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domenica 12 febbraio 2012

Ecco una cosa che non so

Ammetto la mia ignoranza, ma non riesco a considerare “arte” la fotografia.
Non che non mi piaccia la fotografia, anzi, mi piace moltissimo! Per un lungo periodo della mia vita ho fotografato tanto; come regalo per la Cresima, invece delle solite medaglie-medagliette-crocette o dell’orologio (tutti regali standard, per capirsi, come le cornici d’argento per i matrimoni) avevo praticamente preteso che arrivasse la macchina fotografica. Che infatti arrivò puntuale, non nuova a dire il vero: semplicemente la macchina fotografica di mia mamma – a sua volta avuta dal nonno – passò di mano e fu mia, tanto meglio se non era nuova, perché quella la sapevo già usare, con la sua custodia panciuta e le sue ghiere.
Ho consumato intere paghette in pellicole Kodak da 36, vivendo con la macchina fotografica appesa alla mano e costringendo mio fratello piccolo ad assurdi tour-de-force come fotomodello (anche appeso a rami d’albero). I miei soggetti preferiti erano sostanzialmente due: ritratti e costruzioni fotografate da sotto. Niente panorami, niente tramonti, niente fiori; gran chiese, campanili, palazzi rigorosamente in prospettiva da sotto in su, e poi visi, occhi, facce. Mi affascinava da morire come la fotografia, pur ritraendo esattamente la realtà, potesse cambiare un viso, coglierne aspetti, sguardi, che dal vivo non si notano. Parlo ovviamente del Cretaceo, quando il digitale non c’era e le foto non si potevano ritoccare – per lo meno per noi comuni mortali.
Questo strano smodato amore per la fotografia è genetico: nonno, mamma, zia, con il classico diagramma a albero. Mia zia aveva addirittura ricavato un laboratorio da un ripostiglio cieco, e sviluppava; per noi bambini, che passavamo le ferie estive da loro, il permesso di star lì dentro con lei era il regalo dei regali. Io non capivo perché non potevamo starci tutti insieme, dal momento che essere l’unica bambina all’interno di una stanza buia mi creava un timore ancestrale (se chiudo gli occhi e ci penso, risento ancora il lieve disagio e la fitta allo stomaco). Adesso mi rendo conto che sarebbe stato praticamente impossibile gestire tre bambini in una camera oscura, quand’anche bambini di una volta, bambini cioè che comprendevano il significato dell’ordine “stai fermo e zitto” dato da un adulto, a differenza dei bambini attuali (io non ho ancora capito qual è la password per farli spegnere, giusto perché adesso si usano le passwords). Ma all’epoca rappresentava una prova; avrei preferito sicuramente avere vicino mia sorella grande – per trarne conforto – o al limite mio fratello piccolo, per scaricare l’onere della fifa su di lui. Anche perché il buio era forte (quella ridicola lucina rossa non mi tranquillizzava per niente), e soprattutto una volta dentro non potevi cambiare idea e voler uscire, se non a stampa ultimata. Questa costrizione, ancorché scelta volontariamente, era ogni volta un banco di prova per il coraggio. Ma passava, passava quando la zia cominciava a coinvolgerti nelle varie operazioni, che come ordini militari diventavano sempre più importanti man mano che si cresceva. Da piccoli piccoli potevamo solo reggere l’orologio contasecondi (grosso, grigio, pulsante verde via, toc, toc, toc, pulsante rosso stop); poi crescendo arrivava il momento di agitare il contenitore per lo sviluppo dei negativi, ma la vera iniziazione si aveva con la carta, da immergere nelle vaschette con la pinza, agitando piano fino a quando appariva l’immagine, fatta tutta da te, dallo scatto al comodino.
Il mio amore per la fotografia ebbe una violenta battuta d’arresto quando nella mia vita entrò colui che sarebbe diventato mio marito; come il giorno e la notte, come il bianco e il nero. Lui detesta sia essere fotografato che fotografare, ed entrambe le cose diventavano un problema. La prima figuriamoci, con la mia mania per i visi, ma anche semplicemente per un ricordo delle vacanze, se io sto da questa parte della macchina fotografica è evidente che tocca a te stare dall’altra. Circa la seconda, diciamo che lui intende la fotografia più come un usa-e-getta, con la macchina che fa tutto da sola, basta un clic e via. Ricordo la prima gitarella in Costa Brava, quando gli ho letto l’orrore negli occhi solo perché volevo ritornare in un determinato posto dove eravamo passati alla mattina, perché con la luce del pomeriggio le foto sarebbero state migliori (con il controluce non si scherza mica). Oppure vederlo nauseato perché per scattare ci mettevo più di 2,5 secondi; ma fotografare non è solo il risultato, è anche il piacere della preparazione, dello studio della luce, della scelta dell’obiettivo, con una vera reflex non digitale sei tu che decidi tutto, non lei, vuoi mettere? Quante Cattedrali di Rouen ha dipinto Monet solo perché la luce cambiava?
Comunque, torno all’argomento che volevo affrontare. Chiarito che io adoro la fotografia, non riesco a sentirla come “arte”, o meglio vedo da me che alcune foto sono dei veri capolavori al pari dei quadri, ma non mi va di pagarle come tali, perché quadri non sono. Nel quadro c’è il pennello, il colore, la mano, c’è la bravura del pittore (c’è il pittore bravo e quello cane); mi hanno fatto notare che anche Alighiero Boetti non dipingeva eppure i suoi arazzi sono opere d’arte e costano un patrimonio. Vero, però per lo meno sono ricamati, nel senso che qualcuno ha preso ago e filo e ci ha lavorato un po’ (al di là della potenza dell’idea). Con la fotografia chi scatta ci mette la sensibilità della visione della scena, ma poi fa tutto la macchina. E poi un quadro è un unicum, altrimenti finiamo nella grafica d’autore (serigrafie, litografie) che però ha tutt’altri costi. Ecco, capirei le fotografie pagate come grafica, non come dipinti. Per esempio, mi affascinano certe foto di Vanessa Beecroft, ma per me il suo essere “artista” è nella creazione della performance, non nel clic. E’ in quello che ci sta dietro, in quello che sta nella sua testa. Per il resto è bravura dell’apparecchio. Perché non paghiamo migliaia di euro le foto del National Geographic? E sì che ce ne sono di meravigliose, basta comprare i loro libri e ne può godere il mondo. Telemarket sta facendo un tam tam incessante per il cinese Huang Kehua, che è davvero un fotografo eccezionale (dico Telemarket perché l’ho visto lì per la prima volta, ma in effetti è un signor nome); ma ricordo – sempre a casa della famosa zia negli anni Ottanta – libri di Fulvio Roiter che nulla avevano da invidiare alle sue acque veneziane. La differenza non può stare solo nel supporto (lastre metalliche al posto della carta) o nella tiratura.
Evidentemente sono ignorante.

2 commenti:

  1. Beh, in fondo se il beach volley è diventato sport olimpico e se non sbaglio lo sarà anche lo squash io direi che la fotografia PUO' anche essere definita una forma d'arte...

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    1. Sicuramente può esserlo. Se guardiamo la definizione di ARTE (da Wikipedia, come sono ridotta in basso - datemi il mio Treccani, o al limite un Devoto/Oli - ma in questo momento ho sotto mano solo Internet) dice che "comprende ogni attività umana che porta a forme creative di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall'esperienza". Quindi sì, certo, c'è pure l'accorgimento tecnico. Quello che mi fa tentennare un pochino sono le richieste economiche su fotografie (che comportano un clic e una stampa, ancorchè particolare) con coefficienti al pari di signori quadri fatti da signori artisti con mano, pennello, colore, e tempo. Maturerò anch'io.

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