 
Un Catalogo con un pezzettino adesivo sopra i nomi degli autori dei quattro contributi scritti, perchè l'ordine alfabetico va bene per i ringraziamenti e le collaborazioni, ma non certo per chi ha scritto i saggi, altrimenti finisce che l'emerita sconosciuta con il cognome che comincia per B sta davanti al curatore, che ha il cognome che comincia per F, che sta davanti all'Illustre Professore (già Capo Dipartimento al MIBAC) che ha il cognome che comincia per I, che sta davanti al Senatore della Repubblica Italiana col cognome che comincia per N. Esattamente a rovescio di come deve essere politically correct, insomma. Però io so che una piccola, piccolissima scorta di Cataloghi non ce l'ha, l'etichetta adesiva dell'ultimo minuto, e quindi mi sono fatta mettere da parte una di quelle copie, per quel mio pizzico di vanità femminile che non guasta (e poi vuoi mai che il giovanotto un giorno diventi pure artista megamiliardario, i Cataloghi con lo svarione varranno un sacco, come il francobollo rosa di Gronchi che va in visita in un Perù con i confini sbagliati).
Queste erano le cose che sapevo. Quello che non sapevo, e che ho saputo mentre andavo a Roma in Frecciargento (il solito mio Frecciargento, con il condizionatore che ti congela il braccio destro mentre il sinistro suda, con i due americani con i sedici trolley da trenta chili l'uno, con l'allegra famigliola cinese che mangia la specie più rara di super-cipolla-odorosa alle dieci di mattina, quello che nonostante tutto io continuo ad utilizzare perchè ultimamente ci passa la mia vita), era che il curatore con il cognome che comincia per F si era beccato un febbrone da cavallo in proporzioni variabili, ed era spiaccicato a casa. E quindi nella scaletta degli oratori si era formato un buco, ma non un buchetto da niente: una voragine, viste le capacità affabulatorie del mio carissimo Giovanni, che qualcuno doveva necessariamente riempire. 
Quel che si dice il destino. L'ho saputo che eravamo appena a Bologna, quindi ho avuto tutto il tempo di lasciar maturare l'iniziale ed istintivo "no, io no, non me la sento" in un "però, se proprio serve", fino al definitivo "sì, lo faccio". Il tutto tra il rollio dei binari, e il fido scudiero che mi faceva triste memoria della mia intervista in occasione della Mostra di Balsamo (giro canale ancora oggi, a distanza di un anno, per la vergogna). 
Il treno aiuta certe decisioni, dopo tutto eravamo in tre e stavamo andando a Roma apposta a vedere una Mostra di Claudio Cionini: Mostra, cena, nanna, e poi via a casa di nuovo. Perchè? Cosa ci spinge? Cosa ci piace di questo giovane, esile, timidissimo ragazzo di Piombino che ha fatto sue Parigi, New York, Londra, Roma, Berlino (Berlino soprattutto, la SUA Berlino, dove il gesto d'amore è diventato amore nei gesti) per farcele vedere come non le avevamo viste prima - inondate di sole, specchiate di fitte piogge, madide di nebbia, rincorse dal vento?  Diciamolo tra di noi, con parole nostre, come tre amici in treno (in effetti eravamo tre amici in treno), non con il ricchissimo vocabolario degli addetti ai lavori, dei Capi Dipartimento, o dei Senatori, o di chi per loro. 
Questo è venuto fuori, e questo ho detto a chi era lì ad ascoltare, senza neanche che mi tremasse la voce più di tanto. Claudio Cionini piace (posto che piaccia il soggetto di un pittore metropolitano, altrimenti andiamo tutti a vedere i fiorellini o i cavalli) perchè lui E' nelle sue città. Raffigura città VERE, effettivamente esistenti e riconoscibili (non un'idea vaga, un'ipotesi, un abbozzo di città qualunque), ma ci mette un pezzetto di sè e della sua storia in ogni pennellata: la storia che lo ha legato, lo lega a quello specifico skyline, a quei muri, a quei viali. Città che sfuggono via, vuote ma contemporaneamente caotiche, tenute insieme solo da un istante d'anima di Claudio, e senz'altra presenza umana che non sia la sua, aleggiante. 
Ho detto "istante" perchè ISTANTI è il titolo della Mostra (che si sposa con quel "Under the skin of images" che altro non è che la traduzione inglese del titolo del saggio di Giovanni Faccenda, dopo tutto eravamo a Roma e un quid di internazionale ci vuole), scelto di getto tra una ventina di sostantivi, mentre li sciorinavo come acqua di torrente che gorgoglia sui sassi, evocativi, così come venivano fuori mentre mi immaginavo a passeggio sotto uno dei suoi famosi cieli. Istanti intesi come attimi, come momenti eternizzati dai suoi occhi per i nostri occhi, ma che anche - per la sonorità della parola stessa - richiamano certe istantanee, quei rapidi scatti fotografici che a volte spuntano all'improvviso fuori dai cassetti delle case che hanno vissuto gli anni Settanta. Quadrati gonfi, dapprima bruniti appena dal tempo, come certe visioni di Roma, mura eterne chiazzate da muschi, ed infine bluastri, il viraggio ormai quasi viola, come l'asfalto umido delle metropoli. Nel grande e nel piccolo, perchè questa è un'altra cosa che mi piace di questo ragazzo: non si fissa come una cozza sulle misure, come fanno tanti giovani pittori che, dal momento che hanno coefficienti bassi, per guadagnare di più dipingono solo quadri giganteschi, impossibili da piazzare a meno che tu non sia il proprietario di una Banca tutta da arredare (ma allora compreresti altri nomi, tra i già storicizzati, mi sa). Lui sente dentro il grande, e allora vola sui cieli di Parigi, ma avverte anche il piccolo, e ti accompagna attraverso il rosagrigio di un vicolo, sotto quegli stessi imponenti palazzi, che hanno una storia che affascina anche dal basso. Quadri tutti diversi pur nel soggetto simile, tant'è che ognuno di noi presenti (noi veneti, noi toscani, noi laziali, noi campani) ha sentito affinità profonde con opere differenti da quelle del proprio vicino di sguardi.    
Questa sono io, senza grandi parole: parlo solo di chi mi emoziona, scrivo solo di chi mi emoziona, e ieri sera ero molto, molto emozionata. Tra l'altro, mentre ero tutta concentrata nel seguire i dettami del mio docente di public speaking, tipo non ondeggiare, non gesticolare, parla lentamente, più lentamente, ancora più lentamente o finisce che li spaventi, mi sono resa conto di essermi concentrata su un quadro che avevo davanti, e di non aver guardato le persone presenti come invece si dovrebbe fare ("tecnica dello sguardo a faro" si chiama, prima o poi arriveremo anche a quello, del resto dalla volta di Balsamo sono migliorata parecchio). Mi sono persa - mi dicono - un tenerissimo Claudio Cionini che, mentre l'emerita sconosciuta con il cognome che comincia per B andava a braccio, annuiva e sorrideva , sorrideva ed annuiva, perchè questo è il bello dell'arte, e sempre alla "mea" torniamo, come nel nascondino, ripetendolo all'infinito: condividere un'emozione. Tradurre, chi in parole, chi in scrittura, chi col pennello, chi semplicemente con la propria presenza, un "sentire" comune, un "vedere" comune.
Una serata che non dimenticherò facilmente, è evidente; una serata che mi ha visto molto felice e particolarmente elettrizzata, tanto avrei fatto fatica a prendere sonno in ogni caso, considerando il caos notturno del centro di Roma (praticamente puoi toglierti le mani dalle orecchie solo dopo le quattro, ma alle sei già arrivano quelli che spazzano le strade). Ma a Roma si finisce per perdonare di tutto, perchè il suo caos è vita: vita nella folla di Piazza Navona brulicante di voci e visi dal mondo, mentre avanzi con quel tipico passo sgusciante che tanto mi ricorda le nostre calli durante il Carnevale. Vita nell'aria frizzante del mattino presto, in quella stessa Piazza che diventa di colpo doppiamente immensa nel vuoto, tutta bianca tra le braccia del sole che la accarezzano lievi per un primo tepore, che appena appena raggiunge le vie circostanti, grigie, ancora infreddolite e dalle serrande chiuse e stanche. E' vita cenare tra amici, con quel qualcosa di speciale che ti scalda dentro, mentre scopri per la prima volta quale incredibile delizia sia la pasta cacio-e-pepe, e ti rendi conto a bruciapelo di quanto ti mancano i due spaghetti fatti al volo da Lionello Briganti.

domenica 8 settembre 2013

Sottosopra

Abbiamo i muri di casa ridotti ad un groviera, dopo appena quattro anni scarsi. 
Rispecchiano la mia emotività. 
Non potendo - per ovvie ragioni economiche - cambiare continuamente i quadri (nel senso di vendere e ricomprare), finisce che li cambio di posto tra loro, spesso, spessissimo, più volte l'anno. Quindi abbiamo pareti mutevoli, come l'umore. Pareti stagionali: in salotto un tripudio di colori caldi, rossi, aranciati, quando ci scrolliamo via l'inverno dalle spalle, come cuccioli di cane dopo un tuffo inatteso. Venature di blu, lunghe lingue di bianco, quando ci bussa il freddo, e siamo quei gatti placidi e sinuosi che si lucidano il pelo prima di acciambellarsi nel loro trono. 
Ammetto che con i tappeti è infinitamente più semplice, ma proprio per questo il gusto finale è diverso, meno appagante. Si pulisce e si arrotola uno, si distende al suo posto un altro. Operazione che mi piace, per carità, soprattutto ora, quando mettiamo in letargo la distesa di neve persiana, appena appena cosparsa di delicati ricami di seta azzurra (elegante e raffinata, ma silenziosa, non dà confidenza agli estranei), e salutiamo il ritorno di qualche esemplare caucasico colorato d'autunno, così geometrico, irregolare, forse imperfetto ma proprio per questo con una lunga storia da raccontare. Ma con i quadri è tutta un'altra musica, perchè devi VEDERE con gli occhi della mente quale sarà il risultato, devi SENTIRE con gli orecchi del cuore cosa ti sta dicendo l'opera, perchè sarà lei che ti troverai davanti entrando in casa dopo una giornata passata a parlare di assicurazioni, e non è la stessa cosa se la vedi, piuttosto, aprendo gli occhi al mattino, o uscendo dalla doccia avvolta nella nebbiolina. 
Parete diversa, anima diversa. 
Così va a finire che chi viene a trovarci pensa sempre di vedere cose nuove, e invece sono bene o male sempre le stesse, in posti differenti. Mio marito tira di quei sospironi infiniti, quando comincio a fissare una parete con aria tra il dubbioso e il fantasticante: sa già che deve scendere di sotto in garage e tirar su il trapano, i tasselli e tutte quelle altre strane diavolerie che permettono che la magia continui. Ormai non aspetta neanche che  glielo chieda: mi guarda e capisce, e ogni tanto mi ricorda prosaicamente che a breve sarà necessaria una nuova mano di stucco e pittura. Figuriamoci adesso che sto riscoprendo l'importanza dei vestiti giusti per i quadri! Cambi una cornice e il quadro non sta più bene dov'era, ma proprio per niente, non sembra nemmeno più lui. Altro che cambi d'umore: un quadro con o senza la cornice giusta è come una stanza con la luce accesa oppure spenta. E’ la differenza che passa tra un animale vivo ed uno imbalsamato: la forma è la stessa, ma a uno dei due manca la scintilla. La cornice è la scintilla che dà la vita al quadro. E’ la lampadina accesa. E’ un’orchestra intera che suona all’unisono, dentro la mia testa. E allora via con nuovi buchi, prima o poi comincerò seriamente a valutare l'idea di forare il soffitto, così me li guardo mentre dormo.
Oggi è domenica; una domenica di settembre è un bellissimo giorno per spostare quadri. Per riflettere e discutere di pittura. E di armonia, soprattutto di armonia oggi, perchè ci è cascata addosso all'improvviso, come pioggia, spostando quadri astratti. Perchè uno, superficialmente, può pensare che un quadro astratto non abbia un suo verso, un suo dritto/rovescio, un suo sopra/sotto. A me piacciono tendenzialmente i quadri stretti e lunghi, verticali, ma è evidente che una barca è una barca, mica la poi piantare a testa all'insù. Con l'astratto potrebbe sembrare diverso: ho una tela di Vincenzo Balsamo tutta calda, sprazzi di luce, geometrie incrociate fra di loro come campi di grano e lavanda visti a volo d'uccello. E' nata orizzontale, ma per un po' l'abbiamo tenuta appesa in verticale, perchè mi andava di vederla in una parete che è - appunto - stretta e lunga, la mattina a colazione. Balsamo e fette biscottate. Col risultato che c'era qualcosa che non andava, e per tutta l'estate ogni volta che ci passavo davanti sentivo un pizzicotto dentro. Una sensazione fastidiosa, come uscire a cena con uno che porta la cravatta a righe sopra la camicia a quadretti. O resta in boxer e calzetti corti.
Per non parlare di un lavoro di Emblema, che a me piace, e parecchio anche, alla faccia di tutti i suoi detrattori. Non me ne frega niente se vale tanto o poco, se varrà tanto o poco. Mi piace l'idea che ha rincorso ed alla fine afferrato (la luce che passa attraverso, non scivola sopra), mi piace l'uso del catrame, denso, viscoso, nero, gettato apparentemente in modo casuale su quella superficie eternamente grezza. Ne ho uno, verticale, un Emblema classico, ben detessuto con tutto il suo gioco di catrami sopra, e una riga in centro, orizzontale, forte, rossa di un bel rosso Rothko. Una macchia vitale. Mica avrà un verso una tela detessuta? Una riga rossa sarà pur sempre una riga rossa, sia verticale che orizzontale? Idem come per il Balsamo, l'avevamo girato di novanta gradi: un quadro senza un verso appeso orizzontale ad un muro di biopietra, quelle piastrelle che si applicano con la colla alle pareti e ti fanno l'effetto-sasso, così attraverso la detessitura le vedi. E la sua riga rossa verticale, come una freccia sparata al cielo, o a terra, a seconda dell'umore. Razionalmente mi andava l'idea che stesse lì, ma dentro invece mi stonava da matti. 
Oggi abbiamo ripristinato l'equilibrio naturale dei nostri quadri astratti. E la casa respira. Perchè è pazzesco scoprire l'armonia intrinseca nelle cose, non puoi pretendere di farla girare a modo tuo. L'astrazione vera è difficile da capire e ancor più da fare, è uno step oltre l'albero, la barca, il ritratto della nonna. Ho guardato dei quadri girati di novanta gradi e mi è piombato addosso tutto Kandinskij, che viveva i colori come note, le forme come suoni, e dipingeva intere sinfonie con il pennello, senza che nessuno osasse leggerle al contrario. Sinfonie mute, da ascoltare con gli occhi. Gli ho anche chiesto scusa col pensiero. E' qualcosa che va oltre l'oggettivo: è così e basta. In un senso funziona, nell'altro no. In un senso ti avvolge di cromie come di seta preziosa e morbida, nell'altro te le spara addosso con cattiveria. In un senso canta, nell'altro urla. Non sono riuscita a capire razionalmente come funziona, ma è un dato di fatto: non si può piegare l'arte ai propri umori. Devi tu assecondare i suoi, e lasciarla fare. Improvvisamente scopri che va tutto per il verso giusto.

"Sguardi" opposti

Il mio nuovo venditore non sta andando molto bene. Probabilmente non è neanche colpa sua, oggigiorno continuare a fare questo mestiere è una prova di coraggio. Non parlo del mio mestiere di Agente, che sta in effetti su un piano diverso, parlo dei nostri sottoposti, quelli che - in teoria - dovrebbero galoppare dalla mattina alla sera bussando a porte sempre più chiuse, parlando fino a fiaccarsi con visi sempre più torvi, e guadagnando la metà di quanto guadagno io a parità di affare (perchè quello passiamo, Euro più Euro meno, ai nostri Subagenti). E' vero che non ha nè mie responsabilità nè i miei obblighi, e tanto meno i miei costi, neanche lontanamente, però mi rendo conto che se spesso faccio fatica a far quadrare i conti io con la provvigione piena, può essere un problema farli quadrare con la retrocessione al cinquanta (soprattutto se si considera che con quello che c'è qua fuori la pratica più diffusa per tenersi i Clienti è l'abbuono).
Così va a finire che, dal momento che ci deprimiamo a vicenda quando parliamo di assicurazioni, ci ritroviamo spesso a parlare delle nostre passioni, di arte, e di fotografia, che è la passione sua (è doveroso un saltello all'indietro fino a Marzo, per una seconda letta al post "L'ovvio, e oltre"), sempre in bilico tra restare tale e diventare, invece, una vera e propria attività, una professione, magari complementare all'altra come io gli auguro sistematicamente, per spronarlo alla positività e per invogliarlo a fare questo benedetto passo, che mi sa gli farebbe un gran bene (per qualche anno ho avuto come impiegata part-time una ragazza che, nel resto del giorno, lavorava in un Centro estetico, e si giostrava benissimo i Clienti: invitava i nostri a farsi le lampade distribuendo campioncini di creme solari, e a quelli del Centro passava i nostri bigliettini da visita).
Per farla breve, qualche mese fa - perchè un discorso che riguardava i profondi mutamenti nella mia vita privata ci aveva portato lì, su come da un niente può nascere un mondo - gli ho fatto leggere il brano che avevo scritto per Claudio Cionini, per la sua Mostra di Roma che è ormai alle porte, e gli è piaciuto. Magari si è anche sorpreso, perchè un conto è sapere che la tua Capa ama l'arte ed è una persona spigliata e divertente, un conto è vedere che quello che scrive finisce davvero su cataloghi di mostre istituzionali, a fianco di nomi come Salvatore Italia e Giovanni Faccenda. Di certo ha avvertito anche lui la stessa empatia, perchè ha il mio stesso background di bambino del cemento. E mi ha chiesto di scrivere qualcosa di simile anche per lui, per un progetto fotografico che stava portando avanti in previsione di un libro. Un progetto maturato negli ultimi anni della sua professione di Agente di Commercio (prima di approdare alle assicurazioni), durante i quali percorreva sempre la stessa tratta, e mentre il suo occhio di rappresentante era fisso sui listini, l'altro occhio - quello del fotografo - guardava il paesaggio che mutava, che si svuotava, che si impoveriva (una campagna, nel tempo industrializzata, urbanizzata, addirittura "umanizzata", che tornava ad essere campagna, ad essere assenza, ad essere solo silenzio). Mi ha mostrato moltissimi scatti, tutti in bianco e nero - a mio giudizio belli, alcuni bellissimi, di un vuoto violento, con contrapposizioni molto forti - illustrandomi a grandi linee l'idea di fondo. E io mi ci sono calata dentro, durante le mie, di pause, tra una telefonata e l'altra, o a casa, durante la mia domenica di sola calma, quando il telefono tace e sento solamente la tastiera che scorre in sincrono con il battito del cuore. Ho rielaborato il mio saggio su Cionini, ovviamente, perchè era giusto tornare ad utilizzare certi termini, ad evocare certe immagini, senza arrampicarsi sugli specchi cercando nuove e diverse interpretazioni; e poi l'ho calato all'interno di quello che il suo progetto stava trasmettendo a me. Ne è venuto fuori un nuovo scritto intitolato "Sguardi", che posto assieme a questo, qua sotto. 
Ma la sorpresa è venuta dopo, nel senso che quando gliel'ho dato da leggere ho scoperto che eravamo su estremi opposti. Prima ancora che me lo dicesse, timidamente: vedevo che deglutiva e non aveva il coraggio di alzare gli occhi dal foglio, mentre io attendevo con una punta di curiosità mista ad un filino di sadismo, data la gerarchia. Per lui tutta la sequenza di fotografie era una sorta di denuncia sociale, mentre io invece l'avevo interpretata (proprio per il suo specifico susseguirsi) come un viaggio verso una speranza di cambiamento. Credo che - sotto sotto - lui ci sia rimasto davvero male, tant'è che mi ha subito voluto spiegare più dettagliatamente cosa intendeva trasmettere con le sue fotografie, e mi ha chiesto di modificarlo, di renderlo più consono al reale messaggio dei suoi lavori. Io - da gran bastarda - gli ho risposto picche (io NON scrivo a comando, quella ero io e così doveva restare), presumo mettendolo in un imbarazzo enorme, perchè non se l'è sentita, a quel punto, di dirmi "no-grazie-allora-non-lo-stampo", ma si vedeva lontano chilometri che stava maledicendo il momento in cui mi aveva chiesto di scrivere per lui; insomma, sono pur sempre il suo datore di lavoro. 
E invece è stato bellissimo così! E' esattamente lo scopo di un'opera d'arte (per lui chiaramente la fotografia è arte, io sono sempre tra "color che son sospesi", come ho già dissertato in precedenti post, ma qui ci stava): provocare, suscitare, trasmettere, aprire una porta, far balenare un'idea, creare empatia, emozionare! Io ci leggo il mio, tu ci leggi il tuo: l'opera è la stessa, la visione può essere diversa, a seconda dell'anima di chi la guarda, la sente, la vive calandola nella propria realtà. E' questa la sua grandezza, la sua immensità, la sua eternità! Mica siamo tutti uguali, se il messaggio fosse univoco sai che noia mortale.
Io non sono stata lì a perder tempo per spiegargli cosa pensavo, ho lasciato che decidesse da solo, e lui alla fine ha semplicemente spostato il mio brano - rispetto alla bozza - dalle prime pagine del libro (stava subito dopo il suo, la sua presentazione in quanto autore) alle ultime, dopo l'ultima foto, pagine settantadue e settantatre. 
E sono contenta, perchè è giusto così: la positività lasciamola alla fine, perchè torna a riempire a metà il bicchiere mezzo vuoto.

Sguardi

“I pensieri messi per iscritto non sono nulla di più 
che la traccia di un viandante sulla sabbia: 
si vede bene che strada ha preso, ma per sapere che cosa ha visto
durante il cammino bisogna far uso dei suoi occhi”
(Arthur Schopenhauer)

Ci sono incontri che sorprendono. Perché ci sono persone che, ancora, sanno sorprenderti.
Giovanni Pasinato è una di queste. Il nostro incontro è stato uno dei numerosi momenti della vita in cui ti interroghi, inevitabilmente, sul significato della parola "casuale": quei momenti particolari, crocevia di emozioni e di scelte, in cui avverti nettamente l'aprirsi ed il chiudersi delle proverbiali porte.
Io di professione faccio l’Agente di Assicurazione, e Giovanni era uno dei miei Clienti: di lui sapevo che era rappresentante di semilavorati in acciaio, laureato in giurisprudenza, celibe, senza figli né animali per casa. Tutto quello che serve sapere per proporre coperture assicurative adatte, insomma. Poi un giorno la vita ha sparigliato le nostre carte, facendo scoprire a lui che io sono una malata d’arte contemporanea, e a me la sua fotografia: passione, compagna di viaggio, antico amore, con cui crescere maturando dentro e fuori.  
Ecco come nasce una favola da raccontare. 
Una storia il cui futuro è scritto ora, in bianco e nero, in queste pagine; una storia il cui passato parte da lontano, quando Giovanni (il rappresentante che credevo di conoscere) macinava migliaia e migliaia di chilometri l’anno tra il Veneto e l’Emilia Romagna con un’autovettura, nera pure lei.  
Chilometri di albe su strade vuote, con in mano bollettari, listini e fatture di semilavorati. 
Chilometri di tramonti su strade sconosciute, con la fedele Fuji a fargli da passeggero, silenzioso ma mai muto, ed occhi e cuore sempre vigili per cogliere l'attimo.
E' su queste strade, invisibili raccordi tra mondi più noti, che nasce il progetto "Tensioni", inusuali sguardi lungo il percorso tra Piacenza e Mestre.
Due città, diverse, per la loro storia, per la loro realtà, per ciò che le circonda. Duecentocinquanta chilometri, forse poco più. Sali in macchina, accendi il motore, parti, guidi, spegni il motore, scendi: sei arrivato. Perché c’è sempre un “da”, e c’è sempre un “a”, questo è chiaro. Ma oggi Giovanni ci accompagna nel “tra”: ci accompagna in quella terra di mezzo dove nessuno vuol posare lo sguardo, se non alla ricerca annoiata di un’indicazione stradale o, al limite, di un bar, e ci mostra come anch’essa esista, anch’essa sia viva, anch’essa abbia una storia, che diventa presente solo se lo sguardo – da annoiato - si fa attento. In queste fotografie si snoda un racconto di anziani, come davanti alle scintille di un camino invernale, si intravede una fiaba antica, si ascoltano vite diverse eppure, tra loro, simili. Paesaggi extra-urbani, o mai urbanizzati, all’apparenza nature morte, che reclamano un nome, un suono, un tassello nel mondo.
Non è un caso che proprio Giovanni Pasinato abbia raccolto questa sfida, abbia avvertito questa muta richiesta, abbia voluto dare un momento di eternità a vecchie lamiere, a solitario cemento, a fili d’erba su argini calpestati, a sguardi di asfalto spezzato. Perché Giovanni è uno dei tanti “bambini del dormitorio”, come me del resto: siamo nati e cresciuti in quella Mestre degli anni Settanta, soffocata, grigia, informe, pervasa dagli odori cattivi della chimica, e l’abbiamo comunque amata. Abbiamo giocato con lei, quando ancora non aveva un piano regolatore, e i condomini spuntavano aggrovigliati tra loro senza logica. Molto prima che venisse ripulita, riordinata, riqualificata, prima che venissero riscoperte le sue origini medievali, quando era ancora solo il lasciapassare obbligatorio e un po' sudicio per raggiungere gli sfarzi e la storia immortale della vicina Venezia, e chi ci si fermava lo faceva solo per sbaglio o per trovare un hotel a prezzi modici. Già allora, noi bambini sapevamo guardare "oltre": un campetto con tre alberi, magri e senza fiato, diventava un castello; il nostro Parco - che di verdeggiante aveva mantenuto solo il nome - immensa distesa d'asfalto su cui pattinare, con le rotelle a solcare immaginarie onde di mare e vento; e tante strade di ogni forma e dimensione, intrecciate come mani di innamorati, per organizzare infinite battaglie sui pedali di due minuscole ruote.
L'obiettivo rotondo di Giovanni, nell'immortalità del suo bianco e nero, ci chiede di tornare bambini, dunque, perchè il paesaggio diventi come l'occhio di chi lo guarda: pulito, semplice, innocente, ricco di curiosità. Sarà questo sguardo che, come pennello vivo, inserirà calore e colore nelle immagini, in un susseguirsi di richiami: cavalcavia massicci, linee rette lanciate verso un lontano infinito, si mutano in corsi d'acqua misteriosi; inanimate architetture industriali - pensiline, serbatoi, tralicci, gru ora ritte ora distese e addormentate - si sciolgono e prendono nuove forme, abitazioni dimenticate anch'esse, già avvolte dall'abbraccio dei rampicanti. Un aereo militare, agli occhi di un bambino, non è meno vivo di un cavallo, o della fugace presenza di un ciclista. Muta, quindi, il paesaggio, si trasforma, si evolve col passare dei chilometri. Aperto, silenzioso, terso; la presenza umana non si vede ma si avverte continuamente. E ti coinvolge, ti attira, fino a quando, senza renderti conto, ascolti il mare che ti lambisce, fresco e spumoso, e comprendi che il viaggio è giunto al termine: hai dato vita ad una storia silente, che attendeva il tuo passaggio per respirare ancora.






domenica 25 agosto 2013

Atmosfere

Mi capita praticamente ogni anno, quando sta terminando l'estate. 
Perchè l'estate termina a fine Settembre solo sulla carta, giusto perchè andava bene così, quando è stato istituito il Calendario attuale, e bisognava decidere un inizio e una fine che mettessero d'accordo tutti. 
In realtà l'estate qui da noi termina ora, con la fine di Agosto, quando di giorno il caldo è ancora caldo, ma non è più afa, non è più umido spalmato come colla, che appiccica capelli e vestiti. Quando la pioggia - bellissima d'estate, leggera, tiepida, quasi vapore prima ancora di toccare la distesa d'asfalto bollente - diventa cupa, incattivita, notturna. Si sfoga, di notte, ogni notte, con violenza, fa l'amore con il vento, e sussulta nell'abbraccio dei tuoni. E al mattino, quando apro le finestre e ascolto il frullare dei miei pensieri, già pronti, meticolosi, ordinati sulla scrivania, proiettati al lavoro dei prossimi mesi, al mattino l'aria punge un pochino, solo un poco, ma prima delle sei è così. Ho un termometro fuori, in terrazzo; i miei gesti mattutini rincorrono le loro stesse abitudini: aprire le imposte, uscire - io sola, mentre il tutto dorme - guardare la temperatura esterna prima che il calore della casa, il mio calore, la contamini, e annusare l'aria, e respirare. Sono sempre venti gradi, fuori, alle sei di mattina, come un paio di settimane fa; ma qualcosa pizzica, e la mia mente vola alle montagne.
In questi giorni in cui l'estate si stempera nel prurito di un nuovo autunno, come ogni anno la poesia mi apre il cuore. Malinconia. Attesa. Speranze.
La cerco dappertutto: nell'immensa rete del web, nei vecchi libri, nei miei ricordi. E' come aprire un rubinetto quando hai sete, un gesto istintivo. Ne ho un bisogno quasi fisico. E' come chiudere la lampo del sacco a pelo, dentro un rifugio ad alta quota: tu dentro, accoccolato, protetto come in una reminiscenza d'utero caldo, mentre fuori il cielo scuro cerca di entrarti, liquido, nell'anima. Ci sono notti di rifugio in cui gli squarci delle stelle fanno quasi paura, tanto sono immensi.
Ho imparato due lingue straniere nella mia vita - finora, almeno. Poter leggere poesia in lingua originale è da privilegiati; ho un'ammirazione sconfinata per i traduttori di poesia: è un compito arduo e improbo. Poche volte ci riescono completamente, infatti. Non è solo il peso delle parole, il loro significato: è la sequenza stessa, è la cadenza. Ci sono poesie che, lette, sembrano sinfonie musicali. Partiture per l'anima. Cambi la lingua ed è come fare analisi logica su un trattato di profilassi antitetanica.
Inglese, la prima, sempre utile, sui banchi, ma soprattutto spagnolo, poi, per scelta. Una scelta adulta, di cui porto ancora disegni sulla pelle.
Neruda. Salinas. Benedetti. Lorca. Bolle che risalgono dal profondo, si spingono su attraverso una strana viscosità, e poi affiorano, e scoppiano, si abbandonano sulla superficie. E' un'immagine ricorrente, per me, questa delle bolle nell'acqua. C'era una mezza botte, credo, o forse era solo un grosso mastello, nel terrazzo della casa di mia zia sul Lago di Como, un terrazzo vastissimo ed assolato dove ho passato infinite estati, con i piedi che scottavano sulle piastrelle - poi l'hanno ricoperto, creando una enorme veranda per i "grandi" estremamente confortevole, travata e con ampie finestre scorrevoli, ma per fortuna io ero già cresciuta, e non ho sofferto troppo: la parte di me bambina del cemento aveva fatto in tempo a viverne la magia all'aperto. Magia di aria e di sole. 
La botte era un richiamo continuo, per noi piccoli, come tutto ciò che gli adulti proibiscono. Mia zia ci teneva le ninfee: ricordo l'acqua scura, torbida, quasi verde, che ti impediva di vedere il fondo. Ti entrava negli occhi soggiogandoti, con una punta di paura. Uno degli innumerevoli gatti che popolavano la casa delle mie vacanze ci era finito dentro da cucciolo, era stato salvato appena in tempo (con una fantasia senza pari si era beccato subito il nome di Mosè; probabilmente da adulto, bellissimo e sdegnoso come il suo manto per metà persiano, si vergognava più del nome che del ricordo). 
Sulla superficie galleggiavano le ninfee, corolle di petali rosa e al centro un cuore giallo, asciutte, quasi irreali, con le loro larghe foglie su cui potevi appoggiare una macchinina, una caramella, un pupazzetto di carta, come su un prato opaco e striato, inventandoti una storia dopo l'altra e chiedendoti come mai la macchinina sì e il piccolo Mosè no, lui era andato giù di sotto subito, annaspando, con il suo prato diventato improvvisamente sottile ed inutile come carta velina.
E a volte, dal fondo del mastello, quel fondo lontano e torbido che un braccio di bambina non poteva raggiungere, nemmeno afferrando il gambo sotto la corolla e seguendolo piano, verso il basso, a volte da quella profondità lontana salivano le bolle. Rade, improvvise. Affioravano dal nulla come il respiro passeggero di un pensiero inespresso. E svanivano. Tu aspettavi di vederne una, e potevi aspettare per ore; poi desistevi, ed eccola. Ancora oggi - e sono passati quarant'anni! - sento alla base della nuca quel ricordo vivido, di qualcosa di nascosto che si fa improvviso. Senza che tu lo voglia. Quando non te lo aspetti, perchè lo hai aspettato troppo. 
Questa è la poesia di oggi, una bolla che mi ha raggiunto dalle mie stesse profondità, ed è ancora qui, che indugia sulla mia superficie, e io so perchè.         

No te amo como si fueras rosa de sal, topacio
o flecha de claveles que propagan el fuego:
te amo como se aman ciertas cosas oscuras,
secretamente, entre la sombra y el alma.
Te amo como la planta que no florece y lleva
dentro de sí, escondida, la luz de aquellas flores,
y gracias a tu amor vive oscuro en mi cuerpo
el apretado aroma que ascendió de la tierra.
Te amo sin saber cómo, ni cuándo, ni de dónde,
te amo directamente sin problemas ni orgullo:
así te amo porque no sé amar de otra manera,
sino así de este modo en que no soy ni eres,
tan cerca que tu mano sobre mi pecho es mía,
tan cerca que se cierran tus ojos con mi sueño.

Pablo Neruda

(Non ti amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
ti amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima. 
Ti amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
e grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.
Ti amo senza sapere come, né quando, né da dove,
ti amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti che così,
in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.)

mercoledì 21 agosto 2013

Oggi parla.../13

... Charlie Chaplin:

"Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione; perchè la tua coscienza è ciò che sei, la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te. E ciò che gli altri pensano di te è problema loro"




















                                                                                                       
Mestre (VE), 14/10/1973