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martedì 17 gennaio 2012

Recito Eugenio Montale davanti a Marcello Scuffi

Ieri ho fatto un paragone tra le tele di Marcello Scuffi e le liriche di Eugenio Montale. Oggi mi sono andata a cercare alcune tra le sue poesie che amo di più (sono tutte tratte da Ossi di Seppia) e le trascrivo qui. Sfido chiunque a non essere d’accordo con me: provate a stare in piedi davanti ad un quadro di Scuffi. Magari in estate, nel tardo pomeriggio, con le finestre aperte, sentendo entrare la calura ormai mitigata dalla sera che avanza. Fate silenzio, respirate lentamente. Passate la mano sulla tela (questo solo per chi non l’ha fatta incorniciare col vetro…) che Marcello ha levigato come sa fare solo lui rendendola pura come una parete in calce rasata, liscia come il marmo, priva di qualunque asperità. Soffermatevi sui suoi soggetti dove la presenza umana non serve, è solo intuibile, perché le sue barche, le sue distese d’acqua, i suoi circhi sono molto più umani di chiunque di noi. Tutto è fermo, col fiato sospeso, in attesa che voi recitiate: 

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l'arco del cielo appare
finito.
Chi si ricorda più del fuoco ch'arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.
Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l'usata strada.
Nel futuro che s'apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.  

Ne ho messe solo cinque perché di solito dopo queste il respiro mi manca, una sorta di sindrome di Stendhal della poesia. Montale mi ha sempre fatto questo effetto, anche a scuola, fin dalle medie; anzi, è proprio alle medie che ho imparato ad avvicinarmi a lui grazie alla formidabile intuizione della mia insegnante di Lettere, che – lungimirante – ci ha imbevuto di tutto ciò che sapeva non avremmo letto se non di corsa alle scuole superiori (infatti all’ultimo anno di liceo dopo la gran tirata Foscolo-Leopardi-Manzoni poco tempo rimaneva prima di ritrovarti gli esami tra capo e collo). Chiudo con un’ultima chicca-Scuffi; è "Stasera" di Giuseppe Ungaretti, ma chi non lo sa potrebbe davvero credere che sia di Marcello, è tutta Marcello, un gioiellino, un quadretto piccolo piccolo e preziosissimo:

Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia
(da L’allegria)

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