Questo doveva essere il post di ieri.
Ho letto una lettera scritta a L’Espresso da un povero cristo del 1952 (blocco ogni polemica in partenza: sono abbonata sia a L’Espresso che a Panorama, par condicio e informazione più completa. Il mio personalissimo giudizio è molto diverso tra i due, ma resta personalissimo).
Questo pover’uomo, a 60 anni d’età e 37 di contribuzione, che doveva andare in pensione praticamente ADESSO, con la Manovra si trova a dover lavorare altri quattro anni. Quattro anni, non quattro mesi! Ovviamente gridava signorilmente la sua disperazione, non solo per il pugno in faccia dei quattro anni (una VITA) in un ambiente in cui ti senti ormai vecchio, e figuriamoci con quali motivazioni, ma perché non c’è il contraltare di altrettanti pugni in faccia a TUTTI i nostri cari Rappresentanti sugli Scranni.
Il mio divagare mentale è partito dal pover’uomo, dai suoi sogni procrastinati, dalle sue attese infrante, ed è planato su quelli come me, quelli da me in giù. Io lo sapevo benissimo già dal primo giorno di lavoro che in pensione non ci sarei mai andata a 60 anni, e piano piano mi sono abituata all’idea che non ci andrò proprio. Seppur laureata, ho iniziato presto a “contribuire”, perché ho finito di studiare a 23 anni giusti giusti e ho lavorato fin da subito (ai miei tempi si trovava, già non era più il lavoro dei tuoi sogni, ma almeno – adattandosi – si trovava nel giro di qualche mese), però la bomba delle pensioni era già accesa, bastava fiutare l’aria. Figuriamoci gli attuali ventenni, come minimo dovranno arrivare ai 75. E non credo pesi a nessuno, perché la pensione non l’abbiamo pensata-sognata-anelata, non l’abbiamo sentita vicina e poi vista saltellare via – hop hop – più volte. Viviamo e basta. I nostri nonni e padri aspettavano la pensione (E ANCHE IL TFR, ANCHE QUELLO EH !!) per viaggiare, cambiare la macchina, andare a sciare, trovare un hobby, vivere. Noi no, non possiamo.
MA!! Il brutto-brutto non è questo. Chiaramente se uno sa che in pensione non ci andrà mai, e anche lo accetta, perché lo vede molto lontano nel tempo (come se ti dicessero: Prima o poi morirai; non fai salti di gioia ma lo accetti, tanto è “dopo”), DEVE VIVERE ADESSO. Deve viaggiare adesso, deve cambiare la macchina adesso. Andare a sciare. Trovare un hobby. Abituarsi ad avere il lavoro e… il resto, assieme. Per sempre. Come cavolo lavora uno, così? Che priorità darà mai al lavoro, se sull’altro piatto della bilancia c’è la vita? Un conto è dire: mi sacrifico al 100% per TOT anni, e poi me la godo un po’ (parliamo pure “terrenamente”, lasciamo perdere i messaggi evangelici); altro conto è dire: mi sacrifico al 100% per sempre, e poi muoio.
La mia previsione è che tutta questa massa di gente, da quelli della mia età (che per un po’ hanno contribuito, e poi si sono rotti), a quelli sotto (che non trovano neanche lavoro, figuriamoci quanto sono incazzati), non darà più un bel niente al lavoro. Tutto verrà prima, tutto sarà più importante, ma non solo valori veri effettivamente come la famiglia, o la salute; intendo anche il gossip, la playstation (no, adesso va la wii), Facebook, le ferie, tutto. E sarà un bel problema.
Lo dico da lavoratore che lavora parecchio, e lo dico da datore di lavoro. Un bel problema.
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